Quando il caldo impera le menti si liquefanno. Ne ho avuto la conferma in questi giorni nei quali sono stato praticamente sempre in stato vegetativo, a parte due risvegli alla settimana per i tornei di bridge che per fortuna si svolgono al Circolo Marina Mercantile di Barcola in riva al mare dove di sera la brezza mitiga un po’ la temperatura, per cui ci si può anche concentrare sul gioco. Di scrivere non se ne parlava neanche.

Oggi mi sforzo di farlo, primo perché sarebbe anche ora di farlo se non altro per ringraziare tutti i presenti della bellissima sconvescion che per me ha avuto il highlight assoluto quando Boša ha spiegato a Stefano e Llandre cosa si dice ai giocatori nell’ultimo time out, cioè niente, visto che non sono assolutamente ricettivi, per cui ho avuto la conferma di quanto andavo dicendo per tutta la mia carriera di allenatore e poi di telecronista, che cioè chiamare il time out per l’ultimo attacco equivale semplicemente a organizzare al meglio la difesa avversaria.

Opinione questa sicuramente non mainstream, ma che, almeno personalmente per la mia esperienza maturata in panchina, si è rivelata ogni volta giusta. Certo, bisogna avere in campo giocatori bravi che sanno cosa fare, ma uno li mette in campo per quello e, se ha fiducia in loro, sapranno ben loro fare la cosa giusta. C’è comunque una cosa che ho imparato negli anni dello Jadran sotto la guida dell’allenatore di Novo Mesto Jože Splichal (cognome di origini ceche, dunque da leggere Splikhal e non certamente Spličal come fanno inevitabilmente i cronisti italiani quando sono alle prese con cognomi cechi, slovacchi o polacchi con l’unica eccezione di Nicolodi di Sky che è diventato un mio idolo assoluto quando ha finalmente chiamato un ceco con il nome giusto di “Irži”  invece dello stomachevole “Žiri” che mi tocca sempre sentire), a mio avviso di gran lunga il miglior allenatore che lo Jadran abbia avuto nella sua storia, che ogni anno, in dipendenza dalle caratteristiche dei giocatori che aveva disposizione, preparava un gioco chiamato “Ultimo attacco” che non veniva mai eseguito in partita se non quando serviva, appunto, per l’ultimo decisivo attacco. I giocatori lo avevano tutti imparato alla perfezione, per cui al momento giusto non serviva chiamare time out per organizzare gli avversari, ma si passava direttamente all’ “ultimo attacco” che, come detto, tutti conoscevano a memoria. Secondo me si tratta di una cosa giustissima, utilissima, tutto sommato un vero e proprio uovo di Colombo che non ho però mai visto duplicato da nessuno, in nessuna parte del mondo. Eppure è una cosa, a pensarci, che si impone da sé. Almeno per me.

Sempre riallacciandomi a quanto parlato durante la sconvenscion due parole, ovviamente, sul Tour che ho seguito con grande interesse e passione. Guarda caso scrivo proprio dopo che è finito, come giustamente sospettava Cicciobruttino, ma la ragione per cui lo faccio ora è molto semplice: non essendoci più le tappe al pomeriggio (con in più le differite delle nottate di Eugene) ho molto più tempo libero per scrivere. Ho detto più volte che avrei voluto essere nato in Danimarca perché la gente lì è esattamente come io penso che la gente debba essere. Me ne sono innamorato tanti anni fa quando vi feci la prima gita con la famiglia e girammo in lungo e in largo apprezzando ogni momento della gita. Ho già scritto di questo episodio, ma mi scuserete se lo ripeto per chi magari abbia cominciato a leggere questo blog da poco tempo. Un giorno viaggiavamo all’interno dello Jutland su una strada dritta senza traffico. Limite 90 km all’ora. Papà ovviamente da buon nato in Italia e dunque abituato alle abitudini mediterranee se ne infischia e tira la macchina quanto può. Dopo una curva c’è una pattuglia della polizia danese che ci ferma. Arrivano due poliziotti cortesissimi che si mettono a parlare con mio padre in inglese, lingua che lui insegnava alle superiori, per cui non c’era problema. Il poliziotto con aria costernata riferisce a mio papà che il radar montato sull’aereo che sorveglia la zona (indicato con un preciso gesto del dito – effettivamente c’era) aveva rilevato una velocità di 105 km orari, per cui è costretto a multarci. La cifra è roba da svenimento, un multiplo notevole della cifra che si pagava da noi per la stessa infrazione, e mio papà comincia disperatamente a tentare di negoziare. Niente da fare, il poliziotto gli spiega che sono in pochi, per cui o pretendono multe salate per dissuadere la gente a fare la furba, oppure non avrebbe senso neanche mettere limiti. Papà mestamente paga, il poliziotto si profonde in scuse, saluta e noi ce ne andiamo. Ma la storia non finisce qui. Qualche mese dopo ci arriva a casa una raccomandata dalla Danimarca con annesso assegno circolare. La lettera racchiude il verbale della polizia e la decisione del tribunale locale al quale era stato mandato. Il tribunale aveva deciso che la multa inflittaci era stata troppo elevata e che avrebbero dovuto  comminarcene una molto più lieve, per cui ci mandavano un assegno per ripagarci del troppo che avevamo dovuto pagare. Il tutto accompagnato da molte scuse.

Non potevamo crederci, abituati al nostro stato che tenta di fregarti come può, per cui tu tenti di fregarlo a tua volta, e, per quanto fossi giovanissimo, è stato lì che decisi che avrei voluto essere nato in uno stato severo sì con la gente, ma prima e soprattutto con se stesso. Solo comportandoti così puoi sperare che la gente rispetti le regole, solo se sai che, se sbagli tu, paghi, ma se sbaglia lo stato, paga lui in modo assolutamente speculare. Non solo, ma negli anni poi, ogni volta che ho avuto a che fare con i danesi, mi sono sentito a casa mia divertendomi tantissimo, ma sempre con misura e nel modo giusto. Memorabile fu una serata (meglio, forse, nottata) passata in un luogo vicino a Palma de Mallorca nell’ ’84 (si chiamava Andratx, se vi interessa) in un pub frequentato da ragazzi danesi con i quali noi dello Jadran, in vacanza premio, legammo subito. Ne facemmo di cotte e di crude, ma tutto in controllo, divertendoci e mai sbracando. Fra l’altro il giorno dopo un altro nostro gruppetto che era andato invece in un pub inglese si presentò a colazione pieno di lividi, in quanto era finito in mezzo ad una gigantesca scazzottata generale. Inciso: chissà come da quel momento ho cominciato a giudicare i popoli dal tipo di sbronza che prendono. Evitare come peste inglesi. francesi e, scusami Boki, croati, mentre i tedeschi sono molto meglio di quanto si pensi, con gli altri slavi (noi sloveni di Trieste e sloveni in genere compresi ovviamente) che, più alcool ingurgitano, più diventano sentimentali finendo con  l’abbracciarsi appassionatamente tutti assieme piangendo sulle proprie sorti senza speranza. I più allegri e frequentabili senza timore, oltre ai danesi, sono stranamente i celti, siano essi magari galiziani o addirittura bretoni, per non parlare ovviamente di irlandesi e scozzesi che sono assolutamente il massimo. E gli italiani? Dipende. Non c’è modo migliore per ricordare le molteplici radici e origini della gente che parla italiano che  quello di annotare come le sbronze italiche siano diversissime da regione e regione.

Tornando al Tour è solo ovvio che facessi il tifo per Pogačar, ma poi è successo che si è verificato quanto ebbi a dire quasi due anni fa all’amico Walter che mi magnificava le doti di Evenepoel anche per le grandi corse a tappe: “Guarda, Walter, non mi intendo di ciclismo, ma mi intendo di gesti sportivi, per cui è mia precisa convinzione che l’unico che vedo che nei prossimi anni possa competere con Tadej è quel giovane danese che si chiama Vingegaard”. Sono stato facile profeta, perché le sue doti mi erano apparse già subito enormi, soprattutto le doti di scioltezza in corsa che portano ad un minor affaticamento sia fisico che psicologico, per cui permettono un pronto recupero fra tappa e tappa, la dote assolutamente fondamentale per uno che vuole primeggiare nelle corse a tappe. E poi, malgrado l’apparenza quasi diafana, uno che per fare i soldi per poter gareggiare va a 20 anni alle 5 di mattina a tagliare tranci di pesce ai Mercati generali è uno che deve essere tosto, ma tosto forte, per forza

A proposito di gente tosta non so cosa possa fare Primož Roglič per scacciare finalmente la nuvola fantozziana che lo perseguita da sempre nella sua carriera. Stavolta è caduto su una balla di paglia che era stata scaraventata a centro strada da uno davanti a lui (non colpevole assolutamente, perché la balla era già messa storta dal bell’inizio), ha dovuto mettersi a posto da solo la spalla lussata e ha dovuto attendere un bel po’ che qualcuno lo scortasse, in quanto la Jumbo Wisma era in quel preciso momento occupata a riportare sotto Vingegaard, azzoppato da una foratura (vogliamo quantificare il lavoro di Van Aert nel riportare in corsa il danese con Pogačar scatenato davanti sul pavé? – il Tour secondo me Vingegaard l’ha vinto quel giorno). Lui ha minimizzato quanto gli è accaduto, ma la morale della favola è che gli sono state successivamente riscontrate lesioni vertebrali (lui ha una soglia del dolore talmente alta che quasi non se n’era accorto, diceva solo che gli faceva stranamente male la schiena), per cui con ogni probabilità il resto della stagione se ne è andato a escort.

E il brutto è che non l’avevo mai visto tanto in forma, in quanto per la prima volta in carriera aveva iniziato il Tour palesemente appena al 75-80% della condizione massima, e dunque ero sicuro che nell’ultima settimana avrebbe fatto strage.

Adesso che ha vinto Vingegaard ovviamente Pogačar è diventato, se non un brocco, uno fortemente  ridimensionato che è stato detronizzato da uno più forte di lui. Altolà: il buon Tadej ha vinto la classifica della maglia bianca con oltre un’ora (!!) di vantaggio sul secondo, è arrivato secondo sì, ma uno come Geraint Thomas l’ha lasciato a quasi quattro minuti pur avendo dovuto scontare la terribile bambola da fame del Granon che gli è costata tre minuti secchi. Lasciamo stare Hautacam: lì doveva attaccare per contratto e, attacca adesso, attacca ancora e attacca dopo, alla fine è solo normale che ti attacchi al tram. Soprattutto se il tuo massimo avversario trova all’ultimo chilometro a aspettarlo per trainarlo quella bestia umana incredibile e assoluta che si chiama Wout Van Aert. Alla fine ha vinto quello che era in questo Tour più forte, vittoria limpida come una lacrima. Ho letto un’intervista con Urška Žigart, la fidanzata, compagna di allenamento e semi manager di Tadej, che ha detto semplicemente che secondo i loro calcoli Tadej era quest’anno più forte rispetto all’anno scorso, in quanto sviluppava una potenza superiore dello 0,2%, ma che Vingegaard rispetto allo scorso anno aveva alzato la sua, di soglia di potenza, di una cifra fra lo 0,5 e lo 0,7% in più, per cui era semplicemente più forte. E allora? Allora è successo che secondo me Vingegaard, all’età di 25 anni, sta completando il proprio percorso di potenziamento fisico, sta dunque entrando nel pieno della maturità fisica e atletica, mentre Pogačar che, ricordiamolo sempre, ha solo 23 anni e che dunque potrà gareggiare per la maglia bianca dei giovani ancora l’anno prossimo, questo percorso deve ancora completarlo. E’ dunque ipotizzabile che i due fenomeni già l’anno prossimo saranno lì e lì in fatto di potenziale, per cui ne vedremo delle bellissime negli anni a venire. Già quest’anno è stato magnifico, per cui gli amanti del ciclismo possono solamente fregarsi le mani. I miei pronostici? A parte la forma del momento, che non si sa mai quale possa essere e che quest’anno è stata tutta dalla parte del danese, sono abbastanza convinto che a fine carriera quello che avrà vinto nettamente di più sarà senz’altro Pogačar che ha dalla sua un maggior spunto, che può vincere volate di gruppi anche non tanto ristretti e che dunque ha in banca un tesoretto di abbuoni che fra corridori di capacità molto simili possono sempre decidere. Oltre a essere, a pari condizioni, più forte anche a cronometro, per quanto di poco. Certo, se però la Jumbo fa correre uno come Van Aert alle dipendenze di Vingegaard si corre il rischio che l’equità competitiva vada a ramengo. Come del resto è stato già quest’anno. Ma rimango fiducioso. Un’unica cosa è però sicura: due corridori di questo livello a gareggiare l’uno contro l’alto a livelli siderali il ciclismo non li ha mai visti. Godiamoceli. E poi Vingegaard è danese, per cui è uno a cui mai e poi mai potrei fare il tifo contro. E dunque chiunque vinca mi sta bene. Certo, se è il mio, è molto meglio.

In fatto di gesti sportivi anche l’atletica attuale non difetta di fenomeni. Peccato solo che i Mondiali di Eugene si svolgessero di notte e che le differite la mattina dopo fossero troppo saltuarie, anche a causa del fatto che le gare fuori dallo stadio si svolgevano per loro a ore antelucane che erano invece quelle giuste per noi. E se non ho niente di contrario a vedere le maratone, ho invece una specie di idiosincrasia quasi filosofica per la marcia che proprio non sopporto. Se lo scopo è di andare dal punto A al punto B il più velocemente possibile, allora perché non correre? Perché invece sforzarsi in un gesto atletico del tutto innaturale che nella vita reale non si verifica mai, ma proprio mai? Si può nella vita reale camminare velocemente, certo, ma se proprio ci si deve muovere più velocemente ci si mette a correre. E infatti dal mio punto di vista la marcia è una corsa mascherata e, onestamente, non riesco a distinguere fra i “regolari” e quelli che non lo sono. Il problema è che gli italiani sono forti proprio in questa disciplina, per cui ce la propinano dal primo all’ultimo metro. E io ovviamente cambio canale. Marciatori, vi siete offesi? Peccato, ma non cambio né mai cambierò di una virgola la mia opinione in merito.

Tornando all’atletica per me “vera” vedere gente come la McLaughlin o la sempiterna Miller (simpatico l’aneddoto che racconta suo marito, il decatleta estone Uibo, che si lamenta di essere l’unico atleta al mondo che quando si allena sui 400 con sua moglie perde sempre), o Duplantis, ovviamente, per non parlare di quella incredibile atleta che è la Rojas che pratica uno strano salto doppio con breve passo intermedio, ma che zompa in modo del tutto incredibile, è una vera e propria goduria dell’anima, poesia in movimento, il meglio anche dal punto di vista estetico che un corpo umano in moto possa produrre. Inutile, l’atletica è e sempre sarà, giustamente, la regina degli sport.

Ho cominciato con il basket e vorrei finire in breve ancora con il basket per dire qualcosa che l’altra volta non ho avuto modo di dire, semplicemente perché quando ho scritto l’ultimo post non era ancora accaduta. C’è stata la partita amichevole a Trieste fra Italia e Slovenia. Prima della partita sono stati suonati gli inni. Durante la Zdravica i tantissimi sloveni in tribuna calati da ogni dove hanno cantato il loro inno e gli italiani seguivano in silenzio. Poi è risuonato l’Inno di Mameli. Cantavano gli italiani e gli sloveni seguivano in silenzio. Alla fine grande applauso per tutti. La partita è andata via in un’atmosfera distesa e amichevole ed è finita nel rispetto e nell’amicizia. E io mi sono sentito vecchio. Non è possibile, mi son detto, che ancora durante la mia vita abbia potuto vedere a Trieste cose che durante la mia infanzia dell’immediato dopoguerra, fra tensioni e odi reciproci di ogni tipo, pensavo che mai sarebbero potute succedere o comunque non certamente mentre sarei stato ancora in vita. Eppure è successo e, devo dire, mi sono commosso fino alle lacrime. Poi, parlando con tantissime persone sia dell’una che dell’altra parte, mi sono accorto di non essere stato l’unico.