Mi piace: avete definito il mio silenzio “stridente”. In realtà non ho praticamente nulla da aggiungere a quanto detto succintamente nel post precedente. Rimane la mia lettura della situazione che viene di giorno in giorno supportata dai fatti e dai commenti delle persone veramente qualificate per farlo. In merito devo rivolgere un particolare elogio al TG di Sky che, oltre a riportare notizie in modo asciutto e senza particolari indulgenze a storie strappalacrime, ha il grandissimo merito a chiedere pareri a persone “informate dei fatti”, come dicono gli avvocati. Degli italiani l’unico, ma veramente unico, che dal mio punto di vista ha il diritto di esprimere opinioni è Lucio Caracciolo (a proposito, Leo, grazie di cuore per avermi mandato l’ultimo numero di Limes che ho letto con grande interesse) e infatti per ascoltarlo devo guardare Sky, che per il resto chiede opinioni solamente a persone che le cose le conoscono. Per esempio oggi hanno intervistato un’esperta internazionale di ovvie origini georgiane, di nome Nona Mikhelidze, che ha esposto le cose in modo logico, razionale e senza peli sulla lingua che ho ascoltato con grandissimo interesse, in quanto ha detto cose che solo un ex sovietico può sapere.

Gli altri canali, Mentana compreso, dopo aver ascoltato cose semplicemente raccapriccianti che non c’entrano un tubo con quanto succede sul serio e che poggiano i loro ragionamenti su basi semplicemente inesistenti, per non dire false, per me semplicemente non esistono. Immaginarsi quanto possa seguire i vari clamorosi fanfaroni che solo Edoardo e gente delle sue opinioni politiche (che sono ovviamente esattamente opposte alle mie) può apprezzare. Dunque, per riassumere, quanto ho scritto l’altra volta lo sottoscrivo e ribadisco.

E proprio per Edoardo che ovviamente invito d’ora in poi a moderare almeno del 90% i suoi interventi sulla guerra, visto che ormai è un disco rotto che ripete sempre le stesse identiche improponibili cose, devo subito mettere in chiaro una cosa fondamentale. Chi comincia una guerra e aggredisce un paese limitrofo che in quel momento non costituisce per lui alcun tipo di minaccia, è semplicemente un criminale. Punto. Tentare di capire perché abbia fatto una cosa del genere è un dovere per tutti, ma giustificare mai. A nessun costo. La Russia ha aggredito l’Ucraina con il preciso scopo di sottometterla, dunque Vladimir Vladimirovič Putin è un criminale di guerra. Su questo non accetto discussioni, anzi avverto che qualsiasi tentativo sul mio blog di giustificare in qualche contorto modo l’aggressione russa sarà segato senza pietà (come già fatto per un post delirante l’altra volta, ma nessuno se ne è accorto). Almeno questo a casa mia posso permettermelo.

Tanto per dire sono molto chiare le ragioni per cui nella Germania del secolo scorso dopo la prima guerra mondiale sia potuto nascere un movimento che ha portato al potere uno psicopatico come Adolf Hitler. Fondamentalmente sono tutti d’accordo che la pace di Versailles ha imposto alla Germania condizioni intollerabili che hanno messo in ginocchio il gigante europeo, ferito soprattutto nella sua dignità di popolo più ancora che dalle draconiane condizioni economiche. Ecco, se per esempio dopo la prima guerra mondiale i vincitori si fossero comportati con la Germania come hanno fatto dopo la seconda, nella quale i tedeschi si sono comportati fra l’altro infinitamente peggio, Hitler non ci sarebbe mai stato e anche la seconda guerra non ci sarebbe stata (forse, non si sa mai, ma in realtà non si vede perché avrebbe dovuto esserci: i tedeschi avrebbero probabilmente fatto quello che hanno comunque fatto, da posizioni di partenza ben peggiori, dopo la seconda guerra, avrebbero cioè ottenuto l’egemonia continentale grazie alla loro straordinaria potenza economica – malgrado la cortina di ferro nel secondo dopoguerra la cosiddetta area del marco, dove la valuta tedesca era normale merce di scambio, è coincisa quasi al chilometro quadrato con il “Lebensraum” che Hitler voleva conquistare con le armi). Però a Versailles i vincitori hanno fatto esattamente tutto il contrario di quello che avrebbero dovuto fare e allora è venuto Hitler. Che nel ’36 ha rioccupato, contro le clausole del Trattato di pace, la Renania. Con un esercito che era ancora in formazione e che sarebbe stato facilmente sopraffatto da una modesta task force internazionale, se l’avesse voluto fare. Ma non l’ha fatto, perché sostanzialmente gli alleati avevano la coda di paglia per quanto avevano fatto 18 anni prima. E allora c’è stata l’ecatombe mondiale, c’è stata la Shoah, e tutto questo si sarebbe potuto evitare agendo in modo saggio 20 anni prima, o in modo deciso nel ‘36. Però queste clamorose colpe delle potenze occidentali non tolgono una virgola dal fatto che Hitler sia stato un pazzo criminale che ha causato morti, lutti e distruzioni in quantità mai viste prima nella storia dell’umanità. Qui lasciate che mi tolga un sassolino dalla scarpa. Altrettanto criminali sono stati gli italiani con la loro brutale e crudele aggressione alla Jugoslavia (fra l’altro di stampo sciacallesco, in quanto il grosso del lavoro l’avevano già svolto i tedeschi) che ha sottomesso e terrorizzato mezza Slovenia (per quanto perpetrato in Croazia, Boki, aiutami tu), ma si sa, gli italiani sono brava gente e non facevano sul serio. Gli unici da colpevolizzare sono dunque gli sloveni perché hanno avuto l’ardire, loro popolo inferiore, per una volta tanto, di ribellarsi. E poi anche di vincere la guerra, maledizione. Con quanto ne è seguito. Che è l’unica cosa di cui ci si ricorda nella terra della brava gente. Ma tant’è, inutile che lo dica, in quanto, visto che nel dopoguerra nessuno in Italia ha pagato per i suoi crimini di guerra, tutti in Italia sono ancora e sempre convinti di essere, appunto, bravissima gente.

Tutto questo discorso sulla miopia delle grandi potenze che non riescono a vedere al di là del proprio naso e agire nel modo giusto quando ancora ci sarebbe tempo per impedire lo scoppio dei vari conflitti che ci sono stati in questi ultimi 50 anni mi porta a rispondere direttamente alla domanda che mi fa Roda di spiegare cosa avrebbe secondo me dovuto fare la comunità internazionale per evitare di intervenire a fine secolo contro la Serbia. Fermo restando che tecnicamente l’aggressione alla Serbia non è stata certamente un’azione legittima, per quanto secondo me a quel punto, a buoi ampiamente scappati dalla stalla, assolutamente necessaria, la vera domanda è cosa si sarebbe dovuto fare prima, molto prima, parlo dal momento in cui Slobodan Milošević assunse con un colpo di mano il potere in Serbia verso la fine degli anni ’80, cioè più di 10 anni prima che si bombardasse Belgrado. Il nuovo leader si issò al potere sull’onda del risveglio del nazionalismo serbo che era stato represso violentemente dal regime di Tito e che riesplose come la sorgente di un fiume carsico appena lo scorrere del tempo fece sbiadire il ricordo del grande carisma che aveva avvolto il Maresciallo dappertutto in Jugoslavia per le sue grandissime capacità di politico estremamente lungimirante e anche, ovviamente, perché la potentissima polizia segreta jugoslava, molto tollerante su alcune questioni che negli altri paesi comunisti erano molto mal viste (per esempio la satira politica era tranquillamente concessa, bastava che non si mettesse in dubbio il sistema stesso), era del tutto spietata nei confronti dei vari nazionalismi che venivano repressi subito, alla radice, in modo radicale. E tutto ciò aveva molto senso. La Jugoslavia di Tito era nata sulle ceneri della prima Jugoslavia, sulla carta il Regno dei serbi, sloveni e croati, ma in realtà un Regno di Serbia allargato, nel quale i serbi avevano l’assoluta supremazia, cosa che aveva sviluppato un fortissimo movimento antiserbo in Croazia, l’altra nazione importante nazione costitutiva (degli sloveni non si preoccupava nessuno – malgrado le loro aspirazioni austro-ungariche venivano considerati bravi montanari che si sarebbero accontentati di essere il Nord sviluppato e industriale del paese), movimento che era esploso (in tutti i sensi) durante una seduta del Parlamento nel quale un deputato serbo sparò al leader del Partito contadino croato, il quale morì qualche mese dopo per i postumi dell’attentato. E infatti gli ustaša (che tradotto vorrebbe dire qualcosa come “sollevanti”) croati assoldarono dei sicari macedoni della locale IRA (i serbi consideravano la Macedonia una loro provincia e avevano proibito l’uso della lingua macedone, considerandola sovversiva) per eseguire con successo l’attentato che costò la vita del Re Alessandro a Marsiglia nel ’32 durante una visita di stato. Durante la guerra tutti questi nodi vennero inevitabilmente al pettine, per cui la soldataglia fascista croata di Ante Pavelić si macchiò di tutti crimini possibili e impossibili nei confronti dei serbi che vivevano nei territori che i croati consideravano loro (più o meno l’attuale Croazia più l’Erzegovina) mettendo in piedi addirittura un campo di sterminio a Jasenovac.

Poi venne Tito e il suo movimento partigiano che vinse la guerra seppellendo sotto il tappeto tutte queste questioni irrisolte fra serbi e croati (o meglio fra ortodossi cirillici e cattolici latini) sperando che il tempo e la martellante propaganda avrebbero portato alla fine a una pacifica convivenza (quella che c’era stata fino al 1918). Tito però si trovò in merito in mano una patata molto più bollente e soprattutto senza plausibili soluzioni, quella del Kosovo. Quando una regione è contesa fra due popoli che si odiano (i serbi ancora adesso considerano gli albanesi una specie di sub-umani, un po’ quello che succede in America nei confronti dei neri o in Giappone nei confronti dei coreani) e che soprattutto dal loro punto di vista hanno tutte le ragioni per impossessarsene, da tutto ciò non può nascere nulla di buono. Il Kosovo è la culla della storia, della cultura e tradizione serba che risale ai tempi della leggendaria battaglia nella Piana dei Corvi (Kosovo Polje) contro i turchi alla fine del Trecento. Però è abitato da una popolazione a larghissima maggioranza di lingua albanese. E dunque sia serbi che kosovari hanno perfettamente ragione nel volerlo per sé (dal loro punto di vista). Tito escogitò un sistema arzigogolato per metterci una pezza, sistema che funzionò bene fino all’avvento di Milošević. Trasformò il Kosovo (e per ragioni un po’ diverse, ma comunque storicamente ineccepibili, anche la Vojvodina) in una provincia autonoma della Repubblica di Serbia (un po’ quello che l’Italia, dopo gli attentati del dopoguerra, dovette fare con la provincia di Bolzano) dotata di amplissima autonomia con un proprio rappresentante in tutti i centri collegiali di potere (i rappresentanti erano in totale otto, per le sei repubbliche e le due province autonome, e presiedevano a turno l’istituzione a stretta rotazione annuale), ma pur sempre appartenente alla Serbia. Sembrava che questa soluzione avesse salvato capra e cavoli e anche gli albanesi del Kosovo ne erano soddisfatti (non saremo mai serbi, ma jugoslavi sempre, dicevano – in privato, ovviamente). Poi arrivò Milošević che cominciò con la sua politica revanscista che tutto sommato aveva molto fondamento. Tito aveva detto che la Jugoslavia sarebbe stata forte finché la Serbia fosse stata debole e fece di tutto per renderla, appunto, debole. Cosa che ai nazionalisti serbi stava molto sulle scatole, per cui partirono lancia in resta per “riparare” ai torti subiti. E, come Tito aveva ampiamente previsto, aprirono con ciò il vaso di Pandora dei conti irrisolti. I croati, ma anche, a gran sorpresa dei serbi, gli sloveni che loro consideravano fuori da ogni discorso e dunque pensavano che anche per gli sloveni fosse lo stesso, insorsero subito drizzando tutte le antenne possibili. E quando ci fu il famoso incidente che tutti noi vedemmo in TV, quando Milošević organizzò proprio a Priština i festeggiamenti per il Vidovdan, la festa sacra dei serbi in ricordo della battaglia di Kosovo Polje, con ciò provocando scientemente la popolazione locale che infatti insorse e picchiò alcuni poliziotti serbi, e alla fine il leader serbo pronunciò, apparentemente per se stesso, ma invece perché tutti lo sentissero, le famosissime parole: “D’ora in poi nessuno picchierà mai più un serbo” a tutti noi che lo ascoltammo si ghiacciò il sangue nelle vene. Era una dichiarazione di guerra vera e propria, tutti la percepimmo così.

E infatti poi i fatti scorsero inesorabili. L’inizio della fine della Jugoslavia si può datare in quei fatidici giorni del congresso della Lega dei Comunisti jugoslavi, quando prima gli sloveni, e poi i croati a ruota, abbandonarono platealmente la sala con ciò sancendo la fine del regime che aveva tenuto in piedi fino ad allora tutta la baracca. In Slovenia si cominciò a pensare più che seriamente alla secessione, in Croazia alle prime elezioni libere del ’90 per ovvia reazione alle pretese serbe al potere si proiettò il partito ultranazionalista (e dunque più che pronto, anzi proprio ansioso, di entrare il prima possibile in rotta di collisione con i serbi) di Franjo Tuđman, Milošević proseguì speditamente verso i suoi fini organizzando grandi manifestazioni “popolari” che portarono al potere in Vojvodina, Kosovo e Montenegro governi suoi fantocci, per cui l’equilibrio nei centri di potere diventò un pauroso pareggio 4 a 4 che paralizzò praticamente ogni processo decisionale, nel ’90 i serbi delle Krajine croate si sollevarono organizzando la famosa “Rivoluzione dei tronchi”, con i quali tentarono di paralizzare il traffico turistico verso i centri balneari croati, scoppiarono i famosi incidenti di Borovo Selo (Boki, se sbaglio “corriggimi”), insomma la situazione precipitò fino alla sanguinosa guerra scoppiata nell’estate ’91 e che finì solamente dopo la pace di Dayton del ’95, imposta dagli americani che avevano finalmente, sotto l’amministrazione Clinton, mangiato la foglia e avevano riarmato pesantemente i croati per stabilire un equilibrio militare che riportasse i serbi verso più miti consigli. E infatti, appena i croati, militarmente molto migliori dei serbi, avevano cominciato a prendere un netto sopravvento sia nelle Krajine, già riconquistate con la forza, che in Bosnia gli americani li bloccarono di colpo imponendo la loro “pace”.  

Tutto questo si svolse sotto gli occhi del mondo. Che fece cosa? Quello che di più sbagliato potesse fare. L’amministrazione americana di Bush sr. guidata nella politica estera da quel perfetto imbecille di George Baker si convinse che interesse loro era di mantenere unita a tutti i costi la Jugoslavia e Milošević sembrava loro l’uomo forte giusto per espletare questo compito, costasse quel che costasse. In effetti, come ampiamente dimostrato dagli americani nella loro storia, e contrariamente a quanto dicono e forse anche credono, nei loro disegni strategici geopolitici di quello che accade alle popolazioni coinvolte non ha mai potuto fregare di meno. Basta che al potere ci sia il dittatore giusto. Le cancellerie europee, con l’ineffabile De Michelis in testa, andarono a ruota e combinarono il clamoroso patatrac a cui tutti abbiamo assistito. Gli unici che vedevano le cose per come stavano erano Genscher e Mock, i due ministri degli esteri di Germania e Austria, che ovviamente avevano i loro precisi interessi nel voler riportare sloveni e croati nella loro sfera di influenza, ma che erano sinceramente dispiaciuti per il fatto che l’inevitabile dovesse avvenire con uno spargimento di sangue totalmente inutile ai fini dei trend storici che gridavano al cielo che la Jugoslavia non poteva mantenersi unita e che era solo inevitabile che i nuovi equilibri sarebbero stati quelli che sono adesso. Per il Vaticano valeva lo stesso, con la differenza che per papa Wojtila era fondamentale che la Chiesa croata, fortemente nazionalista e integralista per non dire parafascista dai tempi della guerra, quando si compromise seriamente con gli ustaša, e rimasta tale e quale fino ai giorni nostri, si riprendesse il fortissimo potere anche secolare che aveva ai tempi della prima Jugoslavia.

Cosa si sarebbe dovuto fare? Quello che in tempi ancora non sospetti aveva proposto il Presidente sloveno Milan Kučan, vero e proprio Dončić o Pogačar della politica, mente straordinaria, lucida e lungimirante, e cioè la trasformazione della Jugoslavia in una Federazione asimmetrica fra le varie Repubbliche, tutte dotate di totale autonomia sia in campo politico che economico, che avrebbero potuto avere fra di loro vari tipi di rapporti, più stretti o più fluidi in dipendenza dagli interessi regionali, dove di comune ci sarebbe stata solo la moneta e la difesa. Kučan era dai tempi della fine del Partito comunista (del quale era il segretario sloveno e infatti fu lui a orchestrare l’uscita di scena degli sloveni all’ultimo congresso) che continuamente ammoniva i recalcitranti Milošević e Tuđman che, o si faceva così, o per la Jugoslavia era la fine, perché per esempio per gli sloveni per rimanere nella Jugoslavia era una conditio sine qua non (“i miei connazionali confinano con il mondo sviluppato, Austria e Italia, e non voglio più che vadano all’estero come mendicanti”). Bastava ascoltarlo e fare come diceva lui. Per qualche anno si sarebbe andati avanti così, poi ci sarebbe stato l’inevitabile distacco, ma amichevole e incruento come avvenuto fra Cechia e Slovacchia e, perché no?, fra Serbia e Montenegro, e la Jugoslavia e il mondo si sarebbero risparmiati una terribile e sanguinosissima guerra con eccidi disumani tipo Srebrenica. Insomma bastava strangolare Milošević nella culla e non lasciare che crescesse per poi doverlo bombardare dieci anni dopo perché finalmente smettesse. Che era un pazzo scatenato che avrebbe causato danni irreparabili lo si sapeva da quando aveva preso il potere. Era così difficile fermarlo e riportare in vetta ai comunisti serbi di nuovo Stambolić (che infatti Milošević eliminò con un »misterioso” attentato) o uno un tantino più normale? Evidentemente sì. Se si è cretini o solamente ciechi e incapaci.

Purtroppo sono tempi nei quali bisogna parlare di cose di cui uno non vorrebbe mai parlare, nel senso che non vorrebbe mai che succedessero, e dunque c’è poco tempo per parlare di sport. Almeno personalmente da questo punto di vista non ho nulla da lamentarmi. Ho cominciato con la fantastica galoppata solitaria di Tadej Pogačar alle Strade Bianche, corsa che evidentemente non sono l’unico a reputare la più bella corsa ciclistica che ci sia, in quanto per esempio anche il sito della TV slovena ha titolato: “Straordinaria vittoria di Pogačar nella più bella corsa ciclistica al mondo”. Poi c’è stata la settimana ciclistica che ha visto vincere Roglič alla Parigi-Nizza con ciò sfatando il maleficio, grazie all’aiuto gigantesco offertogli da Van Aert nell’ultima tappa, che lo vedeva sempre, per varie ragioni, mai vincitore di una corsa a tappe francese, e soprattutto ha visto TamauPogi dominare in modo surreale la Tirreno-Adriatico (quando è scattato sul Carpegna Vingegaard, che a mio avviso sarà il suo avversario a venire nelle grandi corse a tappe, ha detto: “Eravamo già a tutta e lui ci ha lasciati sul posto, non potevamo farci niente”), poi nel fine settimana ho visto le ragazze slovene fare tripletta sul podio dell’ultima gara di Coppa del mondo di salti con gli sci, e sempre per quanto riguarda il salto con gli sci ho visto domenica la Slovenia declassare in modo umiliante il resto del mondo nella gara a squadre del Mondiale di voli a Vikersund. Poi ho visto ancora l’Olimpija distruggere a Bologna la Virtus rinforzata dai transfughi del CSKA, cosa che mi ha consolato della figuraccia evitata per un pelo dagli svogliati pallamanisti sloveni nella partita di qualificazione mondiale a Padova contro l’Italia, partita affrontata con una vergognosa puzza il naso che una Slovenia non può proprio permettersi in alcun tipo di sport, e soprattutto mi ha in qualche modo consolato del “fracaso” della Juve contro il Villareal. E infine dirò una cosa che non avrei mai pensato di poter dire e che vi sconvolgerà: Brooklyn-Dallas, che ho guardato per vedere Dragić e Dončić tipo due al prezzo di uno (e che hanno giocato ambedue in modo eccellente), è stata una bella partita di basket, e sottolineo basket. Forse perché, compreso Durant, le due squadre sono in mano a veri giocatori di basket. Con in panchina due che sono stati a loro volta due grandi veri giocatori di basket. Che la cosa abbia un nesso con il fatto che si sia visto nuovamente il giuoco del basket? Ripeto, mai pensavo di poterlo dire. Eppure eccomi qui. Non credo neppure a quanto ho scritto. Perdonatemi.