Questo sito utilizza cookie tecnici, anche di terze parti. Per ulteriore informazioni sull'utilizzo dei cookie e su come disabilitarli, clicca qui. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando su qualunque suo elemento acconsenti all’uso dei cookie.

Lo sport della minoranza slovena in Italia

Gli inizi dello sport della minoranza slovena in Italia risalgono ai primi anni ’50 ancora sotto occupazione alleata. Ovviamente le associazioni slovene aderivano tutte all’UCEF, il “CONI” filo jugoslavo del TLT al quale per esempio aderì anche il Ponziana calcio che infatti giocò un anno nella massima divisione jugoslava (contro Partizan, Zvezda, Dinamo! – prendendo paghe paurose). All’inizio l’attività si concentrò esclusivamente nel comprensorio di Via di Guardiella dello stadio Primo maggio che era un’area di proprietà della minoranza slovena come tanti altri edifici o comprensori sparsi sul territorio e restituiti alla minoranza come riparazioni ai danni di guerra (iniziata dall’Italia con l’invasione della Jugoslavia il 6 aprile del ’41, ma la gente in Italia sembra dimenticarlo…). Si trattava di poca roba a cura di alcuni entusiasti che, oltre all’atletica leggera, praticavano come sport di squadra solamente la pallavolo, visto che fra i maggiori entusiasti, capitanati dal professore di ginnastica Bojan Pavletič, poi anche mio professore alle inferiori, quasi tutti erano pallavolisti sfegatati. Con gli anni e sotto la guida di leggende del nostro sport quali il professor Franko Drašič o Ferruccio detto “Učo” Jurkič, l'allora unica associazione sportiva della minoranza che agiva nell’ambito dello stadio Primo maggio, l’Unione sportiva Bor, mise in piedi una sezione molto importante di pallavolo, sia maschile che femminile, approfittando del fatto che tutti i ragazzi sloveni che volevano praticare qualche sport, o praticavano la pallavolo, oppure dovevano andare in qualche squadra italiana, dove a quei tempi non erano visti proprio di buon occhio, per cui la base era amplissima. Ebbero anche molta fortuna, in quanto la mitica famiglia di venditori di articoli sportivi Veljak di San Giacomo produsse due fortissimi giocatori, uno era Sergio, poi anche nazionale italiano con la squadra di Firenze, e il secondo suo cugino Valter che è stato fra l’altro da ripetutamente ripetente (scusatemi, ma rende l’idea) anche mio compagno di classe in quinta liceo pur essendo di quattro anni più anziano di me. La squadra femminile inoltre fece addirittura una puntata di una stagione nella Serie A italiana (la concorrenza era però allora ridicola).

Con gli anni l’attività sportiva nella minoranza aumentò esponenzialmente, espandendosi soprattutto dove gli sloveni erano nettamente di più, leggi sul Carso. La pallavolo non fu più l’unico sport di squadra, in quanto proprio sull’altipiano nacquero in rapida successione società locali di calcio, dapprima il Primorje a Prosecco, poi il Vesna a Santa Croce e infine il Breg a Dolina. Poi nacquero tante altre (Zarja, Primorec, Kras, Gaja…), ma le prime tre furono queste. Intanto però il Bor continuava a reputarsi l’”unica vera” realtà dello sport sloveno (e, ahimé, continua a farlo ancora adesso dopo tanti anni facendo figure patetiche, ma è purtroppo ancora e sempre supportato dalle strutture politiche che vogliono per precisa scelta che il cuore dello sport della minoranza rimanga in città), per cui soffocava senza pietà qualsiasi timido tentativo che qualcuno potesse fare sull’altipiano o in periferia di fondare una sua società sportiva (i calciatori erano visti a parte come “traditori” della causa, visto che per la maggior parte i loro giocatori erano di etnia italiana – è difficile mettere insieme 11 giocatori buoni cercandoli in una ristretta cerchia di persone).

A questo punto però successe una cosa fondamentale, nel senso che il Bor, per incrementare la base dei suoi sportivi, ebbe un’idea in sostanza geniale, ma che alla fine si rivelò un fantastico sparo nei propri piedi, come si dice in America. Il professor Pavletič mise in piedi quelli che nelle prime edizioni furono chiamati “Giorni dello sport sloveno” e che poi diventarono, per l’enorme successo riscosso, addirittura “I giochi sportivi sloveni”, riservati a tutta la minoranza in un numero sempre maggiore di sport, non solo dunque la pallavolo. Fu così che a metà degli anni ‘60 fece la sua comparsa nel quadro delle “Slovenske športne igre”, a noi notissime con l'acronimo “SŠI”, anche il torneo di basket. Il Bor non partecipava ai giochi con una sua formazione (si riteneva la “nazionale”), per cui i suoi atleti, leggi pallavolisti, si aggregavano alle varie formazioni di quartiere in città o di paese sull’altipiano, normalmente emanazioni di associazioni culturali, che si assemblavano su base del tutto volontaristica per combattere derby sentitissimi contro il paese o il quartiere vicino. A Trieste per esempio la massima rivalità era fra i circoli Škamperle di San Giovanni e Cankar di San Giacomo, i due più importanti agglomerati sloveni di Trieste (istituto commerciale e Primo maggio a San Giovanni, ex media inferiore unica – da me ancora frequentata - e Primorski a San Giacomo), mentre è inutile rimarcare come a Prosecco l’unica cosa importante era battere Santa croce o Aurisina o di converso a Trebič battere Padriče o Bazovica e viceversa. Opicina in tutto questo, da vera metropoli centrale dell'altipiano, era un caso a parte, in quanto era un paese totalmente a-calciofilo, nel senso che a causa dell’occupazione americana, con relativa creazione del magnifico diamante che c’è ancora, lo sport eponimo del paese era il baseball con la società locale, l’Alpina, che giocava con successo nella massima serie italiana. Di altri sport non si parlava neppure.

Per il basket però, quando finalmente apparve, riuscimmo ad organizzarci bene. A parte il sottoscritto, fanatico di basket da sempre, avevamo come atout due giovanotti che noi adolescenti o quasi vedevamo come maturi signori, uno era un laureando in ingegneria che aveva giocato in una squadra italiana, e uno era addirittura il figlio maggiore del pittore Lojze Spacal, Savo, che era andato a Lubiana a studiare medicina e ovviamente, quando uno è a Lubiana, città di basket come non ce ne sono altre al mondo, lo dico con grande convinzione, non può che appassionarsi a questo sport. Purtroppo però per essere competitivi eravamo ancora troppo scarsi, in quanto il circolo Škamperle di San Giovanni, già nominato, aveva nelle proprie file il Dončić dell'epoca, circondato dalla maggior parte dei pallavolisti del Bor con qualche infarinatura di basket (fra i quali Radovan Fučka, zio di Gregor) che dal punto di vista atletico erano imbattibili. Il fenomeno dei poi vincitori a mani basse del torneo era un ragazzo di Doberdob nel goriziano, di nome Branko Lakovič, appena diplomatosi all’Istituto tecnico commerciale (dove fra l’altro mio padre insegnava inglese), che era un appassionato di basket che praticava attivamente in una squadra italiana, visto che di pallavolo non voleva sentir neanche parlare. Allora stava per iniziare la sua leva in marina che l’avrebbe portato in giro per l’Italia anche e soprattutto a giocare a basket nelle varie squadre delle città dove faceva base, esperienza che gli fu successivamente di grande aiuto. Aveva un bel fisico, non alto, ma molto ben piantato, un’eccellente tecnica e un ottimo tiro, ed era l’unico vero “professionista” del basket di tutta la nostra minoranza.

Al primo torneo di basket dei Giochi parteciparono solo quattro squadre, se ben ricordo, ma lasciò un segno importantissimo. Branko e il nostro Savo Spacal vennero a contatto e con Savo che stava per ritornare a Trieste dopo aver finito gli studi decisero che era venuto il momento di mettere in piedi nell’ambito del Bor anche una sezione basket. Così nel 1966 nacque ufficialmente la sezione basket del Bor che immediatamente si iscrisse al campionato di Promozione (la prima divisione non esisteva ancora) con in squadra, oltre a Branko e Savo, un gruppo molto giovane di entusiasti neofiti, fra i quali anche Peter Starc, figlio di un notissimo medico della minoranza e poi medico anche lui (i suoi fratelli Ivo e Damir furono poi anche loro due cestisti molto bravi), molto dotato per il basket, che infatti anni dopo fu adocchiato anche da alcune squadre italiane di vertice. All’epoca però era appena 15-enne, quindi non certamente un fattore. Io mi ricordo che andavo sempre a vedere le loro partite in Via della Valle aggiornando il tabellone segnapunti. All’epoca non giocavo ancora a basket, ma a tennis tavolo, anche se la mia più grande gioia era quando tiravo da solo a canestro durante le pause dell’allenamento allo stadio Primo maggio. Dopo la prima stagione Savo e Branko decisero che la loro gestione comune quali allenatori non andava bene e Branko riuscì a convincere il suo amico Mario Mari ad abbandonare le ragazze del Mivar di Muggia (con le quali era stato campione d’Italia junior) per prendere in mano il Bor. Mario, poi diventato per tutti noi una specie di padre-leggenda, accettò con entusiasmo, in quanto, pur non parlando una sola parola di sloveno, si riteneva un membro a tutti gli effetti della minoranza, ricordandoci sempre che il nome originario della sua famiglia era Ukmar, poi storpiato dai fascisti.

Per quanto vale (nulla) anche il sottoscritto quell’anno si dedicò definitivamente al basket (a metà stagione) ovviamente senza lasciare alcun segno tangibile della sua presenza. Dopo un buon campionato, terminato nelle posizioni alte di classifica, si aprì uno spiraglio a causa di alcune defezioni e il Bor, senza colpo ferire, si trovò addirittura in Serie D, all’epoca ancora più selettiva dell’attuale C gold. Giocavo anch’io e ogni tanto riuscivo a entrare nel roster dei 12 per la partita, per cui mi ricordo di trasferte a Thiene e Novellara, tanto per dire. Non fu un grande campionato e la squadra retrocedette, ma l’esperienza maturata fu enorme e lo sviluppo cominciò a divenire sempre maggiore, sia di qualità, ma soprattutto di quantità.

E qui ci fu il passo decisivo, conseguenza del famoso sparo nei piedi a cui accennavo sopra. I Giochi ormai a metà degli anni ’60 avevano tanto successo che nei vari paesi dell’altipiano la spontanea aggregazione dei ragazzi per parteciparvi (noi per esempio a Opicina per allenarci in atletica avevamo preparato un campo in piena regola su un prato abbandonato, mentre per il nuoto organizzavamo sessioni di allenamento alla piscina Bianchi nelle ore aperte al pubblico) portò all’inevitabile nascita dell’idea di formare a questo punto una società sportiva in piena regola. Noi a Opicina, dopo una trionfale edizione dei Giochi nei quali fummo secondi dietro al fortissimo circolo culturale (e poi sportivo) Sokol di Aurisina, nel settembre del 1967 ci riunimmo in sessione solennemente costitutiva della nuova società sportiva che per decisione dell’assemblea stessa, su proposta del poi inevitabilmente presidente Egon Kraus, mammasantissima della vita politica e economica non solo di Opicina, ma di tutta la minoranza filo jugoslava, quella che riceveva i soldi da Belgrado (SKGZ), venne chiamata Società Sportiva Polet. Io, malgrado avessi neanche 18 anni, fui subito eletto nel Consiglio direttivo (mi ero messo in mostra come organizzatore e animatore della sezione nuoto, mio secondo sport, nel quale vinsi ai Giochi molte medaglie, fra le quali anche un oro). Praticamente in contemporanea nacquero come funghi in quasi tutti gli altri paesi nuove società sportive, per esempio il Kontovel che poi ebbe un’importanza decisiva nello sviluppo del nostro basket, mentre quelle che fino a quel momento avevano avuto solo il calcio, e segnatamente Zarja di Basovizza, Gaja di Padriciano e Kras di Sgonico allargarono la loro attività anche ad altre discipline, tanto che per esempio il Kras divenne famoso in tutta Italia per i suoi successi nel tennis tavolo. Il Bor dunque ottenne come effetto del suo astuto tentativo di reclutare per sé nuovi sportivi quello di veder nascere tutta una serie di nuove società che immediatamente cominciarono a discutere sul perché e secondo che tipo di investitura il Bor si arrogava il diritto di essere la società guida della minoranza. E infatti cominciò ad esserci sempre più concorrenza con, anzi, le società appena nate che tentavano quasi per ripicca di fare le cose meglio di quanto non riuscisse a fare il Bor che, pure, ricordo, aveva dietro a sé tutta la struttura socio-economica dominante della minoranza. Tutta con l’eccezione decisiva di Egon Kraus al Polet, persona scomparsa da circa 15 anni che però, più passa il tempo, più riconosco come il vero deus ex machina dello sviluppo di tutto il nostro sport, straordinario politico e stratega che a quei tempi nessuno di noi amava particolarmente per i suoi modi di fare superiori, autoritari e in definitiva arroganti.

Dopo un anno nel quale la società mosse i suoi primi passi senza una particolare direzione, all’inizio della stagione successiva la nostra dirigenza decise di cambiare rotta fondando due sezioni, pallavolo e basket, per le ragazze (i ragazzi, ricordo, giocavano quasi tutti a baseball) e subito dopo mise in piedi la sezione di pattinaggio artistico a rotelle che poi ottenne straordinari successi con addirittura due campioni del mondo, Samo Kokorovec fra i ragazzi e Tanja Romano fra le ragazze. Io, a neanche 19 anni, mi misi alla guida della sezione basket e, devo dire immodestamente, dopo un inizio a livello quasi carbonaro, in un anno riuscii a coinvolgere un cospicuo numero di ragazze mettendo in piedi addirittura due squadre, una delle classi ’55 e ’56, e l’altra del ’57 e più giovani (fra le quali c’era anche Liliana Fučka, cugina del padre di Gregor). Quello che reputo il mio grosso successo fu un minuscolo fatto politico, quando nel campionato allieve giocammo una partita contro la Ginnastica Triestina nella sua mitica palestra ricolma di riferimenti irredentistici e patriottici e prima della partita nell’augusta palestra risuonò il blasfemo “trikratni zdravo” (tre volte salute) con il quale salutammo le avversarie, prima volta che l’aborrita lingua degli schiavi risuonava in quel sacro luogo (negli anni precedenti quando la Ginnastica doveva giocare contro il Bor si giocava in campo neutro – i tempi erano ancora quelli).

Il successo riscosso dalle ragazze fece sì che i loro compagni maschi di classe cominciarono anche loro a interessarsi a questo sport, ma la società era riluttante a mettere in piedi anche la sezione maschile per non urtare troppo la sensibilità di quelli del Bor. I ragazzi però non si dettero per vinti. Convinsero il loro professore di ginnastica Zadnik a iscrivere una squadra della scuola al torneo per scuole medie inferiori e mi chiesero di dare una mano in panchina durante le partite. Mi accorsi subito che alcuni di loro erano molto dotati, per cui alla fine della stagione ’69-’70 riuscii a convincere i capi a acconsentire affinché fosse fondata anche la sezione maschile.

Fu una specie di valanga. Per i ragazzi del paese praticare uno sport in un ambiente locale dove si parlava in sloveno con il campo all’aperto proprio al centro del paese era una magnifica occasione anche per stare insieme e in pochissimo tempo mi trovai fra le mani addirittura due squadre con in prospettiva la possibilità reale di mettere in piedi anche una sezione di minibasket. Dovetti abbandonare le ragazze che furono affidate a un altro allenatore, giocatore del Bor, che però non riuscì a tenerle assieme e alla fine la sezione si disgregò nel mio più acuto dolore. Io però non avevo nessuna possibilità di badare a loro, in quanto, oltre al fatto di dover curare i ragazzi, stavo studiando ingegneria, non solo, ma molto in breve, nel marzo del ’71 (a 21 anni appena compiuti), cominciò anche la mia avventura di telecronista che poi doveva segnare tutta la mia vita successiva.   

Ovviamente in tutta questa bagarre di continuare a giocare non se ne parlava neppure. Del resto che non fossi dotato fisicamente (ero molto lento e in compenso non saltavo) lo sapevo dal bell’inizio, per cui non fu un grande sacrificio.

La nostra crescita preoccupò molto quelli del Bor che però, onore al merito a Branko e Mario Mari, capirono che i tempi stavano cambiando, per cui arrivammo a un accordo, nel senso che avremmo collaborato in campo giovanile con scambio di giocatori secondo le necessità, salvo poi, una volta cresciuti, confluire tutti al Bor che unico avrebbe mantenuto una squadra senior. Devo dire che avevamo buonissime atout da giocare e infatti due nostri giocatori, Adriano Sosič e il figlio del big boss Edi Kraus, negli anni successivi furono importanti colonne del Bor e poi ancora la vecchia guardia dello Jadran che partecipò fino in fondo alla trionfale cavalcata di cui parlerò alla fine e che durante tutto questo tempo tenne a bada la nuova infornata di fenomeni che stavano crescendo.

Appunto: a 5 km da noi, dall’altra parte della Napoleonica, a Contovello stava crescendo una straordinaria generazione di ragazzi nati negli anni ’60 e ’61 che passavano tutti i giorni a giocare sul campetto della trattoria sociale e poi a riposare con lunghissime partite a carte. Lì da loro il catalizzatore del movimento era stato proprio quel Peter Starc nominato sopra che con l’aiuto del suo amico di Barcola Stojan Kafol aveva messo insieme un gruppo di ragazzi entusiasti, ma soprattutto con alcuni di loro dotati di un grandissimo potenziale. Oltre che su suo fratello Ivo Peter poteva contare su un magrissimo ragazzino che sembrava dovesse inciampare nelle sue stesse gambe di momento in momento, ma che intanto cresceva e giocava in modo divino capendo praticamente in modo istintivo tutto del basket, di nome Marko Ban, e su un bambino piccoletto dai tratti quasi medio-orientali, non per niente il suo soprannome era “Bosna”, fratello piccolo di un pallavolista del Bor, che di nome faceva Claudio Starc, che era però semplicemente una scheggia che si muoveva a velocità doppia rispetto ai suoi coetanei che infatti non solo non riuscivano a tenerlo, ma in campo praticamente non riuscivano neanche a vederlo. Aveva tecnica, tiro e intelligenza, per cui nei campionati di categoria se segnava meno di 50 aveva voluto dire che era stato in pessima giornata. Poi c’ era anche un lungo all’apparenza goffo nel quale non riponevano molte speranze, ma che era molto ben piantato fisicamente, un po’ lento, ma molto coordinato e con un’ottima mano, di nome Mauro Čuk. Forse anche da lui poteva uscire qualcosa di buono, si dicevano.

Con questa gente ebbi il primo impatto quando nel ’72 a Trieste ci fu un grande torneo per nazionali che si giocò all’aperto sul parquet del campo di sfogo del Grezar (insomma proprio dove ora sorge il Pala Rubini) in preparazione per i Giochi di Monaco e prima delle partite serali si giocava come aperitivo un torneo di minibasket al quale partecipò anche la selezione delle società slovene sotto l’egida nella neo fondata Associazione delle Società Sportive slovene (ZSŠDI), in sostanza il Polet con rinforzi dal Bor e dal Kontovel. Il Kontovel si presentò con Claudio e Mauro che furono assolutamente decisivi per la nostra vittoria al torneo letteralmente a mani basse. Fra l’altro anche noi del Polet avevamo un fortissimo ’61, il fratello di Adriano Sosič Valter, uno che aveva cominciato a 7 anni seguendo il fratello e che a mia memoria fu l’unico che facemmo giocare tutto un campionato sotto falso nome perché era ancora troppo piccolo, uno che di basket sapeva (e sa ancora) tutto, con l’unico difetto di non essere un tiratore, ma in fatto di compiti difensivi era straordinario sapendo sempre leggere prima quello che gli avversari intendevano fare, e che in quella occasione si integrò in modo favoloso con Claudio. Come poi del resto fecero in tutti gli anni gloriosi dello Jadran. In quella occasione Peter Starc continuò a lamentarsi con me che purtroppo avevano dovuto lasciare a casa il loro giocatore migliore, perché gravemente ustionato in un incidente casalingo. Pensavo che mi prendesse in giro, visto i due che aveva portato e che già di loro mi sembravano fortissimi, ma quando poi vidi all’opera Marko Ban capii subito che aveva detto la semplice verità.

Con la crescita di questa generazione del Kontovel noi del Polet non avevamo la minima possibilità di batterli (quelli del Bor non li calcolavamo neanche, per quanto anche loro avessero due molto bravi, Rado Race e Bruno Kneipp) fino a che non avemmo la nostra grande botta di sedere, anche se dovemmo aspettare fino alla primavera del ‘75. Successe che all’allenamento dei miei juniores si presentasse un giorno un ragazzo di oltre un metro e 90, neo compagno di classe di mio fratello (classe ’57), il quale lo aveva invitato ad allenarsi a basket, visto il suo fisico assolutamente devastante (una volta riuscì in vacanza, facendo una mossa di corpo, a sradicare dalle sue rotaie uno skilift – per fortuna non fu beccato). La sua famiglia, con la mamma originaria di Repen dove aveva ancora una casa, si era trasferita tanti anni prima in Australia, il padre aveva fatto fortuna come muratore e poi come costruttore e proprietario di immobili, per cui si erano ri-trasferiti a casa portando con loro anche i due figli, ambedue nati e cresciuti a Melbourne. E infatti al primo allenamento il ragazzo, di nome Milko Vitez, si presentò con una maglia senza maniche a righe orizzontali bicolori e, alla mia domanda su cosa diavolo fosse, mi rispose in dialetto con un fortissimo accento inglese: “E’ una maglia di football australiano, uno sport molto maschio”, sport che praticava e nel quale eccelleva. E si sa che per giocare a football australiano, o si ha un fisico della Madonna, o si viene triturati in campo.

Milko era, ed è ancora rimasto (fra l’altro sua figlia Sandra è stata nazionale italiana di pallavolo, vicecampionessa del mondo junior da opposto titolare, ma poi smise di giocare dopo l’aut-aut che le fece la dirigenza del settore squadre nazionali, o vieni al centro federale o non ti chiamiamo più, cosa che fecero quando lei decise che avrebbe continuato gli studi di farmacia) un ragazzo d’oro, buono come il pane, che mostrò buonissima attitudine per il basket ed infatti anche lui poi giocò nello Jadran, ma i suoi meriti maggiori per il bene del nostro basket fu quando riuscì a convincere il fratello minore Boris, di quattro anni più giovane e appassionato sfegatato di calcio, del quale era stato nazionale giovanile dello stato del Victoria, a provare a giocare a basket se non altro per tenersi in allenamento durante l’inverno. Un giovedì vidi arrivare all’allenamento della squadra cadetti questo ragazzo mai visto prima che si presentò come il fratello di Milko. Fisico all’apparenza normale, longilineo e ben strutturato, ma insomma tutto qua. “Hai mai giocato a basket?” “No, so solo che esiste e bisogna buttare la palla in un canestro.” Ben messi. Se voglio che si aggreghi alla squadra devo insegnargli almeno qualche cosa fondamentale, per cui lo prendo da parte e lo porto sotto un canestro lasciando gli altri a giocare una partitella sotto l’altro canestro. Tiro da sotto. Ciuff. Passo e tiro. Appoggio perfetto. Terzo tempo con un palleggio. No problem. Con più palleggi. Uguale. Palleggio, arresto e tiro. Riuscito al primo tentativo (segnando ovviamente). Già che ci siamo andiamo a sinistra per fare le stesse cose con l’altra mano. L’unico problema arriva al momento del tiro dopo l’arresto, quando mi sento chiedere: “Devo usare per forza la sinistra o posso magari tirare con la destra che mi riesce più facile?”. Il tutto dura non più di 10 minuti.

A fine allenamento partitella. Palla a due. Salta Boris che decolla, arriva mezzo metro più in alto dell’avversario e recapita la palla in mano a un compagno. Palla persa, azione per quegli altri che tirano, sbagliano, sul rimbalzo vedo un’altra volta decollare un elicottero che arpiona la palla, scatta in contropiede palleggiando perfettamente, stacca il più vicino avversario di circa 10 metri e deposita a canestro dopo un perfetto terzo tempo. “Ho fatto giusto?” mi sento chiedere. “Ottimo, domenica giochi”. Avversaria nella sfida al vertice l’Inter 1904. Perdiamo, ma, con un tifo sfegatato di Milko da bordo campo, Boris gioca 40 minuti e segna otto punti. Il turno dopo contro il Bor a Trieste ne mette già 32. E io so che ho per le mani di gran lunga il più forte giocatore che abbia mai allenato.

Il resto è storia, come si dice. Boris fece progressi giganteschi immediati, tanto che a 16 anni non ancora compiuti combinava stragi nel campionato di Prima divisione accumulando anche esperienza contro i vecchi marpioni di quel campionato, ragion per cui stabilimmo grazie a lui un rapporto di quasi parità con il Kontovel, anche se loro erano un pelino più forti. Però se non altro ce la giocavamo. E comunque sempre per il vertice triestino assieme a ben poche altre squadre, tipo Pall. Trieste, Ferroviario, Ginnastica, Inter 1904 o Ricreatori.

Le altre squadre slovene, Bor, Sokol e Breg erano anni luce dietro.

A dire il vero il caso del Bor era particolare. Branko Lakovič, che smise di giocare molto presto sia perché cominciò a accusare grossi guai fisici alla schiena che ancora adesso lo tormentano, e sia perché era sempre più occupato dal suo mestiere di giornalista, si dedicò anima e corpo a fare l’allenatore, non solo del Bor, ma anche della sezione basket del Breg di Dolina che contribuì a fondare (sempre secondo la vecchia idea di formare talenti da portare poi al Bor). Mise in piedi una fortissima formazione delle classi ’57-’58 (per dire contro di loro noi del Polet, malgrado non fossimo scarsi e avessimo il nostro “straniero d’Australia” Milko, non avevamo chance), sia al Bor che al Breg, e quando questa generazione arrivò alla categoria juniores fece un grandissimo campionato mancando di poco le finali nazionali, battuta dall’imbattibile Ginnastica Goriziana dell’epoca dei vari Jordan Marušič, Gregorat e Cortinovis. Anni dopo i due pilastri di quella squadra, il play Peter Žerjal e l’ala Robi Klobas, divennero a loro volta colonne dello Jadran in Serie C. Dietro però, per le classi successive, non c’era Branko e onestà vuole che si dica che i coach delle squadre giovanili di quelle  classi non si rivelarono proprio delle aquile, o forse la situazione generale era cambiata, non lo saprei dire, fatto sta che da quella generazione in poi il Bor produsse molto poco, in verità. Ebbe ancora uno sprazzo quando forse casualmente trovò un’ eccellente generazione nella classe ’71-’72, ma per il resto, diciamo così, smise definitivamente di essere la nostra società di riferimento.

Tornando alla cronologia della metà degli anni ’70, e sempre parlando di Bor, a livello senior, dopo tutta una serie di buoni, ma tutto sommato anonimi campionati di Promozione, nel ’76 Branko Lakovič ebbe un’idea per far fare alla sua società un balzo in avanti. Contattò a Lubiana il giovane coach Peter Brumen e gli propose di trasferirsi a Trieste per prendere in mano tutto il movimento cestistico della minoranza con il fine di mettere in piedi una vera e propria “nazionale” slovena che prendesse il posto del Bor per ambire a maggiori traguardi. Il progetto fu approvato in una storica riunione di tutti i dirigenti delle varie squadre slovene nella nostra sede del Polet, ma il problema fu quando noi delle altre società arguimmo che, se i nostri giocatori dovevano andare a giocare nella “nazionale”, questa non poteva essere tout court il Bor, ma doveva essere creata una società nuova ad hoc. Però per la Federazione l’unica società ad avere il diritto di giocare in Promozione era il Bor, e dunque fu trovato una specie di compromesso, per cui la squadra si sarebbe chiamata per il pubblico Jadran, anche se per la FIP era sempre Bor. L’idea era di mettere in piedi per il futuro una squadra di questa nuova società che ottenesse il diritto di giocare in Promozione, alla quale poi avrebbe fatto capo tutto il movimento, nel senso che le società avrebbero mantenuto la loro indipendenza, salvo poi convogliare i migliori junior e senior nello Jadran, da considerarsi a tutti gli effetti la vera rappresentativa della minoranza slovena in Italia (Gorizia compresa, ovviamente).

La stagione fu ottima, ma purtroppo alla fine l’obiettivo dichiarato di ottenere la promozione in Serie D non fu raggiunto a causa di una drammatica sconfitta nello spareggio-promozione con la Servolana. A questo punto noi delle altre società reclamammo quanto pattuito l’anno prima, ma il Bor non volle saperne (cosa che ci confermò che l’anno prima erano stati in clamorosa malafede), per cui si venne a una totale rottura, ognuno per conto suo. L’idea però era già stata lanciata, per cui noi altri (tutti, meno Bor e Breg che era più o meno un’emanazione del Bor, ricordo), leggi Polet, Kontovel, Sokol e Dom Gorizia, supportati in pieno dall’allora dirigenza dello ZSŠDI nella persona del Presidente Vojko Kocman, importante imprenditore di Sgonico con moglie di Banne, dunque “nostro”, decidemmo di mettere in piedi il progetto Jadran. L’idea era quella di mettere in piedi una squadra senior con l’obiettivo, ampiamente alla nostra portata, di conquistare l’accesso alla Promozione e poi, una volta arrivativi, decidere su come andare avanti.

Il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi. Alla fine del campionato ci fu a Gorizia uno spareggio a tre fra le vincitrici dei tre gironi della Prima divisione con un posto in palio per la Promozione dell’anno dopo. Lo Jadran, cioè in sostanza il Polet con il gran rinforzo di Peter Starc, riattivatosi per l’occasione (ricordo che all’epoca aveva appena 26 anni), e di un ex giocatore del Bor, Boris Fabjan, diventato “carsolino” per matrimonio, non ebbe difficoltà a qualificarsi per il gironcino finale nel quale l’avversario da battere era il Mobilcasa di Cormons. Chi era la terza squadra? Era ancora il Polet (!) (coach il sottoscritto) con la sua squadra juniores che nel girone eliminatorio aveva preceduto in classifica il Kontovel. Come mai? Era successa una cosa estremamente preoccupante: l’anno prima Claudio Starc, ormai definitivamente nell’orbita delle nazionali giovanili italiane, nelle quali era titolare inamovibile, e Mauro Čuk avevano del tutto legittimamente optato per la carriera cestistica abbandonando il Kontovel per passare alla Pall. Trieste, allora Hurlingham. E Marko Ban? Lui no, lui era rimasto, ma aveva esitato fino in fondo se andare anche lui o no.

Nella partita decisiva contro Cormons gli arbitri, due fratelli di Monfalcone ai quali mai più ho rivolto la parola né mai più penso di farlo, arbitrarono in modo scandaloso a favore dei cugini isontini, e in più lo Jadran ci mise molto del suo, giocando in modo inguardabile, anche e soprattutto a causa delle decisioni cervellotiche dell’allenatore che avevamo ingaggiato, un tizio di Ajdovščina che, lo scoprimmo dopo, era in realtà un  coach di pallamano (!) femminile che si dilettava anche come coach di basket. Risultato: perdemmo di uno al supplementare buttando nel cesso in modo assurdo l’ultimo attacco per la vittoria. A fine partita l’allenatore sparì misteriosamente e non lo vedemmo mai più.

Sembrava che tutto fosse andato a ramengo e nell’estate successiva eravamo tutti depressi al massimo. In più i nostri fenomeni si erano stufati di aspettare. Boris Vitez cominciò a frequentare assiduamente gli allenamenti della squadra junior della Pall. Trieste e perfino Marko Ban sembrava deciso ad andarsene. A questo punto io, Peter Starc e Stojan Kafol ci riunimmo e decidemmo che non poteva finire così. Nasca quel che nasca, avremmo messo insieme i nostri juniores rimasti ed avremmo comunque iscritto una squadra al campionato di categoria, sperando di mantenere almeno accesa la fiammella dell’idea che uniti si è più forti. Avemmo in ciò ancora una volta il supporto incondizionato di Vojko Kocman, per cui in una fatidica sera di fine estate del ’78 convocammo i ragazzi alla trattoria sociale di Contovello e facemmo loro questa semplice domanda: “Se ci mettiamo insieme e formiamo una squadra comune chi di voi rimane?” Ricordo ancora come se fosse oggi, fu uno di quei momenti che decidono in un istante le sorti per un lungo futuro a venire. Marko non ebbe alcun dubbio: “Se ci riuniamo io rimango, non si discute neanche.” E Boris, dopo averci pensato un attimo: “Se rimane Marko, rimango anch’io.” Lo Jadran delle meraviglie nacque in quel preciso istante, sotto gli ippocastani della trattoria sociale di Contovello, il “večer pod kostanji”, come lo chiamiamo ancora tutti dopo tanti anni, quando vogliamo essere patetici e sentimentali (leggi quando, da buoni sloveni, dunque slavi, abbiamo nelle vene la quantità sufficiente di alcool).

Le buone notizie non finirono lì: come se il destino volesse premiarci per le nostre virtù dopo pochi giorni avemmo la fantastica notizia che si era liberato un posto in Promozione che lo Jadran occupò quale primo avente diritto. Giocammo così sia fra gli juniores, ingaggiando una lotta titanica contro l’Hurlingham (con Claudio e Mauro, ricordo) vincendo sia noi che loro tutte le altre partite e facendo 1 a 1 negli scontri diretti, per cui ci volle uno spareggio nel quale furono purtroppo troppo forti, che fra i senior in Promozione, arrivando alla fine in testa a pari punti con la Servolana e il Jeans Corner di Muggia, per cui anche qui ci volle uno spareggio a tre che vincemmo alla grande grazie anche ai 43 punti con 19 su 21 al tiro che Boris Vitez (18 anni) sciorinò contro Muggia nello scontro decisivo. Per la promozione in Serie D (all’epoca passare dalla Promozione in D voleva dire superare un bel collo di imbuto) dovemmo giocare ancora uno spareggio, vinto senza soverchi problemi, contro l’Itala di Gradisca, vincitrice del girone goriziano (più 25 all’andata a casa loro, per dire). A dire il vero questo spareggio fu del tutto inutile, in quanto anche l’Itala fu promossa a causa dei soliti buchi che si vengono sempre a creare quando qualche squadra rinuncia nelle serie superiori.

L’ anno dopo ritornarono all’ovile sia Claudio che Mauro, per cui i rinforzi necessari arrivarono nelle vesti di cavalli di ritorno, per così dire. Sembra facile e normale che fosse così, ma per esempio Claudio Starc, a causa di questa decisione, dettata dal cuore e dal senso di appartenenza alla minoranza, dovette dare praticamente l’addio ai suoi sogni di una grande carriera. Era ormai il play titolare della nazionale juniores dopo aver vinto per getto della spugna il match interno con una guardia romana di nome Sbarra, che era però clamorosamente pompato da tutto l’establishment della FIP, ovviamente ferocemente romano-centrico, che Claudio regolarmente scherzava negli allenamenti propinandogli tunnel e veroniche appena poteva farlo. Quando comunicò a Dado Lombardi, coach di Trieste, la sua decisione, quest’ultimo tentò disperatamente di dissuaderlo facendogli capire che la sua carriera in nazionale poteva ritenersi finita, visto che così spianava la strada al cocco della Federazione, ma Claudio fu irremovibile. Ovviamente successe regolarmente quanto previsto e, infatti, se ancora oggi fate a Claudio il nome di Sbarra, gli viene immediatamente un violento attacco di itterizia.

Finalmente nella formazione più o meno standard che tutta l’Italia del nord-est ricorda ancora oggi con ammirazione e rispetto, con un paio di giovani prospetti che si stavano rapidamente facendo le ossa, un centro di Contovello dal nome di Roberto Daneu (Danieli, fra l’altro zio di Sandra Vitez nominata prima – come si vede la ragazza ha ereditato geni di eccellente fattura), e un’ala centro di Aurisina ex pallavolista di nome Sandi Rauber, e in attesa ancora che l’anno dopo arrivassero dal Bor i già nominati Peter Žerjal e Robi Klobas, lo Jadran iniziò nel ’79 la famosa e irripetibile scalata, diventata quasi leggenda a Trieste. In un anno dalla D alla C-2 e poi ancora l’anno dopo subito dalla C-2 alla C-1, e infine il primo anno di C-1 subito playoff promozione, persi di un soffio. Playoff promozione ai quali lo Jadran è approdato in ogni stagione che ha giocato in C-1 fino all’indimenticabile giornata nel 1986 di gara tre dello spareggio per la promozione in Serie B contro la Stefanel di Treviso, giocata al Palachiarbola di fronte a spalti gremiti (4000 spettatori!), trasmessa in diretta da Telequattro con la telecronaca di Giovanni Marzini e vinta alla grande nel tripudio incontenibile della gente. La successiva mega festa che per ovvie ragioni simboliche si organizzò nella trattoria sociale di Contovello fu un evento memorabile durato tutta la notte, nel quale alcool e cori di ogni genere si susseguirono incessantemente.

La Serie B all’epoca era una cosa serissima. Due soli gironi di 16 squadre ciascuno per tutta l’Italia e infatti il nostro impatto con questa realtà fu molto duro, malgrado ci fossimo rinforzati con lo “straniero”, leggi non sloveno della minoranza, Fabrizio Zarotti, centro di buonissima stazza, non un prodigio di tecnica, ma grande lavoratore e soprattutto ragazzo d’oro in tutti i sensi. Per dire la prima partita la giocammo a Montecatini che schierava giocatori fortissimi, fra gli altri Boni e Niccolai, tanto per dire, mentre per la seconda partita arrivò a Trieste la seconda squadra di Varese con Bianchi e i “vecchi” Della Fiori e Lucarelli, vecchi, ma sempre di un’altra categoria, onestamente. Giocammo comunque un campionato più che dignitoso che alla fine però ci vide “retrocedere”, nel senso che proprio in quella stagione ci fu la riforma dei campionati con l’istituzione della Serie B-2, nella quale finimmo trovando più o meno la nostra vera dimensione.

Chiaramente non poteva durare. Già Boris se ne era andato alla Stefanel Trieste l’anno prima della storica promozione, poi anche Marko e Claudio provarono l’avventura ai massimi livelli con buon successo, insomma la vecchia generazione si sgretolò per forza di cose e fu impossibile ritornare a quei fasti. Rimane però la bellissima storia di come, partendo dai livelli più amatoriali e improbabili, si sia alla fine arrivati a vertici assolutamente non preventivabili grazie alla voglia, all’abnegazione e al senso di appartenenza di un gruppo di magnifici ragazzi, ancora oggigiorno magnifiche persone con le quali continuo a intrattenere rapporti di grande amicizia fungendo per loro un po’ da padre e molto da fratello maggiore. Sono le cose che ti rendono orgoglioso e che in definitiva danno un po’ un senso a tutta la tua vita.