Dopo la proposta dell’altra volta sulla sconvenscion d’inverno i primi commenti sono stati di Roda e Lofoten che hanno confermato che potrebbero essere presenti. Già questo mi è bastato, visto che non ci vediamo da tanto tempo, per cui è ufficiale: sconvenscion il 9 di dicembre alla solita ora in luogo da destinarsi e di cui sarete ovviamente informati in tempo.

Oggi non vorrei parlare di basket, se non per dire che sono ovviamente totalmente in disaccordo con l’analisi di Llandre che è stato evidentemente risucchiato dallo spirito del tempo che è sempre più comprensivo nei confronti dei lavativi tout court che sono tenuti in bambagia e rispolverati quando devono fare soldi per poi essere con cura rimessi nel bozzolo nel quale sono normalmente racchiusi. Ha 19 anni ed è fragile? Semplice, cambi sport.  Nel basket puoi essere anche 2 e 50, ma se non corri dietro al pallone e hai paura di ogni piccolo contatto perché potresti farti un po’ di bua non sei utile. Non ho potuto non fare a meno di tornare indietro di 60 anni quasi, quando vidi per la prima volta Krešo Ćosić che aveva 16 anni, quasi 2 metri e 10 ed era poco più di uno scheletro rivestito. Lo buttarono nella mischia e lui non si tirò certamente indietro. Wemba ha 20 anni? Alla stessa sua età Ćosić fu decisivo quale centro titolare della Jugoslavia alle Olimpiadi di Città del Messico per la conquista della medaglia d’argento. Ma di cosa stiamo parlando? Fatemi un favore. Se sei veramente bravo e entrerai nella storia non puoi avere paura della battaglia e di farti male. Prendere botte (e imparare a darle) è una cosa totalmente imprescindibile per la crescita di qualsiasi atleta di qualsiasi sport. La strada verso il successo non è lastricata di sole rose, ma anche di tanti alti e bassi che sono sempre tappe fondamentali in ogni processo di crescita.

Vorrei oggi parlare di ciclismo. Oggi ho letto sul sito della TV slovena una lunga intervista fatta a Matej Mohorič, per chi non lo ricordasse non proprio uno scarso, vincitore di una Sanremo e di tappe in tutti e tre i grandi giri, due volte campione del mondo nelle categorie giovanili e ora anche del gravel, ma soprattutto un mancato scienziato, uno che poteva scegliere fra una luminosa carriera nel campo scientifico e il ciclismo e ha scelto quest’ultimo. E che il ragazzo sia di un’intelligenza spaziale l’ha secondo me ribadito l’intervista che ho letto con estremo interesse, nella quale spiega tantissime cose che, sono sicuro, interesseranno tutti gli appassionati di sport, non solo di ciclismo. Intanto alla domanda su cosa sia cambiato nel ciclismo la sua risposta è stata: “L’assenza di doping. La Federazione internazionale ha dato un taglio alla cultura del doping e ha ribadito che è una cosa che nessuno tollererà più, per cui le squadre lo hanno accettato e si regolano di conseguenza. Il che ha anche contribuito al fatto che abbiamo più o meno tutti le stesse basi di partenza. Poi ci sono i materiali, e cioè il fatto che le bici attuali sono velocissime. Con la moderna bici speciale che usiamo per il Tour quando vado a circa 300 Watt di potenza, cioè relativamente ad andatura tranquilla, ho circa 120-130 battiti al minuto. Il che vuol dire che potrei andare avanti così per tutto il giorno, visto che a questa andatura fondamentalmente brucio solamente i grassi. In queste condizioni in pianura, se non c’è vento e l’asfalto è solo decente, diciamo normale, viaggio a più di 50 km all’ora, circa 52, 53. Dieci anni fa con la mia bici da gara di allora, con tutto l’equipaggiamento, body, casco e tutto il resto, andavo con la stessa potenza massimo 46, 47 all’ora. La differenza è fondamentale. Infatti cosa succede se quanto ho appena detto lo consideri per tutto il gruppo? Succede che andiamo tutti molto più veloci. E dietro sei in scia. E dunque la differenza di potenza sviluppata fra chi tira il gruppo e quelli che si nascondono dietro è molto maggiore. Una volta la differenza fra la potenza spesa fra chi era davanti e chi era dietro era in percentuale molto più bassa di quella che c’è adesso. Diciamo che se uno davanti tirava a 400 Watt, in mezzo al gruppo spingevi a 200. Ora invece succede che quello davanti non può neanche essere davanti se non spinge almeno a 500 Watt, mentre dietro vai a 80. La differenza è dunque molto maggiore. E per questo il ciclismo è diventato necessariamente uno sport molto più tattico e intenso. Una volta era uno sport tipico di resistenza, se poi andiamo 50 anni indietro era in effetti tutto un altro sport, molto simile a quanto oggigiorno accade nelle gare gravel o comunque sullo sterrato. E proprio per questo penso che le competizioni gravel abbiano un eccellente futuro, perché sono sempre più un ritorno alle radici del ciclismo. In sostanza torniamo a uno sport puramente di resistenza. Lì non puoi nasconderti. Se qualcuno tira a, poniamo, 320 Watt, quello dietro va comunque a 280, per cui la differenza è minima. E poi ogni 200 metri c’è una curva, il che è un vantaggio per chi è davanti, in quanto può affrontarla al meglio e dunque frenare molto meno. All’ultimo mondiale (da lui vinto, fra l’altro, N.d.T.) sui 170 km di gara ce n’erano massimo 15 nei quali potevi risparmiare un po’ di forze se ti nascondevi. Tutto il resto era una sfida all’arma bianca. E’ tutta un’altra disciplina, tutto un altro sport e forse è per questo più divertente da seguire. Succede sempre qualcosa, tutto cambia di continuo e poi alla fine arrivano tutti stremati proprio perché durante la gara non avevano dove nascondersi.”

Tornando al tema doping l’anno scorso la sua squadra, la Bahrein Victorious, fu al centro di un’inchiesta con tanto di ispezioni notturne e sequestri di tutto, anche dei cellulari degli atleti. ”A me non l’hanno sequestrato, per cui ce l’ho sempre avuto. Gli altri hanno comunque ricevuto tutto indietro. Per quello che ne so la storia è finita lì. Queste cose sono i soliti dispetti, dimostrazioni di potere politico, cose del genere. Penso che questi tempi siano finiti. Stiamo ancora pagando per i peccati passati. L’unico vero fatto è che siamo controllati per 24 ore ogni giorno della settimana comunicando sempre dove siamo e che riceviamo continue visite da quelli che ci controllano a casa.”

Ovviamente i sospetti sono aleggiati anche attorno all’ultimo vincitore del Tour, Jonas Vingegaard. “Certamente. Succede sempre che quello che vince viene accusato di fare cose impossibili. Però i limiti si stanno rapidamente spostando sempre più in là. Sono convinto che fra 10 anni se uno non sarà almeno del livello del Jonas attuale non sarà neanche fra i primi 100 al mondo. I Jumbo sono semplicemente due anni avanti rispetto agli altri. In questo momento non possiamo fare i giusti paragoni. Loro hanno un budget che è il doppio di quello della mia squadra. Il che vuol dire che, se investi il doppio in ricerche su una qualsiasi cosa, otterrai il doppio di informazioni sui, per esempio, dettagli che influiscono sull’aerodinamica o sull’attrito di rotolamento. Potrai spendere il doppio per la preparazione. Nella crono al Tour Jonas ha fatto tutte le curve in modo ottimale. Personalmente sono convinto che abbia studiato il percorso a strada chiusa solo per lui. Io sono tecnicamente un ottimo corridore, ma curve simili non sono assolutamente in grado di affrontarle al livello con cui le ha affrontate lui. L’assenza del doping ha portato anche a un cambiamento della struttura corporea del ciclista di vertice. Una volta erano tutti più forti e più muscoli avevi, più forte andavi. Ora invece, visto che non si può più fare, il migliore è quello che sa nascondersi meglio e che spende il minimo possibile di energie. Jonas ha almeno 10 chili in meno rispetto a Tadej (Pogačar). Forse non tutti si sono ancora accorti di questo cambiamento in atto, altri invece lo hanno fatto. Come addetto ai lavori faccio fatica a credere che per raggiungere i livelli che hanno raggiunto siano riusciti a sfuggire a tutti i controlli, a far finta di fare una cosa e di nascosto farne un’altra riuscendo a nascondere il tutto a tutti. Soprattutto adesso che a volte ho la sensazione di essere al Grande Fratello. C’è sempre qualche telecamera che mi perseguita dalle sei di mattina fino a sera. Penso che quello che  tutti sanno vincerà il Tour possa nascondersi e fare qualcosa di nascosto sia praticamente impossibile.”

Visto che siamo in tema di miscellanea ancora due cose. Lunedì sono stato a pranzo, grazie alla mediazione della famiglia Lovat, con Nicola Roggero che di sera presentava, appunto, alla Libreria Lovat di Trieste il suo nuovo libro dal titolo “Storie di atletica e del XX-esimo secolo”. Detto di sfuggita siamo stati a Dutovlje sul Carso, paese di origine della mia famiglia paterna, e Nicola ha avuto anche modo di conoscere il mio secondo cugino che gestisce un bar nella casa di famiglia di mio nonno. Ora tutti, giustamente, penserete che il mio pranzo sia stato il prezzo da pagare per fare una clamorosa “marchetta” (chi sa un po’ di come vanno le cose nel mondo della comunicazione saprà di cosa sto parlando) parlando bene del libro su questo blog. Chi mi conosce sa che la marchetta è una delle cose più aliene al mio modo di stare al mondo, per cui potete credermi che non sono stato spinto da nessuna motivazione, diciamo così, “commerciale”. Tant’è che il libro l’ho avuto più o meno per sbaglio, visto che hanno trovato in macchina un paio di copie che in realtà non avrebbero dovuto esserci. In breve: appena tornato a casa ho cominciato a leggere e ho continuato. Le storie sono tutte molto interessanti, ben calate nel contesto storico e sociale nel quale si svolgono, insomma è un libro che vi raccomando caldamente, soprattutto se siete appassionati del vero sport. Un libro che fra l’altro fa a pezzi tutti quei mentecatti che affermano che la politica e lo sport andrebbero divisi e che non c’entrano l’uno con l’altra. Basta leggere il capitolo delle Tigerbelles di Memphis capitanate da Wilma Rudolph o scoprire che l’ultimo tedoforo per le Olimpiadi di Tokio fu uno sconosciuto 19-enne, che era però, guarda caso, nato a Hiroshima il 6 agosto del 1945, per demolire qualsiasi idea idiota del genere.

La seconda cosa riguarda la musica e so che interesserà pochi. Per chi è comunque interessato per ragioni, diciamo così, filologiche dico solo che negli ultimi giorni ho ascoltato a nastro un disco uscito, sarà una settimana fa, “Rockstar” di Dolly Parton. Vi vedo già tutti arricciare il naso e scuotere la testa appena ho nominato quella che viene considerata l’icona più trita e deleteria della musica country più bieca. A parte il fatto che la signora, che ha adesso gli anni del numero di maglia di Dončić, è tutt’altro che stupida (memorabile la sua risposta ad un intervistatore che le chiedeva perché si vestisse in modo così volgare: “Lei, caro amico, non sa quanti soldi ci vogliano per poter apparire così volgare”) e che per tutta la vita ha recitato con grandissima abilità il ruolo di bambola finta, il disco appena uscito mi ha folgorato. L’anno scorso fu indotta nella Rock’n’Roll House of Fame pur non avendo mai inciso un disco rock e allora ha deciso, per sdebitarsi, di farne dopo vecchia anche lei uno. Ne è venuta fuori una cosa a mio avviso eccezionale, dimostrando che, quando uno sa veramente cantare, può cantare esattamente quello che vuole (o sei bravo o non lo sei, molto facile). Se non lo credete ascoltate le sue versioni di “Starway to Heaven” o di “Purple Rain” o ancora i magnifici duetti con John Fogerty in “Long As I Can See the Light”, Elton John in “Don’t Let the Sun Go Down On Me”, o Sting in “Every Breath You Take”. Più tantissime altre chicche, ancora duetti con Steve Tyler o altri ancora più metallari, un “Let It Be” con Paul McCartney al piano, Ringo alla batteria e Peter Frampton alla chitarra. C’è un pezzo che mi commuove ogni volta che l’ascolto, “Tonight I Dreamed About Elvis”, nel quale ho scoperto che Elvis avrebbe tanto voluto incidere “I Will Always Love You”, il pezzo più famoso (soprattutto per la patinata versione pop di Whitney Houston in Bodyguard) scritto da Dolly, ma che il Colonnello Parker si oppose e non se ne fece nulla. Insomma il miglior disco sentito almeno da 11 anni a questa parte, dal famoso (per me) concerto di Jerry Lee Lewis “One Man Standing” in qua. Chissà perché, se voglio sentire grande musica, devo ascoltare gente sull’ottantina. Forse sono troppo vecchio, ma forse anche troppo viziato dalla stellare musica che ho sentito negli anni della mia adolescenza, quando ogni disco che usciva è poi diventato a suo modo un classico che si esegue ancora adesso. Ad ogni modo se mi dite che il disco appena nominato non vi piace, andate cortesemente a scopare il mare, perché vuol dire che di musica non capite un emerito tubo.