Non vengo anch'io
- Scritto da Sergio Tavčar
Perchè Bargnani, Belinelli e Gallinari sono andati nell'NBA? Sembra una domanda stupida, però è probabilmente la domanda del secolo. Già, dannazione, perchè? Chi glielo ha fatto fare? I soldi? Ad occhio ed ad un tanto al chilo non vedo altre spiegazioni. Mi rifiuto di pensare che se uno ha solo un milligrammo di cervello e vede le cose con i propri occhi e non con quelli degli altri non riesca a vedere che andare a giocare nell'NBA sia oggigiorno più o meno equivalente alla morte tecnica di un giocatore di basket. Tutto quello che ha imparato in Europa lì deve dimenticarlo. Deve semplicemente mettere su fisico, saltare e correre, perchè da sport di squadra nell'NBA il gioco è diventato un enorme 1 contro 1 giocato da gruppi di persone che per regolamento sono cinque per parte, per cui la difesa per esempio è un elementare tenere il proprio uomo. Se lo si tiene va bene, se no quello che se ne va, va a canestro. Con la conseguenza che le varianti tattiche di dargli un lato, spingerlo verso una determinata zona del campo dove ci saranno gli aiuti, eccetera, tutte le varianti difensive (parliamo tanto dell'attacco troglodita che si usa nell'NBA, ma per la difesa vale lo stesso discorso) normali per un gioco di squadra come il basket dovrebbe essere se ne vanno a farsi benedire. E dunque se hai fisico giochi, se no non giochi. Se sai giocare, se vedi il gioco, se trovi la lettura giusta per scardinare la difesa avversaria (pensata come difesa "europea", 5 contro 5) coinvolgendo questo compagno invece che quest'altro, se sai scegliere l'opzione giusta in un dato momento, tutto questo laggiù non conta. Corri? Salti? Bene. Non corri? Non salti? Ed allora tutti, compreso quella pippa allucinante che giocava a Roma, Brandon Jennings mi sembra si chiamasse, ti vanno via e tu fai una figura del piffero. (Per continuare a leggere, clicca sotto su "leggi tutto")
Di telecronache, Olimpija e citazioni
- Scritto da Sergio Tavčar
Supponevo che il mio ultimo post avrebbe scatenato tutta una serie di reazioni fra le più disparate, in quanto l'argomento si prestava, e non sono stato deluso. A questo punto però vorrei un momento intromettermi, in quanto mi sembra che sia necessario un po' correggere la rotta, avendo la discussione imboccato secondo me un vicolo cieco.Ho molto apprezzato l'ultimo intervento, anche molto lirico e sentito, di Julius6 col quale è impossibile non essere perfettamente d'accordo. Il problema è però che nel mio post non intendevo assolutamente parlare di "cosa" e "quanto" dire durante una telecronaca, ma di "quando" farlo. Il mio discorso era puramente tecnico ed era, lo ammetto, un discorso con uno scopo un tantino trasversale della serie parlo alla suocera perchè nuora (leggi altri addetti del microfono) capisca. Sui dati, sugli aneddoti, sul modo di presentare le cose, tutto giusto. Essendo poi questione di gusti il discorso si complica ulteriormente perchè è assolutamente impossibile piacere a tutti. È un'eventualità esclusa da qualsiasi basilare calcolo probabilistico. L'importante da questo punto di vista è di essere sinceri nelle proprie opinioni, di non essere al soldo di nessuno, di dire sempre le cose che si pensano, poi come si riesce a farlo è tutto un altro paio di maniche. (Per continuare a leggere clicca sotto su "leggi tutto")
Telecronisti radioattivi
- Scritto da Sergio Tavčar
Premessa: ogni commento della serie "pensa per te" oppure "da che pulpito viene la predica" è totalmente superfluo, nel senso che lo do per scontato. La gente non mi crede quando dico che in 40 anni di carriera sono state ben poche le volte nelle quali ho guardato la differita di una partita da me commentata. E quando l'ho fatto bastano le dita di una mano per contare le volte nelle quali alla fine mi son detto: "Beh, non è stata male come telecronaca". Il più delle volte cambio canale bofonchiando cose tipo: "ma cosa dice 'sto qua", senza rendermi conto di essere io lo 'sto qua. Non è vezzo. Potete credermi. Il mio senso di autocritica è tale per cui qualsiasi cosa possiate dire è impossibile sia peggio di quanto penso io di me stesso. Una cosa è però vera: fare quasi 40 anni di telecronache mi ha portato tantissime volte a pensare ed a tentare di analizzare il mestiere che faccio, per cui quanto sto per dire è frutto di lunghissime e sofferte riflessioni. Ripeto: totalmente indipendenti da fattori soggettivi. La mia tesi è molto semplice: in Italia la razza dei telecronisti è una razza ormai estinta. (Per continuare a leggere clicca sotto su "leggi tutto")
Fondamenta superficiali
- Scritto da Sergio Tavčar
Continuando a ragionare sul problema e per offrire alla riflessione altri argomenti vorrei ragionare un po' sul perchè, come diceva più che giustamente il succitato commentatore, i giocatori di adesso per imparare qualcosa si rivolgano agli allenatori di "allora". Forse che allora erano più intelligenti? (Oddio...) no, onestamente non lo credo. Ricorderete che tempo fa Alessandro Baricco scrisse un romanzo a puntate sulla Repubblica sui nuovi barbari. Temo che, andando alla radice, il problema stia proprio qui, nello spirito dei nuovi tempi. Nel senso che oggigiorno l'approfondimento più che essere trascurato, proprio non si sa cosa sia. Bisogna sapere un po' di tutto, senza che si senta la necessità di andare al fondo, a capire nell'essenza le cose come stanno. Ora che l'insegnamento del basket in una prima fase forse è meglio che sia di tipo globale, cioè che si parta dall'insieme per poi affrontare analiticamente i singoli segmenti, è probabilmente vero. In me rimane vivo il ricordo delle due tipiche scuole triestine di quando iniziai io: quella della Ginnastica triestina che partiva letteralmente dalle aste e filetti per arrivare a snervanti ed interminabili sessioni di meccaniche ripetizioni dello stesso gesto, una volta imparato il quale si passava alla fase successiva, e dunque c'era una costruzione progressiva dalle fondamenta all'edificio intero, e la scuola dei Ricreatori (praticamente oratori laici, gestiti dal comune) e del Don Bosco (oratorio questo vero, gestito dai salesiani) dove per forza si cominciava dall'assieme, cioè dalle partitelle, per poi passare alla scomposizione del gioco nei segmenti di base lavorandovi in modo parallelo senza privilegiarne uni rispetto ad altri. Ambedue i metodi avevano i loro lati positivi: i giocatori della Ginnastica erano tutti veri e propri manuali del basket, ma leggermente freddi ed impersonali, quelli dell'altra scuola invece più creativi, capivano sicuramente più il gioco, ma tecnicamente non reggevano (anche se di molto poco) il confronto. Per attitudine personale apprezzavo molto di più il secondo sistema, anche se so benissimo che si tratta di gusti. L'importante è, come in ogni cosa, che si sappia cosa si voglia, e la si persegua con costanza e coerenza. (Per continuare a leggere clicca sotto su "leggi tutto")
Un gioco da ragazzi
- Scritto da Sergio Tavčar
Interessante: il post sulla lista all-time italiana è arrivato a 15 commenti, il post successivo che era inteso come miscellanea e con solo un accenno al problema del basket giovanile ha scatenato ben 32 commenti (finora). A questo punto ad uno viene il dubbio che si sia toccato un nervo scoperto e che fra di voi ci siano molti più addetti ai lavori di quanto vogliate far trapelare sotto la maschera dell'appassionato qualunque. Se così fosse, lo volesse solo Dio, perchè vorrebbe dire che ancora qualcuno che tenta di ragionare esiste, è un essere materiale e non virtuale, un marziano fatto umano "vero", insomma.
E allora, visto che interessa, parto da molto lontano con la precisa consapevolezza che non arriverò fino in fondo se non scrivendo un romanzo (magari a puntate, che ne dite?). Dire che i vostri commenti sulla constatazione lapalissiana che facevo tempo fa sul fatto che il basket è un gioco che comincia dalla soddisfazione di fare canestro per poi costruirvi attorno tutta l'impalcatura organica che prevede ovviamente anche la difesa, ma solo come effetto e certamente non causa delle motivazioni che portano un bambino ad avvicinarsi a questo sport, constatazione che mi pareva tanto ovvia da averla espressa praticamente en passant, mi siano rimasti sullo stomaco è dire molto poco. Dove in realtà mi siano rimasti, leggermente più in basso cioè, lascio alla vostra fantasia arguirlo. E onestamente mi hanno dato molto da pensare. A proposito scopro di giorno in giorno che questo blog è anche clamorosamente interattivo, cioè ricevo un feedback estremamente interessante che funge da stimolo a riflessioni sempre più articolate. Alla fine sono arrivato alla conclusione che proprio qui sta il peccato originale della penuria di talenti che c'è attualmente nel basket italiano. Ricevo da molti amici ragguagli su come funzionino i corsi per coach in Italia. O loro mi raccontanto balle, o siamo a livelli già demenziali. Roba da non credere. Quantità di ciarpame inutile, anzi pernicioso, nessuna attenzione ai problemi veri che coinvolgono l'attitudine mentale, la psiche, le motivazioni, l'intelligenza, la capacità di apprendere specifiche abilità motorie attraverso un processo di tipo ludico, la completa castrazione di ogni creatività, in parole povere una totale assenza di conoscenze base di pedagogia. (Per continuare a leggere clicca sotto su "leggi tutto")
Giovani a parole
- Scritto da Sergio Tavčar
Medie di tiro: che, come dicono gli americani, ci siano le bugie, le grandi bugie ed infine le statistiche me ne resi conto da giovincello quando mi sconvolse la notizia che il miglior realizzatore dal campo nell'ABA prima e poi nell'NBA era Artis Gilmore, uno che infatti tirava solo in schiacciata perchè da oltre i due centimetri non la metteva mai. E il bello è che con queste scelte di tiro aveva il 65%! La domanda è: come faceva a sbagliare il 35% delle schiacciate? (qualsiasi bipede avrebbe segnato...). Da quel momento in poi ho assolutamente smesso di guardare le statistiche, tanto meno quelle del tiro (se non dei liberi che loro sì sono un indice vero – se poi volete sapere quali sono ancora le statistiche per me parzialmente significative, sono i rimbalzi in attacco e le palle perse).
Sulla carriera spagnola di Đedović: sia Lorbek a Malaga che Dragić col Tau hanno avuto un primo anno in Spagna catastrofico, salvo poi, come sappiamo, esplodere tutti e due una volta ritornati il primo in Italia (Benetton, Roma), il secondo all'Olimpija. Il che per me vuol dire che in Spagna per un talento giovane straniero (normale, loro ne hanno tanti di propri) emergere è estremamente difficile, per cui il dato secondo me non fa testo.
Intermezzo: sono perfettamente d'accordo che Iguodala non c'entrava la classica mazza con la partita di Kleiza che se l'è fatta sotto in modo dissenterico. Non è certo merito di Iguodala se Kleiza ha spadellato una marea di tiri in perfetta solitudine. (Per continuare a leggere clicca sotto su "leggi tutto")
Errori e non errori
- Scritto da Sergio Tavčar
In velocità una specie di post-post, nel senso di integrazione di quello precedente a mo' anche di commento a me stesso. Dice bene Edoardo: parlando di giocatori italiani la discussione è stata molto meno agitata e feroce rispetto a quella che ha coinvolto quelli jugoslavi, cioè esattamente il contrario di quanto mi sarei aspettato. Pochi, almeno dal mio punto di vista, i commenti, ma comunque molto buoni, ad alcuni dei quali vorrei qui ribattere.
Innanzitutto un mea culpa clamoroso. Inutile, pensavo di averli presi in considerazione tutti ed invece alcuni pesci grossi mi sono clamorosamente scappati dal barile. Non entrerebbero nei miei 12, ma comunque nei 20 di sicuro, e parlo ovviamente di Nando Gentile e Pino Brumatti (e dire che dovrei conoscerli – uno ha giocato per anni a Trieste, l'altro è goriziano ed addirittura amico mio!), per cui chi si è scandalizzato perchè li ho lasciati fuori ha perfettamente ragione. Un altro che andava messo nelle honorable mentions è indubbiamente Meo Sacchetti. Ed un altro di cui avrei dovuto parlare, perchè avrebbe potuto essere il più grande e per ragioni strane non lo è stato, è Claudio Malagoli. Fin qua tutti quelli che mi avete criticato, ripeto, avete perfettamente ragione e, se volete continuare a sparare a zero, sappiate che uccidete un uomo morto.
E poi arriviamo su un terreno minato nel quale ci si addentra nel campo dell'ideologia, o peggio ancora, della fede, per cui ragionare sembra impossibile, andando contro convinzioni di principio. No, non mi sono dimenticato di Ricky Pittis, come non mi sono dimenticato di Aldo Ossola. Di quest'ultimo ho parlato in un mio vecchio post e chi ha voglia di rileggerlo potrà capire tutta la mia sconfinata ammirazione nei suoi confronti. Pittis è stato uno dei giocatori più intelligenti del basket italiano, però ha avuto due periodi: quello milanese, dove era pompato come il Kukoč italiano e, diciamocelo francamente, faceva il fighetto segnando i canestri che il divino Mike gli confezionava, e poi quello trevigiano, quando è diventato uno straordinario uomo squadra che però ai miei occhi allevati al basket jugoslavo aveva il peccato originale e non prescindibile in assoluto, non aveva tiro. E, come lo sapete se avete letto il libro, io ragiono alla jugoslava: no tiro, no basket. (Per continuare a leggere clicca sotto su "leggi tutto")
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