Devo essere sincero: ogni qualvolta tratto gli argomenti che mi stanno a cuore, il responso in termini di quantità di commenti è molto basso. Ora le ragioni possono essere due: o il mio ragionamento è talmente perfetto ed inconfutabile per cui nessuno ha nulla da dire, eventualità che malgrado la mia autostima reputo praticamente impossibile, oppure dei problemi dei vivai, dell'attività giovanile, della formazione di nuovi giocatori a nessuno frega niente, eventualità questa che devo presumere sia quella esatta, cosa che mi angoscia non poco, perchè mi fa supporre che in Italia il basket sia a questo punto in stato praticamente agonizzante, se neanche le persone che più dovrebbero essere preoccupate delle sue sorti non si avvedono di quanto in effetti la situazione sia senza speranza.

 

Ed infatti sull'ultimo post i commenti pertinenti sono stati due di numero, ambedue peraltro eccellenti ed entusiasticamente condivisibili, non solo, ma erano anche presi da due punti di vista diversi, cosa ancora più bella, perchè in questo modo si ha una percezione stereoscopica del problema, problema che dunque viene visto da tutte le sue angolazioni.

Spero solo che l'interruzione della discussione sia stata originata dalla ferale notizia della settimana, la morte improvvisa di Pino Brumatti , cosa che ha sviato l'attenzione di tutti anche per la sua enorme carica emotiva. Mi sembra giusto a questo punto aggiungere qualcosa in prima persona sul grande Pino. (Per continuare a leggere clicca sotto su "leggi tutto").

 

Circa due anni fa gli feci a Gorizia una lunga intervista che poi mandammo in onda in Zona Sport. Il titolo del servizio era: ''L'ultimo dei mohicani'', essendo mia precisa convinzione che Pino Brumatti sia stato l'ultimo giocatore di basket nato in Italia ad essere un giocatore ''vero'', a 360 gradi, nato in campetto ed in oratorio, imbevuto dalla nascita delle nozioni e delle cognizioni giuste, in breve che sia stato l'ultimo dei giocatori prodotti dall'Italia a non essere il classico pollo (o tacchino?) di allevamento. Attenzione, non dico il più grande, o migliore, in quanto per esempio di qualche anno più giovani di lui erano tanto Dino Meneghin che Pierlo Marzorati, forse i più grandi giocatori che l'Italia abbia mai prodotto. Che però fosse un giocatore ruspante, dotato di una spiccatissima personalità, con un'improntitudine di stampo quasi balcanico, che non temesse nulla e nessuno, che si prendesse con facilità i tiri decisivi, e che soprattutto avesse un tiro naturale che spaccava, su questo non ci possono essere dubbi. Ed è proprio per questo che la sua morte, emblematica fra l'altro della situazione della sanità italiana anche nel fortunato nordest (lo sapevate che l'ambulanza chiamata dalla moglie si fosse recata in un primo tempo ad un indirizzo sbagliato, perdendo dunque circa 20 minuti che forse avrebbero potuto salvargli la vita? Era ancora vivo infatti quando poi l'ambulanza di riserva è arrivata all'indirizzo giusto), la sua scomparsa, dicevo, è un altro terribile colpo, una stilettata al cuore di tutti noi che ci rendiamo conto di come il gusto di giocare, ripeto giocare e non lavorare a basket, si stia inesorabilmente e tristemente spegnendo.

Di quanto fosse grande Brumatti me ne resi conto molto presto. Sarà stato il '71 o il '72 quando a Trieste d'estate organizzarono uno di quei bellissimi tornei estivi che si giocavano all'aperto. Interessante che fu posto un parquet sul campo di allenamento dello stadio Grezar, lo stesso posto, guarda caso, che anni dopo fu scavato per costruirvi sopra l'attuale Palatrieste. Al torneo parteciparono quattro squadre: tre molto forti del campionato italiano (mi ricordo solo di una, la Mobilquattro di Milano, perchè vi giocava quel mostro di tecnica e bravura che era Chuck Jura) e l'allora Lloyd Adriatico di Trieste, cioè la Ginnastica Triestina, visto che non si parlava ancora di Pallacanestro Trieste che fu fondata solo tempo dopo quando vi fu la rivoluzione di Coccia che instaurò le attuali A-1 e A-2. La Ginnastica giocava in Serie B e per renderla competitiva giunsero per ovvia intercessione di Cesare Rubini a rinforzarla due giocatori del Simmenthal (o come si chiamava allora), e cioè il mitico rosso Art Kenney e, appunto, Pino Brumatti, ed in più in veste di ospite arrivò dalla Lokomotiva Zagabria nientemeno che ''Sveti Nikola'' Plećaš. I tre assieme agli indigeni Cepar e Pozzecco (senior, ovviamente) giocarono praticamente 40 minuti su 40 sia in semifinale che in finale. Il torneo lo vinse, lo avete indovinato, il Lloyd Adriatico. Ed anche nettamente. Successe infatti che gli squadroni fossero ovviamente imbastiti per la preparazione estiva appena iniziata e che l'armata Brancaleone triestina si esaltasse nel gioco libero dando l'impressione di divertirsi un mondo. Nella succitata intervista chiesi appunto a Brumatti dei ricordi di quel torneo e mi confermò di ricordarlo con grande piacere ancora dopo tanti anni proprio perchè si divertì come un bambino. Io, che avevo appena intrapreso la mia carriera di coach (ed anche quella di telecronista, se è per quello), strabuzzai gli occhi quando mi resi conto che tutto quello che mi avevano detto nei corsi sull'amalgama, sugli schemi, sulla disciplina di squadra, fosse in effetti un'accozzaglia di luoghi comuni, per non dire puttanate tout court. Brumatti mi confermò che lui Plećaš lo conosceva solo per averci giocato contro qualche volta e che al torneo si erano visti per la prima volta in riscaldamento, ma ciò nonostante i due ebbero sin dalla prima palla un affiatamento incredibile: sin dall'inizio cominciarono a passarsi la palla praticamente ad occhi chiusi (assieme a Kenney, non va dimenticato, giocatore straordinario) trovandosi sempre in ogni zona del campo. Quando uno andava in penetrazione, l'altro era sempre al punto giusto per lo scarico. Inutile dire la sorte dei tiri che ne derivavano. Insomma un piacere quasi fisico nel vederli giocare assieme, ripeto, senza alcuno schema, senza alcun allenamento comune, l'unica cosa in comune era che tutti erano giocatori di basket, giocatori come li intendo io, gente cioè che sapeva e conosceva quello che doveva fare in campo in ogni momento senza che nessuno dovesse suggerirglielo, compresi i due triestini che infatti lasciavano giocare i tre forti per piazzarsi in posizione di tiro con la palla che li raggiungeva al momento giusto per indisturbate conclusioni.

Quel torneo lo ricordo ancora adesso perchè mi ricordo che tornando a casa mi dissi: ''Sergio, a questo punto tutto quello che ti raccontano ai corsi prendilo come una fiaba, comincia a ragionare con la tua testa e tenta come prima cosa di capire quale sia stata la ragione per la quale due giocatori che mai prima avevano giocato assieme abbiano potuto di colpo trovarsi così ad occhi chiusi. Se e quando avrai capito il perchè avrai capito molto, se non quasi tutto, dell'essenza del basket''.

Conclusione: devo a Pino Brumatti e Nikola Plećaš praticamente tutta la mia concezione del basket e la mia filosofia del gioco. Giusta o sbagliata che sia, essa sarà sempre indissolubilmente legata a questi due nomi.