Innanzitutto un ringraziamento a tutti per la magnifica giornata trascorsa a Latisana, sperando che fra poco ci possa essere il bis, magari un tantino più numeroso (per quanto pochi, ma molto buoni, è pur sempre una situazione comunque vincente), qui da noi a Praprot.

Mi faccio vivo in ritardo per tutta una serie di motivi: il più pedestre e banale è che finalmente è spuntato il sole, ha cominciato a fare caldo (contrariamente a quasi tutti io odio il freddo – come ho già detto, è questa la principale ragione per cui non mi sono mai cimentato con alcun tipo di sport invernale – il mio sogno è sempre stato la famosa spiaggia tropicale sotto una palma da cocco, della serie “figo caschime in boca”, come diciamo a Trieste) e dunque posso crogiolarmi al sole per tutto il tempo che voglio, cosa che obiettivamente limita di molto, a rosolatura avvenuta, le capacità mentali. A seguire c’è stato il fatto che in TV c’era molto sport da seguire, tutto sport che piace a me, tipo golf, atletica leggera e ciclismo, oltre ovviamente agli Europei femminili di basket dei quali, se a qualcuno interessa, potrei anche parlare. L’esperienza però mi insegna che, ogni qualvolta ho provato a parlare di basket femminile, sono stato rimandato al mittente senza sollevare alcun tipo di entusiasmo, per cui mi sembra di aver recepito l’antifona e dunque sorvolo. E ciò per quanto, anche per il mio passato di giovane coach, l’argomento mi sembra importantissimo e cruciale anche in un quadro molto più ampio di discorso sull’offerta di sport per le donne che oggigiorno si dedicano a tutto, rugby compreso, salvo che al basket che è in caduta libera, travolto ormai da quello che viene percepito come lo sport di squadra femminile per eccellenza, ovviamente la pallavolo (come negli USA lo sport femminile per eccellenza è diventato in questi ultimi anni il calcio, e anche qui ci sarebbe da discutere e analizzare a lungo le ragioni per le quali sia potuta succedere una cosa del genere, importante perché è soprattutto un formidabile indicatore sociale di come sia visto il ruolo della donna da quelle parti). Il fatto che le formidabili azzurre si siano fatte travolgere dal Montenegro (che ha una popolazione che è la metà di quella slovena, per dire) dovrebbe far suonare tutta una serie di sirene d’allarme per tutto il movimento cestistico italiano (ricordando sempre che le ragazze sono la metà più qualcosa della popolazione totale), mentre sembra che la catastrofe europea, dovuta essenzialmente alla straordinaria scarsezza tecnica delle giocatrici che abbiamo visto e che pure dovrebbero rappresentare il meglio di tutto un movimento di un paese di 60 milioni di abitanti, sia passata del tutto inosservata. Io continuo sempre a rimarcare che le ragazze sono anche le nostre future madri e che avere una base importante di femmine appassionate di basket vuole dire automaticamente che ci saranno anche tanti più ragazzini, e dunque anche ragazzine, che da piccoli saranno indirizzati al basket proprio per il fatto che è lo sport della mamma. Scusate se è poco. A me sembra tantissimo, decisivo quasi. Per quanto mi riguarda ci sarebbe anche il totale fallimento, su tutti i fronti, della squadra slovena che a voi evidentemente non interessa, sulla quale ci sarebbe da scrivere un libro. Vedremo se riuscirò a parlarne con qualche fenomeno della Federazione slovena, perché avrei veramente tantissime cose da dirgli e soprattutto da rimproverargli. In breve, con questa fallimentare avventura, vissuta fra l’altro nel forno perpetuo delle Stožice, dunque in casa, il basket femminile sloveno portato in vita dalla grande scuola di Damir Grgić a Celje è ripiombato all’anno zero e d’ora in poi possiamo considerarlo in Slovenia uno sport estinto. Come vedete, mi sono “divertito” e “esaltato” su due fronti e la depressione provata mi ha fatto passare ogni voglia di scrivere. Meno male che almeno alla fine ha vinto il Belgio, per cui facevo un grandissimo tifo, perché giocatrici come la Meesseman e la fenomenale massaia fiamminga Linskens sotto canestro sono una vera e propria salutare boccata di aria fresca. Giocano a basket, per Dio! Almeno loro. E, guarda caso, le due suddette hanno giocato a oltranza per tutta la partita o quasi e il Belgio ha vinto giocando praticamente in cinque-sei per tutto il tempo. Per me c.v.d., ma lasciamo stare. So che sono vox clamantis in deserto, per cui basta così.

Passando alla finale scudetto posso tranquillamente rimanere in tema. Nel senso che dei vostri commenti alla serie la cosa che mi ha letteralmente sconvolto è stata la lista con relative pagelle annuali postata da Buck. Anche uno come lui che di Milano sa praticamente tutto a un dato momento ha dimenticato un giocatore della sterminata lista dei giocatori sotto contratto dovendo postare un’aggiunta che parlava di Baron. Una lista così lunga (pletorica?) sarebbe stata inconcepibile solo pochi anni fa, immaginarsi ai miei tempi, quando 12 giocatori in squadra bastavano e avanzavano, tanto che fra di loro c’erano anche 2-3 juniores che intanto si facevano le ossa, ma che praticamente mai vedevano il campo. E’ chiaro, quella volta si giocavano molte meno partite, l’intensità del gioco era molto più bassa (grazie a Dio), tutte cose giuste ovviamente, per cui ammetto senza problemi che oggigiorno le esigenze sono diverse e che una squadra impegnata su più fronti (oddio, la Coppa Campioni esisteva già allora) ha bisogno di un roster ben più sostanzioso di quello che bastava una volta. Ammesso ciò però il discorso diventa più complesso e secondo me andrebbe aperta una discussione su come questo roster debba essere usato, ruotato se volete. E’ mia precisa opinione che Milano (e Bologna pure lei, sia ben chiaro, anche se, come dice Gino, su un piano abbastanza inferiore causa i diversi budget) abbia usato questo sterminato serbatoio di giocatori a disposizione in modo strano, praticamente a capocchia, facendo alla fine un gran casino che, fra le altre cose, ha impedito alla squadra stessa di avere una sua precisa identità con automatismi ben oliati che dovrebbero essere il marchio indelebile di una conduzione della squadra fatta in modo coerente e produttivo. Mi spiego cominciando con un mio preciso pallino al quale ho accennato alla fine del paragrafo scorso. Le prove date da tutta l’esperienza storica di ogni gioco di squadra portano all’inevitabile conclusione che le singole (attenzione, aggettivo importantissimo!) partite si vincono con un nucleo di giocatori fissi, i titolarissimi, come dicono nel calcio, che sono in campo per tutto il tempo possibile (come dicevo ai miei tempi: ci sono giocatori che vanno in panchina per tre sole ragioni, cinque falli, infarto o gamba rotta), circondati da specialisti che ruotano con compiti tattici contingenti (quintetto alto o basso, gioco perimetrale o interno, specialisti difensivi, tiratori “microwave” eccetera), ma in numero comunque limitato per non snaturare il gioco di squadra che deve sempre avere una sua precisa identità. In definitiva le singole, sottolineo singole, partite si vincono ruotando 7, 8 giocatori al massimo.

Ora un campionato, o addirittura più campionati contemporanei, sono una successione di singole partite, ovviamente. Qui entra in ballo la frequenza delle partite, la loro intensità, l’importanza con la conseguente pressione psicologica di un match importante, non ultimi ovviamente i continui viaggi (ridendo e scherzando si dimentica sempre che fra Madrid e Tel Aviv ci sono in realtà tre fusi orari di differenza con conseguente ovvio sballottamento dei giocatori abituati a orari ben fissi di allenamenti e riposi), ragion per cui è solo ovvio che le partite si condizionano fra loro costringendo i coach a continui aggiustamenti e rotazioni. Però il fatto rimane che le singole partite si vincono giocando in 7/8. Un fatto che si dimentica spesso e volentieri.

Come fare per rimediare a queste due necessità che sembrano elidersi a vicenda? Secondo me l’unico modo per minimizzare il problema è in realtà molto semplice. Per esempio nel caso di Milano mettendo in piedi due squadre diverse, praticamente incomunicabili fra loro fino ai momenti chiave della stagione, playoff di campionato e/o Eurolega. Buck ha elencato ben 18 giocatori. Sarebbe così difficile dividerli in due gruppi di nove da destinare uno al campionato e l’altro all’Eurolega ruotando gli altri per riempire la formazione di 12 giocatori però ben sapendo che questi tre sono lì solamente per fare numero o dare il loro contributo in momenti ben precisi o per fare magari a un dato momento una salutare sgambata? Non credo che nessuno possa contraddirmi se dico che il parco di giocatori italiani della squadra è superiore a quello delle altre squadre di Serie A, o almeno di livello tale (non so, per dire a caso, Baldasso, Tonut, Datome e Biligha, lasciando Melli e Ricci alla squadra di Eurolega..,) che con l’aggiunta di qualche straniero che non trova spazio in Eurolega (Pangos, Luwawu-Cabarrot, Mitrou-Long…) si qualificherebbe senza alcun problema per i playoff, quando poi la squadra si presenterebbe al completo. Stesso discorso per l’Eurolega con il nucleo formato dagli altri nove con l’aggiunta di altri tre specularmente a quanto avviene in campionato. Secondo me questo tipo di approccio porterebbe solo benefici. Intanto il primo è che, giocando sempre assieme, i due nuclei potrebbero sviluppare molto meglio gli automatismi di squadra fino a poi trovarsi praticamente a occhi chiusi. Il secondo, anch’esso molto importante, è che i minutaggi d’impiego sarebbero molto meglio distribuiti su tutto il roster risparmiando così fatiche eccessive a certi giocatori con molte meno probabilità di infortunio. L’unico problema sarebbe che lo staff tecnico dovrebbe in realtà allenare due squadre diverse per la stessa paga che prende allenandone una sola. Ma, essendo Milano, anche questo problema potrebbe essere risolto in qualche modo.    

Mi rendo perfettamente conto che questo tipo di struttura, per come l’ho presentata, è troppo schematica e semplicistica per poter veramente funzionare, in quanto per esempio non tiene in conto eventuali assenze dovute a infortunio. Poi altri difetti ce li avrà sicuramente e sono sicuro che, se non altro per darmi contro, li troverete tutti. Quello che volevo però dire in sostanza è che bisognerebbe ragionare in termini globali secondo questo tipo di linea di ragionamento perché se non altro, e voglio proprio vedere come in questo potrete darmi torto, è inutile avere 18 giocatori pagati profumatamente se poi, in determinate parti della stagione, alcuni di loro non giocano proprio e gli altri invece si sciroppano tre-quattro partite alla settimana. Non è né logico, né produttivo, né economico, se volete, perché magari, tanto per dire, di quelli che giocano sempre magari uno si rompe, deve entrare quello che non ha mai giocato e si rompe pure lui perché non è in ritmo gara. Ma altre incongruenze di questo tipo se ne potrebbero trovare quante se ne vuole. Non so, a me pare un argomento su cui discutere. Voi che ne pensate?

Tornando alla finale scudetto onestamente, e a questo punto penso di sorprendervi un tantino, mi è sembrata assolutamente in linea con quanto mi attendevo (fine stagione, gambe molli, pressione per la posta in palio). Non è stata certamente una serie scintillante, e del resto nessuno, visti i precedenti stagionali, poteva logicamente pensare che due squadre che hanno giocato sostanzialmente male per tutta la stagione potessero di colpo tramutarsi da anatroccoli in cigni. Però è stata combattuta, giocata da ambo le parti con difese competenti, concentrate e attente, e alla fine equilibrata e interessante. L’unica cosa che mi lascia perplesso è la scelta iniziale di Scariolo nella partita decisiva. Come sempre ho cancellato la telecronaca affidandomi al solo suono d’ambiente e facendomi la telecronaca da solo. Quando ho visto le squadre scendere in campo ho avuto un sussulto e mi sono chiesto con stupore: “Che ci fa Belinelli in quintetto?” Soprattutto in questa ovvia fase declinante della carriera il Beli è il classico giocatore da inserire per dare la famosa scossa sperando che sia in una di quelle giornate nelle quali infila i tiri anche più pazzi e illogici, è cioè il classico giocatore tattico e mai strategico. E infatti Milano è subito scappata via giocando un basket che mi è molto piaciuto (quanti tiri da tre ha fatto Milano nel primo quarto? A mia memoria nessuno) per la pressione continua sotto canestro con pick che prevedevano anche il roll (di Hines purtroppo non ne vedremo più tanti in futuro) e con il buon Gigi che ha dimostrato per l’ennesima volta che la classe non è acqua e che quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare. E quando Milano è scappata via è Mickey (l’unico che avesse segnato fino a quel momento per Bologna) per far entrare mano-de-pedra Jayteh, ma soprattutto è entrato Abass che, con tutto il rispetto, non è certamente giocatore da gare sette di una serie scudetto. Semplicemente non è capace abbastanza per poter essere utile in campo in partite di quel tipo di intensità. E lì la partita è praticamente finita. Sì, Bologna quando ha finalmente messo in campo quintetti logici, l’ha rimessa in equilibrio, ma sempre in salita tipo Mortirolo a debita distanza dall’avversario in fuga. E poi alla fine c’è stato il tiro pazzo di Baron da metà campo che ha chiuso definitivamente la contesa. Onestamente quello è stato l’unico momento in cui ho provato un po’ di fastidio intellettuale, perché un tiro sciocco del genere mai sarebbe dovuto entrare e in un universo parallelo giusto e onesto si sarebbe dovuto vedere nel finale tutto un altro tipo di partita. Però in questo universo il tiro è entrato e tant’è. Bravo Baron e brava Milano che ha comunque assolutamente meritato di vincere da un punto di vista strettamente sportivo.

E ora appuntamento alla sconvescion dell’ 8 luglio nella quale avremo veramente molte cose da discutere. Non vedo l’ora. E intanto mi godrò come un suino il Tour. Vingegaard ha dimostrato al Delfinato di essere ancora più forte dell’anno scorso e Pogačar, rientrato dopo l’infortunio al polso ai Campionati sloveni, ha vinto la cronometro di Pokljuka (gli appassionati del biathlon conosceranno la retta d’arrivo, perché è quella delle piste di biathlon a Rudno Polje) rifilando 5 minuti al secondo (non c’era comunque Roglič) con un tempo di quasi due minuti inferiore a quello da lui stesso fatto tre anni fa sullo stesso percorso, e poi ha vinto per distacco la maglia di campione nella gara in linea andando in fuga dopo 20 km dalla partenza (!) assieme a Mezgec, facendosi 130 km in coppia sempre in testa e poi staccando senza problemi il velocista sulla salita finale verso Rudno Polje lasciando il terzo, Mohorič, a oltre 4 minuti di distacco. Insomma ne vedremo delle belle. Sarà una lotta fra titani.