Scusate veramente il ritardo, ma non sapevo di cosa scrivere. È stato infatti un periodo in cui i miei interessi in campo sportivo divergevano nettamente da quelli della massima parte di voi, per cui, visto che a voi non importa dei miei sport e che per me vale esattamente il viceversa, avevo paura di apparire del tutto spiazzato. Cestisticamente non ho visto quasi niente, in quanto guardare le due squadre italiane in Eurolega era francamente penoso, del campionato italiano non parlo neppure, perché qualsiasi cosa dicessi potrebbe incriminarmi e potrebbe essere usata contro di me in tribunale, l’NCAA onestamente non mi interessa più e comunque anche volendo non posso seguirla da nessuna parte (a voi estimatori delle Lega non viene qualche piccolo dubbio in merito, visto che in passato veniva regolarmente trasmessa dalle massime TV in chiaro?), l’NBA…esiste ancora?, insomma non ho proprio nulla da dire che non l’abbiate già detta voi con ben maggior cognizione di causa.

Posso solo aggiungere in merito all’NCAA una piccola aggiunta con aneddoto relativo. Tanti anni fa, grazie all’amicizia con Franco Grigoletti e Claudio Pea, collaboravo con il Giorno e ogni tanto scrivevo qualche “column” con considerazioni e commenti. Una volta scrissi (era verso la fine degli anni ’80 e l’NCAA era ancora una cosa serissima) che, prove alla mano, tutto questo grande lavoro di educazione e sviluppo tecnico sui giocatori che si diceva svolgesse il campionato universitario americano, era secondo me una balla bella e buona. Portai l’esempio di due giocatori jugoslavi che erano andati a studiare in America da grandi promesse e erano ritornati in Jugoslavia dopo aver concluso regolarmente il ciclo di studi irriconoscibili, imbolsiti, lenti e pesanti, ma soprattutto tecnicamente regrediti. I nomi? Uno era un giovane centro biondo della Zvezda di nome Zoran Jovanović, al momento del trasferimento in America giocatore molto intelligente, essenziale, dalla grande tecnica di uno contro uno con la mano molto morbida (la parola “educata” non la sentirete da me mai, neanche sotto tortura cinese), e poi ritornato indietro come un vagone semovente robotico, l’altro giocatore era un’ala montenegrina di 2 e 04 di nome Saša Radunović che era stato lanciato, perso per perso visto che erano praticamente già retrocessi, da 16-enne in prima squadra al Radnički dall’allenatore che avevano messo al timone della squadra per disperazione, e che era il fratellino del coach del titolo di una decina di anni prima Slobodan Ivković che di nome faceva Dušan, detto Duda. Il quale Radunović era velocissimo e estremamente reattivo per la sua statura, era eccellente in penetrazione, non aveva grande tiro, ma per paragone era una specie di Paspalj ante litteram. Ritornò in Europa dall’esperienza americana anche lui trasformato in uno zombie. Ne trassi la conseguenza che questo famoso sistema trasformava i giocatori in quello che avevo sempre sospettato facesse, e che cioè li decerebrasse perché potessero essere utili al concetto di squadra che il coach, unico a rimanere in squadra per più di quattro anni, aveva in mente e che all’epoca era cementato secondo ferree regole che lui stesso imponeva. Con ciò uccidendo alla base la fantasia e la creatività che erano insite nell’animo dei giocatori di scuola balcanica. I quali dunque andando in America, secondo me, facevano un vero e proprio suicidio. Ćosić? Lui arrivò al college già tanto forte che fu l'unico che potè permettersi di fare esattamente quello che voleva, facendo impazzire in due direzioni divergenti tifosi da una parte e dirigenti e coach dall'altra. Devo dire che il mio pezzo gettò il famoso sasso nello stagno e infatti, a stretto giro di posta, arrivò la risposta del giovane nuovo fenomeno mediatico Flavio Tranquillo che mi attaccò ferocemente dimostrando secondo lui con un numero di esempi tratti dalla sua enciclopedica esperienza e erudizione che invece l’NCAA era proprio il nec plus ultra del basket. Devo dire che tutti gli esempi che tirò in ballo erano secondo me del tutto secondari e irrilevanti rispetto alla mia idea di base che, tanto più ora che addirittura li pagano per giocare, più passano gli anni, più sono sicuro di avere avuto ragione. Anche per gli esempi che voi stessi avete tirato in ballo riguardo ai giovani europei dell’ultima generazione. Che sono andati in America valigie e sono ritornati bauli, come diciamo a Trieste (xe andà cufer e xe torna baul). O per essere più preciso: l’NCAA è la tomba per i balcanici (e affini per scuola e mentalità: il caso di Urban Klavžar, uno capace di fare 10 punti a 17 anni nell’esordio in Eurolega e tappezzeria nelle Final Four con Florida, cioè 4 anni sprecati, è tragico), del tutto irrilevante per gli altri non-USA.

Basta con il basket. Per me questi ultimi tempi sono stati dedicati, come detto, a ben altre cose che mi hanno dato tutta una serie di straordinarie soddisfazioni come persona di sentimenti sloveni. Dal trionfo tanto sportivo che sociale della conclusione della stagione dei salti con gli sci a Planica con l’indimenticabile domenica del record del mondo di Domen Prevc (commentato in loco quale commentatore tecnico dal fratello Cene) condito dalla vittoria di Lanišek, poi dalla cavalcata trionfale di Tadej Pogačar alle Fiandre (per non parlare della vittoria in solitario di Roglič sul circuito del Montjuich nell'ultima tappa del Giro di Catalonia) in attesa della Roubaix, alla notizia di quest’ultima notte dei 45 punti di Luka a Dallas con la gente di casa che faceva il tifo per lui. E stasera la Fiorentina gioca a Celje in Conference League nello storico tripudio della gente di casa con la birra Laško che scorrerà a fiumi. Il che mi fa pensare che avevo forse ragione nella discussione che abbiamo avuto con pado in macchina al ritorno a Trieste sul fatto che la meritocrazia, seppure di questi tempi di selvaggia acquisizione di diritti sportivi grazie ai soldi, è ancora e sempre il motore principale che divide il calcio europeo dal business sportivo che pervade gli sport professionistici in America. Soddisfazioni enormi, che ci volete, potrete forse comprendermi se non ero particolarmente concentrato su altre cose.

A questo punto vorrei tornare sulla questione delle pronunce per chiarire definitivamente il mio pensiero in merito. Roda dice che non gli importa se la gente in Spagna lo chiama Rodeia. Lo capisco, per uno originario di una città signorile e autoreferenziale, etnicamente omogenea, per la quale i veri “stranieri” sono sempre stati veronesi e padovani, la cosa sembra normale. Non per me, che sono nato in una città multietnica e multiculturale con gente che si riconosce in tutto un complesso cosmo di relazioni culturali, etniche e linguistiche. In un contesto del genere il rispetto e la comprensione per l’altro costituisce la base stessa di una possibile pacifica convivenza. Ragion per cui avrò sempre maggior rispetto, simpatia e considerazione per uno che si sforza di chiamarmi Tauciar, mentre quello per cui sono Tavkar e basta per me semplicemente non esiste e non sarà mai mio amico. Tutto questo stimola anche una continua curiosità per capire qualcosa dell’altro se non altro per semplici ragioni di comunicabilità. Roda dice che a questo punto bisognerebbe dire i nomi come li pronunciano i nativi, cosa che non riusciremo mai a fare, per cui tanto vale dirli come ci pare. Secondo questo ragionamento a questo punto per un italiano sarebbe del tutto inutile imparare l’inglese, in quanto, per quanto ci si possa sforzare, non si potrà mai parlarlo come fanno quelli che lo parlano dalla nascita. E infatti, assieme a quello di un francese (ricordate Clouzot che in albergo in Svizzera tenta di prendere una “room”?), l’accento di un italiano che parla inglese è uno dei più esilaranti al mondo, immortalato dai telefilm americani quando fanno parlare i mafiosi locali di origine siciliana. Eppure l’inglese lo si impara e lo si parla per ovvie ragioni di mutua intelligibilità fra popoli diversi. E proprio qui sta il punto di tutto il discorso sulle pronunce: un nome, come qualsiasi altra parola, deve, sottolineo DEVE, essere pronunciato in modo che l’interlocutore capisca di chi stiamo parlando. E per questo bisogna conoscere e sapere mettere in pratica le basi fonetiche sulle quali si basa la lingua in questione. Che poi si pronunci in modo che nulla ha a che vedere con la pronuncia esatta è irrilevante, l’importante è che quello con cui parliamo capisca cosa dico. Tempo fa c’era una forte nuotatrice, ranista, olandese di cognome Nijhuis che i fenomeni telecronisti della Rai pronunciavano come “Niuis”. Se fossero andati a intervistarla sono convinto che se l’avessero chiamata così non si sarebbe neanche voltata, semplicemente perché non avrebbe capito che si riferivano a lei. Se ora i due cronisti avessero avuto un minimo di cultura generale (che non guasta mai) e si fossero un tantino interessati alle regole fonetiche della lingua olandese avrebbero saputo che il suo cognome andrebbe pronunciato come una cosa tipo “Naeihaus” e, facendo due più due sapendo un po’ di tedesco e inglese, avrebbero capito che significa nientemeno che Neuhaus in tedesco, per noi Casanova. Proprio per questo è stata sempre mia grande cura, quando facevo le telecronache sul posto, di andare come prima cosa alla postazione del commentatore della Tv degli avversari per farmi leggere la formazione della loro squadra con i nomi pronunciati nel modo giusto. Per la cronaca, giusto per ribattere a Roda sui nomi dei turchi, fu la prima cosa che feci nella mia prima telecronaca sul posto di una grande manifestazione, gli Europei di basket nel ’75 a Spalato, con la primissima partita che era Jugoslavia-Turchia. Postilla: tutto questo riguarda anche la famigerata “h”. Io, che la uso dalla nascita, non riesco a capire quale possa essere il problema nell’imparare a pronunciarla. A me sembra molto più facile dire “h” che non la “th” inglese (o, se per questo, greca o spagnola) di thing. Che poi, quando ci si fa l’orecchio, si imparano senza volerle tante altre cose. Per esempio che di “h” ce ne sono molte. Principalmente sono di due tipi: una aspirata, quasi inintelligibile, che è quella inglese. E che è comune anche nelle lingue est e nord slave, anche se lì viene pronunciata con un’intonazione molto più gutturale che la fa somigliare a una “g” dura. E infatti i russi la scrivono e poi la traslitterano nell’alfabeto latino come “g” (Glinka, Gari), mentre per esempio gli ucraini la traslitterano in latino con la “h”. E infatti anni fa un ciclista ucraino di nome Sergej Gončar quando era ancora sovietico era scritto come sopra, e poi, quando l’Ucraina divenne indipendente, cominciarono a scriverlo come Serhij Hončar e tutti si meravigliarono che gli avessero cambiato il cognome. Non lo avevano cambiato affatto: semplicemente cominciarono a scriverlo in ucraino, tutto qua (notare le due “h” al posto delle “g”). Esiste però anche la variante dura della “h”, molto nettamente pronunciata, in breve la “j” spagnola, che è l’unica che esiste in sloveno, tanto per dire, come in tutte le altre lingue slave del sud. Nelle lingue germaniche che non siano l’inglese e nelle altre lingue slave esistono ambedue le “h” che vengono scritte in modo diverso. Gli est slavi (russi, belorussi e ucraini) che usano l’alfabeto cirillico scrivono la “h” dura con un segno particolare tratto dall’alfabeto greco che a noi ricorda una “X” e che poi traslitterano nell’alfabeto latino come “Kh” (il tennista Khachanov per esempio – Hačanov alla nostra). Le lingue germaniche, tedesco in testa con olandese a ruota, e le lingue nord slave (polacco, ceco e slovacco), da sempre nell’orbita culturale germanica, scrivono questa “h” dura “ch”, per cui esistono i nomi Richard (Rikhard) o Michael (Mikhael, mai Riciard o Maikl, maledizione! – non sono inglesi!), come esistono i nomi e cognomi polacchi, cechi e slovacchi con l’ “h” dura scritta “ch” e che dunque si pronuncia SEMPRE così, per cui Chowaniec, Chalupa o Machač saranno SEMPRE Khovanietz, Khalupa o Makhach (mai Maciak!). Ripeto, si tratta solo di farsi a buon mercato un po’ (si scrive con l’apostrofo perché è l’abbreviazione di poco, come a mo’ per modo) di cultura generale, sempre se si ha l’interesse intellettuale di acquisirla. Secondo me se un telecronista non sente il bisogno di pronunciare nel modo più corretto possibile i nomi degli atleti che commenta non ha capito uno dei fondamenti del suo compito di servizio, per cui non ha semplicemente le stimmate del telecronista. Potrà sempre essere un bravissimo giornalista sportivo, ma telecronista mai.

 Per finire una precisazione geopolitica indirizzata a Llandre che, temo, avrà poco da litigare con me nella prossima sconvenscion. Onestamente non mi sembra di essermi “fabbrizzato”. Certo, reputo sempre l’approccio della geopolitica umana, come la chiama Fabbri, quello più consono a descrivere le cose per come accadono realmente. Sostanzialmente nessuna guerra nasce per ragioni economiche, ma esclusivamente per questioni di potere (sono sempre convinto che fra due persone – popoli, comunità - a comandare sarà sempre quella con la clava più grande), ma nel particolare trovo il suo approccio troppo rigido, apodittico quasi, e penso che le cose non siano in realtà così ovvie come le presenta Fabbri. Ora sta un po’ arrampicandosi sugli specchi, visto che il demente comportamento di Trump contrasta violentemente con quanto dice da sempre che i leader non contano nulla. Evidentemente qualcosa contano, soprattutto se sono arrivati al potere solo con la convinzione di essere unti dal signore e che dunque sono onnipotenti (ricorda qualcuno?), per cui pensano che essere al comando significhi fare e disfare a proprio esclusivo piacimento. In più Fabbri continua a deridere l’Europa, cosa che mi da un fastidio insopprimibile. Sono passati solo 80 anni dalla fine di due millenni di guerre continue fra i popoli europei e, onestamente, quanto finora ottenuto nel campo della reciproca comprensione e della percezione della convivenza pacifica in questi 80 anni secondo me sorpassa di gran lunga quanto potesse essere previsto ragionevolmente nel 1945. Per i giovani l’Europa già esiste e la vivono senza problemi. Certo, ci vorranno generazioni, il tutto e subito non esiste, ma l’Europa unita prima o poi sarà realtà, anche se nessuno di noi vivrà tanto a lungo da poterla godere. Prima però bisognerà mettere una cosa in chiaro e qui so di essere molto lontano dalla percezione della cosiddetta sinistra attuale italiana, pacifinti in testa. Secondo la logica della clava più grande bisognerà fare in modo che tutto il mondo capisca che tentare di spaventare l’Europa con minacce militari è una cosa da evitare come la peste. E dunque bisogna muovere il culo e mettere in piedi un bel sistema di difesa militare che non c’entra nulla con le direttive economiche e sociali dell’Unione, concretamente bisogna fare in modo che inglesi e tedeschi, con i francesi a ruota e con l’aiuto dei popoli più in prima linea che ora se la stanno facendo addosso, baltici, polacchi, finlandesi in testa, si mettano d’accordo per un’alleanza militare organica che metta l’Europa al sicuro da velleità imperiali che vengono sia da est che da ovest con gli americani che sembrano totalmente impazziti. Come accennato nel post precedente mi sentirò molto più tranquillo se avrò dalla mia parte inglesi e tedeschi per la prima volta nella storia quali alleati. E anche qui, per finire, Fabbri dovrebbe spiegare alcune cose: è possibile che gli europei abbiano perso in una sola generazione di benessere diffuso l’attitudine e la capacità di fare le guerre che hanno nei loro geni? Non lo credo. Sono convinto che, se sarà necessario, ritorneranno subito prepotentemente a galla.