Devo ammettere che la scorsa settimana è stata di gran lunga quella in cui ho guardato più sport in televisione da molto tempo a questa parte. C’erano a Trondheim i Mondiali di sci nordico che mi appassionano sempre, c’era il biathlon a Nove Mesto in Cechia, ci sono stati gli Europei indoor di atletica, altro sport che seguo sempre e comunque, e poi in ultima serata c’era l’Arnold Palmer di golf, uno dei tornei più importanti della stagione su uno dei più bei percorsi che ci siano. Sabato poi ci sono state anche le Strade Bianche di ciclismo, forse la corsa più bella, spettacolare e difficile di tutta la stagione (per me dovrebbe essere una delle corse monumento al posto della Sanremo, che avrà anche una storia leggendaria, ma che fino a quando non affrontano la Cipressa è totalmente inguardabile). Mi dicono che c’era anche il 6 nazioni di rugby, ma come ben sapete il rugby è molto, molto in basso nella mia lista di sport preferiti.
L’acme di questa totale full immersion si è verificato a metà pomeriggio di sabato ed è stato una vera e propria storica leccornia per uno come me che si ritiene sloveno, che pensa e soffre in sloveno, e che in quelle ore ha vissuto momenti di emozione di tutti i tipi possibili, ma che alla fine ha avuto somma soddisfazione su tutti i fronti. Prima c’è stata la rovinosa caduta di Pogačar nel ciclismo con atterraggio fra le spine dei rovi a bordo strada. Sembrava che si fosse spaccato tutto, ma miracolosamente è addirittura risalito in bici, ha ripreso Pidcock e poi, secondo il copione previsto dal sottoscritto, e penso anche da tutti, lo ha staccato sulla seconda ascesa sullo sterrato del Pizzuto finendo come al solito da solo a salutare la folla prima in Via Santa Caterina e poi in Piazza del Campo. Non solo, ma ha fatto una grandissima figura in sala stampa quando alla domanda se sapesse di essere stato il primo a vincere le strade Bianche con addosso la maglia di campione del mondo ha risposto: “In realtà non mi risulta, in quanto se non sbaglio l’anno scorso fra le donne vinse la campionessa del mondo Lotte Kopecky” con ciò guadagnando una valanga di punti presso tutto il pubblico femminile e ciò addirittura nel fatidico giorno dell’ 8 marzo, festa della donna. Esaurito questo stress emotivo ho girato sulla gara di salti con gli sci sul trampolino grande dei Mondiali di Trondheim, in quanto in corsa per le medaglie c’erano due saltatori sloveni. E infatti alla fine della prima serie c’era in testa Domen Prevc, il numero tre della ormai leggendaria dinastia, con neanche un punto di vantaggio sul norvegese Marius Lindvik, il campione del mondo sul trampolino piccolo. Nella seconda Lindvik ha fatto un salto strepitoso andando nettamente in testa, ma Domen ha fatto fra la meraviglia di tutti addirittura meglio (con salto sulla poltrona e gesti sconsiderati di esultanza del sottoscritto) vincendo uno straordinario oro, del tutto inatteso dopo che a inizio stagione sembrava finito facendo grossa fatica addirittura per conquistare punti di Coppa del mondo. Ma il tutto doveva ancora succedere. Intanto c’è stata la bellissima scena della sorellina di Domen, Nika, dominatrice delle gare femminili con due ori ottenuti per dispersione e manifesta superiorità su tutta la concorrenza, che è andata raggiante ad abbracciare il fratello che l’ha poi presa in braccio per una foto che ha fatto il giro del mondo, tenera e commovente. E poi c’è stato lo scandalo che, penso per voi e per tutta la scena sportiva italiana che di salti con gli sci non le potrebbe fregare di meno (ecco, quello che provate voi per i salti è quello che provo io per il rugby) è del tutto ignoto, e che proprio per questo ve ne parlo, perché è degno di una storia da film di spionaggio. Premessa tecnica: nei salti con gli sci, soprattutto su impianti grandi nei quali i saltatori sono in aria per più tempo, un fattore fondamentale per atterrare il più lontano possibile è ovviamente la portanza, cioè la resistenza più grande possibile che l’aria può offrire. La quale portanza dipende ovviamente, il paracadute lo insegna, dalla superficie che si offre alla resistenza dell’aria. Più grande è, più tempo si sta in aria. Ed è proprio per questo che tutti, ma proprio tutti, tentano in tutti i modi di creare tute che al momento giusto possano dilatarsi, la zona del cavallo fra le gambe è la più importante, per creare la famosa portanza. E quindi ci sono regole precise e di conseguenza controlli rigorosi perché queste regole vengano rispettate. Tornando alla gara di sabato è successo che un giornalista polacco, sembra, abbia avuto una soffiata sul fatto che i norvegesi facevano cose strane, per cui ha filmato letteralmente attraverso il buco della serratura con un telefonino quanto stavano facendo. Ed ha scoperto che rimuovevano dalla tuta il chip che misura le varie dimensioni consentite rinforzando a mano le cuciture della tuta dei loro saltatori per renderle più performanti. Finite le operazioni rimettevano a posto i chip originali che continuavano a dare dati regolari. Il filmato ha fatto ovviamente il giro delle varie altre squadre che hanno subito fatto ricorso presso la direzione generale che lo ha dapprima respinto sdegnosamente per poi ricredersi davanti alla prova della pistola fumante offerta dal filmato. E non ha potuto fare altro che squalificare i due saltatori norvegesi che erano arrivati secondo e quarto (Lindvik e Forfang) per “suit manipulation” facendo nel contempo una figura barbina, da veri peracottari. Ovviamente le cose non finiscono qui e sono veramente curioso di vedere cosa succederà d’ora in poi. Squalifiche epocali di funzionari norvegesi o palate copiose di sabbia? Provate a immaginare quali siano le mie previsioni. L’episodio ha ulteriormente confermato il sospetto che da sempre nutro nei confronti delle grandi manifestazioni internazionali nelle quali, almeno secondo me, la nazione ospitante ha automaticamente, per ovvie ragioni di business e interesse mediatico, un trattamento di favore con ampia chiusura di ambedue gli occhi di fronte a gherminelle di vario tipo che possono favorire i suoi atleti. Basta che non esagerino, come nel caso dei finlandesi ai Mondiali di sci nordico di Lahti, colti in un vortice di doping di massa, oppure come nel caso del leggendario salto di 8 e 38 ampiamente fasullo di Evangelisti a Roma, o come ancora con il doping di stato (pardon, KGB o FSB se preferite) dei russi a Soči, ma di episodi del genere con sospetti sussurrati soprattutto quando la nazione organizzatrice si attiene ai patti e quindi non viene disturbata, immaginarsi perseguita, ce ne sono a millanta. Per dire solo che nelle grandi manifestazioni internazionali tutti, ma proprio tutti, anche gli sportivissimi scandinavi e anglosassoni, si comportano esattamente allo stesso modo.
Purtroppo la settimana scorsa è stata caratterizzata anche da un grave lutto, la morte di Bruno Pizzul. Devo confessare che quando ho letto la notizia dell’ultima ora su Sky Sport della sua scomparsa è spuntata anche una lacrima. Purtroppo i migliori se ne vanno e, scusate il patetismo da vecchietto, nessuno potrà mai rimpiazzarli. Nei Pionieri racconto del mio primo incontro con Bruno a Zagabria nel ’76 in occasione della fase finale dell’Europeo di calcio, quando entrambi seguimmo la semifinale fra Olanda e Cecoslovacchia prima e la finalina per il terzo posto qualche giorno dopo, mentre a Belgrado per l’altra semifinale e poi per la finale c’erano le prime voci, Nando Martellini e Bruno Petrali, per la Rai e Capodistria rispettivamente. Ci incontrammo a colazione, ci presentammo e legammo subito. Ambedue eravamo originari di luoghi che erano appartenuti all’Impero austriaco, avevamo la stessa formazione storica e culturale, lui aveva studiato a Trieste laureandosi alla Facoltà di lingue, per cui parlavamo in dialetto e ci intendevamo a perfezione. Sull’appartenenza culturale comune c’è il famoso aneddoto riportato da Federico Buffa sul nonno di Pizzul, fermato mentre andava in bicicletta per le strade di Cormons da una pattuglia di soldati italiani che gli chiesero dove fosse il nemico e lui rispose, senza smettere di pedalare: “Tasi mona, el nemico te son ti!”. Ho avuto poi modo di constatare nelle varie magnifiche serate conviviali che abbiamo vissuto assieme come da quelle parti sapessero perfettamente dove fosse il confine fra Italia e Impero fino al ’18, cioè circa a metà strada fra Cormons e Cividale su un’ansa ormai prosciugata del fiume Iudrio, cosa che mi fa sempre pensare a come i confini siano in testa e mai nessuno potrà mai cambiarli se non dopo una quantità di anni che coinvolge almeno decine di generazioni, dunque su tempi biblici che noi non possiamo neanche immaginare. Certi popoli, tipo ebrei, russi, persiani, cinesi, turchi, o anche serbi se è per questo, e tanti altri addirittura non li cancellano per nulla neanche dopo alcuni millenni. Se posso fare una digressione che non c’entra con Pizzul è proprio questa considerazione che mi da conforto in questi tempi bui, nei quali l’Europa deve dimenticare la fase post-storica che ha trascorso dalla fine della seconda guerra mondiale fino a oggi e nella quale pensava che le guerre fossero finite per sempre per affrontare le sfide che le pone la catastrofica e fascistico-classistico-razzista amministrazione americana di Trump nei confronti della situazione geopolitica attuale nel nostro continente. Sono infatti convinto che il know how in fatto di guerra maturato negli ultimi due millenni dai popoli europei non possa essere sparito del tutto sotto la coltre di benessere di questi ultimi anni e mi sento abbastanza sicuro e protetto se i due di gran lunga migliori popoli mondiali in fatto di guerra, parlo ovviamente di tedeschi e inglesi, dovessero per la prima volta nella storia affrontare un possibile nemico stando ambedue dalla stessa parte. E dunque attendo tutto sommato con fiducia il momento in cui Putin si rivolgerà con le sue forze sul corridoio polacco-lituano di Kaliningrad (o Koenigsberg, la città natale di Kant e capoluogo storico della Prussia orientale) che è secondo me il logico e inevitabile prossimo futuro scenario di conflitto.
Tornando a Pizzul quello che ci mancherà a tutti sarà innanzitutto la sua cultura e la sua perfetta padronanza della lingua italiana che in questi tempi di “neo-lingue” infarcite di parole pseudo-inglesi tratte dallo slang più biecamente tecnicistico che vuol dire più o meno tutto o anche niente, basta fare colpo sui borghesi, come dicono i francesi, è considerata tutto sommato una cosa perfettamente trascurabile. Mentre ovviamente dovrebbe avere un’importanza fondamentale: se commenti in italiano la primissima cosa che devi saper fare è parlare nell’italiano migliore possibile, possibilmente senza termini pesantemente dialettali (gli accenti no, soprattutto per noi giuliani è impossibile perderli) come si fa oggigiorno dove sembra che il mondo sia Milano e Roma e basta. E poi ci mancherà la sua competenza tecnica derivata dal fatto che era stato calciatore professionista, anche se non certamente un campione, e che da persona intelligente e istruita distribuiva a piccole dosi però tutte piene di sostanza vera e non di vuote parole come accade oggidì. Insomma è stato un grandissimo professionista e per me tanto un esempio che poi col tempo anche più che un amico una specie di fratello maggiore che vedeva in me quasi un suo successore e una delle mie più grandi soddisfazioni è stata quando mi ha invitato per la grande festa che ha dato in occasione del suo 80-esimo compleanno. Mi sono sentito veramente importante e onorato e la sua scomparsa mi addolora tantissimo.
Una sola cosa non ho mai capito di lui come in genere di tutti gli italiani. E cioè come mai siano tanto incapaci di imparare le basi di qualsiasi altra lingua, anche quelle più facili e ovvie. Quando si dice che la “j” nelle lingue slave (e anche in quelle germaniche che non siano l’inglese) si pronuncia SEMPRE, senza alcun tipo di eccezione, come “i” consonantica o “y” se siete anglofili dovrebbe bastare per chiamare il centrale dell’Udinese Yaka Biyol e non Zhaka Bizhol come ho sentito l’altro giorno. Purtroppo a Zagabria con Pizzul ho vissuto la classica esperienza di qualcuno che tenta di spiegare inutilmente a un italiano come si pronuncia un cognome esotico. Nella finalina per il terzo posto fra Jugoslavia e Olanda esordì nella nazionale jugoslava il giovane centravanti del Velež Mostar Vahid Halilhodžić e Bruno mi chiese come si leggesse. Partii da lontano spiegandogli che era in realtà un cognome composito e che si doveva leggere come un doppio cognome tipo Luzzi Conti. Era il patronimico che indicava il figlio del hodža (funzionario statale turco che ritroviamo nell’albanese Hoxha) Halil, o scritto Khalil come fanno gli arabi quando traslitterano in alfabeto latino, per cui andava letto Khalil-Khodzhich, tutto ben staccato e con doppio accento. La risposta fu: “ dunque Alilodzic, va bene?”. Come non detto, parliamo d’altro.