Tutti i popoli che, prima o poi, hanno dominato buona parte del mondo loro conosciuto si distinguevano per una caratteristica. Erano estremamente precisi nel significato delle parole che usavano: a data parola corrispondeva un preciso significato, per cui nelle comunicazioni, concretamente leggi, editti, ma anche istruzione, cultura, letteratura, scienza, tutto si svolgeva entro schemi rigidi ed inesorabili. I Latini dicevano: "Qui bene distinguit, bene docet". Questo precetto ci veniva inculcato quale prima regola durante le ore di latino per farci capire che confondendo i significati col cavolo che saremmo riusciti ad arrivare a capo di una difficile traduzione e per farci capire anche la ragione stessa per cui dovevamo studiare una lingua defunta da secoli. Che poi si sia in realtà solo evoluta trasformandosi nelle varie lingue romanze, per cui chi conosce il latino le impara incomparabilmente prima, lasciamo stare, perché non voglio passare un vecchio barbogio.

E dunque anche noi dovremmo seguire lo stesso precetto se volessimo discutere sul serio e non sparare parole a raffica nel vento. (Per continuare clicca su "leggi tutto")

Vincente è, se mi ricordo ancora qualcosa di grammatica, il participio presente del verbo vincere e significa colui che vince. Dunque, se uno non vince, non può per definizione essere vincente. Però bisogna precisare e dare un complemento al verbo. Vincere cosa? Una guerra, una battaglia, un terno al lotto? Nel basket: un campionato, una partita, il titolo di MVP, la classifica cannonieri? Mettiamo dunque le cose in chiaro: chi vince una qualsiasi di queste cose è un vincente, avendole vinte, scusate il bisticcio, e dunque questo non può essere discusso. La discussione vera è ovviamente su cosa sia più importante vincere ed io, scusate, da vecchio coach, dei titoli di MVP e delle varie classifiche cannonieri, statistiche di rimbalzo, medie di tiro (il 2 su 8 da tre di Teodosić l'altroieri non indica da nessuna parte che il 2 è stato il tiro della vittoria a tre secondi dalla fine), triple doppie, valutazione, OER e puttanate varie assortite, inutili, insignificanti, peggio, mistificanti, non potrebbe onestamente fregare di meno. Anzi, normalmente uno così lo guardo con estremo sospetto, perché, essendo il pallone uno solo con cui ci giocano in cinque, se lui ha tutti quei numeri, vuol dire che qualche suo compagno, che magari avrebbe potuto averli lui, non li ha.

Per cui per me uno vincente è uno che, o vince i campionati, o vince le singole partite. È solo ovvio che preferisco quello che mi fa vincere i campionati. Il quale non è detto che sia un vincente di singole partite, le due cose non c'entrano. Esempio preclaro Dražen Petrović che faceva vincere (tanti) campionati, ma che in tutta la sua carriera non mi ricordo mai abbia segnato clamorosi canestri della vittoria. Mentre ad esempio sia Larry che Magic che Jordan erano entrambe le cose, per cui sono stati assolutamente immensi. Degli ultimi in Europa, fatte le debite proporzioni, solo Bodiroga (ed in parte Jasikievičius) può essere messo loro alla pari

Per vincere i campionati bisogna essere innanzitutto grandissimi giocatori, è ovvio. I quali però devono far vincere la squadra nella quale giocano. E dunque diventa assolutamente discriminante il punto che ho introdotto l'altro giorno e su cui tutti i commentatori, deludendomi profondamente, avete sorvolato, perché era il fulcro di tutto, e cioè quanto hanno reso i compagni di squadra assieme al campione. Se il campione ha elevato le quotazioni di mercato di coloro che giocavano con lui o li ha comunque fatti rendere al massimo assoluto delle loro possibilità, se non addirittura di più, allora sì, lo possiamo considerare vincente. Non solo, ma quanti giocatori apparentemente oscuri, andando a vedere le loro biografie, hanno vinto titoli a caterve, capitando sempre in squadre che, chissà come, con loro dentro vincevano e quando andavano via perdevano? Ecco, se solete sapere, per me questi sono i vincenti assoluti senza discussione.

In fatto di comandare il mondo prima gli inglesi e poi gli americani non hanno certamente scherzato e dunque scherzano molto poco anche con la loro lingua. La parola playmaker l' abbiamo inventata noi perché come tutti sanno meglio di me nel gergo americano di basket non esiste. O meglio esiste, nel senso che viene usata per indicare colui che fa il playmaking, cioè crea il gioco, che può essere tutt'altra persona rispetto alla point guard, il giocatore numero uno che noi tutti identifichiamo subito col ruolo di playmaker. Dunque loro bene distinguono e bene insegnano (o forse è meglio usare il passato). Loro stessi ci dicono che play o guardia di punta sono due cose concettualmente diverse che non si riferiscono allo stesso ambito: play è quello che crea il gioco, che detta i tempi, che coinvolge questo piuttosto di un altro giocatore, che, perché no, comanda la difesa, è in definitiva il leader, il coach in campo. Se poi questo ruolo viene interpretato dal numero uno, la guardia di punta, appellativo che si riferisce esclusivamente alla sua posizione in campo, è in definitiva secondario. Chiaro, l'uno è normalmente il piccolo e normalmente uno piccolo nel basket gioca se è furbo o intelligente. Se è intelligente, sarà anche play, se è furbo, sarà quello che penetrerà, sceglierà se concludere lui, se passare sotto o fuori, sarà insomma il giocatore che creerà l'azione. Attenti: l'azione, non il gioco che è tutt'altra cosa, anche se oggigiorno le due cose, per odioso vezzo americanista, sono state confuse nello stesso termine traduzione di play. In breve: potrà essere benissimo Poeta, Giachetti, anche Gallinari, chi volete. Ma per parlare di play veri, di creatori di gioco e non di azioni, bisogna ritornare a Marzorati, a Caglieris, o al più grande di tutti (eppure non è tanto vecchio, ha la mia età, e dunque qualche suo filmato dovrebbe ancora esistere, per cui potreste anche vedere cosa vuol dire essere vero playmaker), parlo ovviamente di Mike D'Antoni.