Sono stati più forti. Posso solo dire di essere estremamente orgoglioso della nostra squadra. Mi dispiace per i nostri sostenitori a casa. So quanto ci hanno supportato e avremmo tanto voluto donare loro una medaglia. Tutti lo volevamo e abbiamo provato a fare tutto quanto era possibile per riuscirci. A volte siamo stati troppo emotivi, soprattutto io. Devo ancora imparare a non comportarmi in questo modo. Non ho giocato come avrei potuto e come so fare. Sono molto deluso della mia prestazione. Non ho fatto quanto avrei potuto. Volevo aiutare la squadra molto di più.”

Queste sono le parole dette da Luka Dončić in conferenza stampa dopo la partita contro l’Australia e onestamente mi sembra che non ci sia nulla da aggiungere. Ha detto tutto lui, per cui per ora basta con il basket, se non aggiungendo che un po’ (ma non tanto, in verità…) mi dispiace delle parole dette nel post precedente, dettate dalla foga e dalla rabbia del momento. Quando la Gazzetta fece il mio ritratto alla domanda su quale fosse il mio maggior pregio risposi: “la sincerità” e quando mi chiese quale fosse il mio peggior difetto dissi: “la sincerità”. Ci credo veramente.

Tante volte nella vita mi sarei mangiato la lingua per essere scaturito (come diciamo noi a Trieste, si usa anche altrove?) e aver detto cose che non era proprio il caso di dire. Dall’altro canto quanto esce dalla mia bocca è sempre quello che penso veramente, e quando sono arrabbiato escono in modo, diciamo così, colorito, ma chi mi ha di fronte percepisce benissimo in modo molto “plastico” cosa penso veramente e questo, a lungo andare, secondo me paga. Soprattutto perché quando lodo qualcuno è matematico che non è per piaggeria o rendiconto personale, ma è perché lo penso veramente.

Prima di passare a quanto volevo dire e poi discutere con voi ancora una richiesta per Edoardo che, non riesco a capire come, riesce sempre a scovare cose da me dette secoli fa. Gli sarei molto grato se trovasse il mio pezzo, penso, di circa due o tre anni fa, quando, parlando dello sportivo dell’anno in Slovenia, scrissi che Janja Garnbret era quanto vi fosse di più sicuro nel senso di oro in cassaforte per la Slovenia a Tokio. Sono stato facilissimo profeta, in quanto la 22-enne carinziana (malgrado il catastrofico esito del plebiscito successivo alla Prima guerra mondiale, quando la maggioranza degli sloveni della Carinzia preferì votare per rimanere nell’Austria non volendo aggregarsi al regno balcanico dominato dai serbi – il che fra l’altro dice molto su quanto gli sloveni fossero poi veramente attaccati alla Jugoslavia – un pezzo di Carinzia a sud delle Caravanche rimase alla Slovenia), nata due settimane dopo Luka (influenze astrali?) era quanto di più sicuro vi fosse in fatto di scommesse per Tokio. L’arrampicata sportiva era per la prima volta alle Olimpiadi, secondo me con almeno 20 anni di ritardo, in quanto si tratta di una disciplina difficile e estremamente faticosa che richiede doti acrobatiche e di forza incredibili, molto diffusa dappertutto ci sia una parete da scalare, in quanto arrampicarsi è una delle cose più spontanee che un bambino tenti di fare quando si trova di fronte a qualcosa che potrebbe portarlo più in alto. E infatti, parlando di Janja, i genitori, esasperati dal fatto che appena aveva imparato a camminare si era messa a scalare tutto quanto trovava in casa e la trovavano normalmente in cima a qualche armadio, la iscrissero a una gara per giovanissime speranze che vinse a mani basse. Da lì è cominciata una carriera che a 22 anni l’ha già vista vincere tutto quanto era da vincere (meno l’arrampicata di velocità che ritiene una specialità facilissima da bambini nella quale non c’è da divertirsi, ma nella quale ha dovuto a malincuore cominciare a cimentarsi per poter poi competere nella combinata olimpica), diventando una vera e propria icona per tutte le ragazze che al mondo si cimentano con questo sport. A Tokio, dopo un insperato quinto posto nella velocità ha stravinto per getto della spugna sia i boulder che la parete, nella quale, su un percorso difficilissimo, è stata l’unica ad arrivare a una presa dalla cima, e ha stravinto l’oro. Interessante che la Slovenia, pur non prendendo certamente ori a raffica, ha accolto questa vittoria come un atto dovuto e di routine, essendo fra l’altro concentratissima (strabattuti tutti i record storici di audience televisive) su quanto stavano facendo i suoi cestisti.

Come era peraltro giustissimo che finalmente facesse il suo esordio olimpico il karate, di gran lunga la forma di combattimento organizzato più diffusa al mondo. Ora mi dite che già a Parigi non ci sarà più. Giuro che non capisco perché e sono strasicuro che si tratti di un’enorme ingiustizia. Chi di voi ha letto il libro che ogni sportivo dovrebbe avere sul suo comodino, il famoso “The Lords Of The Rings” scritto da David Jennings ai tempi in cui il CIO era il covo di Samaranch (e, mi sembra, al tempo, chissà perché, mai tradotto in italiano – non so se poi l’abbiano fatto), avrà sicuramente letto di come il karate era in lista per entrare alle Olimpiadi già per Seul ’88, ma allora uno dei membri più influenti del CIO era un lestofante di cognome Kim, dunque coreano, che riuscì con sotterfugi burocratici vari a impedire che il karate fosse ammesso, in quanto aveva un piano ben più ambizioso, che era quello di introdurre alle Olimpiadi lo sport di combattimento coreano, il tae-kwon-do, sport che all’epoca la stragrande maggioranza della gente non sapeva neanche che esistesse. Non solo, ma all’epoca i quattro gatti che al mondo praticavano questo sport fuori dalla Corea erano organizzati in una efficiente federazione mondiale. Kim però fondò una sua federazione con regole anche di combattimento un tantino diverse e, chissà come, il CIO stabilì che le regole valide per le Olimpiadi erano quelle della sedicente federazione fondata da Kim, per cui la federazione stra-maggioritaria fu fatta fuori. E dunque Kim in questo modo divenne il padrone mondiale di questo sport con tutto quello che ciò comporta. Era tanto lestofante che quando fu colto finalmente con le mani in pasta (con Samaranch già in pensione, ovviamente) fu estromesso dal CIO, cosa abbastanza inaudita, visti anche i molto flessibili standard etici in vigore da quelle parti.

Il karate e le Olimpiadi dunque non riescono proprio a convivere, a quanto sembra. Certo è che lo sport stesso non aiuta a fare in modo di essere appetibile per quelli che lo guardano e non sanno cosa sia. C’è per esempio la disciplina del kata che, agli occhi di un profano tipo me che di karate non si intende un tubo, sembra più che altro un grazioso balletto con il concorrente che ogni tanto fa uno di quei gesti che ricordiamo bene dai film di Bud Spencer quando il cattivo di turno gli si mette davanti nella stessa posa pronunciando la fatidica frase: “devo avvertirti che le mie mani sono armi mortali” un attimo prima che Bud Spencer lo spenga con un cazzotto in faccia. Il kumite, il combattimento, è invece tutt’altra cosa ed è molto interessante. Il problema è che è pericoloso. Essendo il karate disciplina molto efficace non è detto che, pur trattenendosi per regolamento, uno dei due combattenti non possa fare molto male all’altro magari perfettamente senza volerlo, come è successo alla povera italiana a cui hanno spaccato la faccia a pochi secondi dalla fine, poi ha vinto, ma è stata lo stesso eliminata per questione di classifica avulsa. Detto fra noi che una disciplina di combattimento si disputi con gironi eliminatori e non direttamente a eliminazione diretta è un perfetto controsenso. Come a dire che il karate è vittima della sua stessa efficacia, ma soprattutto, mi permettano i suoi tantissimi e giustissimi estimatori, il modo con cui disputa le sue gare non mi sembra particolarmente indovinato.

E ora il punto principale. Abbiamo già discusso sulla validità del medagliere e siamo più o meno tutti d’accordo che sia un’interessante curiosità che dice pochissime cose. Però io vorrei fare qui un ragionamento sui grandi numeri che, a Olimpiadi concluse, sono molto grandi. Voglio dire che se un paese conquista in un’Olimpiade, poniamo, 10 medaglie, e poi in quella successiva vince due bronzi (che è il bottino stavolta di un paese socialmente e sportivamente molto evoluto come la Finlandia) non può essere solo un caso. Vale anche il viceversa, ovviamente. Ragion per cui penso che, prendendo i numeri in considerazione per quello che sono, possiamo farne un ragionamento di trend. Il discorso che voglio fare per primo è cosa succede nello sport con il regime politico che vi vige. In ogni regime totalitario lo sport è un’importante leva di controllo sociale e di visibilità politico-propagandistica, da cui i grandi successi, nei tempi che furono, della DDR e dell’URSS. Però anche gli altri paesi socialisti vincevano molto, tipo Romania e Bulgaria, la prima magari nella ginnastica, la seconda nella lotta e nel sollevamento pesi, per dire. L’unico che non vinceva un tubo, o molto poco, e anche quello negli sport di squadra per i quali ha sempre avuto il pallino, era proprio la Jugoslavia. Se arrivava a tre medaglie d’oro era festa grande per tutti noi, anche a Capodistria, dove non si facevano che trasmettere le immagini di questi striminziti successi per esporre le magnifiche sorti del regime. Ora, dopo queste Olimpiadi, ho fatto un po’ di conti. Al netto delle disavventure di Nole Đoković (per non parlare della Perković) e del fatto che una Jugoslavia unita sarebbe stata molto più competitiva negli sport di squadra (la Slovenia da sola è arrivata a una stoppata dalla finale del basket, cosa sarebbe stato se ci fossero stati con lei magari solo i serbi? E pallavolo? E pallamano?) il computo finale dice che la Jugoslavia sarebbe stata settima complessiva (risparmiatevi i discorsi sulla validità delle singole medaglie, di quanto valga un oro eccetera, tutti discorsi già fatti che prendo per buoni, parlo di quanto viene in realtà fatto senza entrare nel merito) con 11 ori,  6 argenti e 8 bronzi, bottino che unita mai non si sarebbe neanche sognata di poter raggiungere. Ripeto, è un dato statistico, ma qualcosa vorrà pur dire. In questo caso dice inequivocabilmente che divisi si vince di più, molto di più. Penso che la stessa cosa valga anche per l’ex Cecoslovacchia, ma qui non ho avuto voglia di fare i calcoli necessari. E, tutto sommato, vale anche per l’ex URSS che, con tutto quanto ha passato, bufere doping in campo sportivo (nel senso che ora più o meno li scovano, mentre una volta passavano impuniti) e sconvolgimenti sociali e politici, pur tuttavia tiene molto meglio del prevedibile.

Nel caso della Jugoslavia, che è quello che conosco (non posso dire meglio, la Jugoslavia so benissimo come funzionava e come funziona adesso, degli altri non ho mai saputo nulla per esperienza diretta, che è l’unica di cui mi fido), la cosa si spiega facilmente. Dividersi ha voluto dire in campo sportivo liberare completamente da qualsiasi pastoia politico-burocratica le singole federazioni prima repubblicane, ma sempre dipendenti dalla federazione centrale e dal CO jugoslavo. Ogni federazione di ogni singolo stato nato dalla dissoluzione ha potuto così perseguire le politiche più adatte alla sua gente e al suo territorio senza dover sottostare a ordini superiori, magari astratti, che arrivavano da lontano. Sembrano paroloni, ma in realtà si tratta della banale constatazione che il decentramento amministrativo, e anche politico, è molto più efficiente di ogni centralismo.

In Slovenia, per esempio, hanno potuto investire molto nel ciclismo e negli sport più praticati e amati dagli sloveni, come ad esempio in Croazia si sono concentrati per ovvie ragioni sul canottaggio e sulla vela, in Serbia hanno fatto ancora diversamente, le ragazze kosovare si sono scoperte judoka micidiali, insomma in ogni realtà è venuta più o meno a galla la naturale predisposizione di quelle genti senza che nessuno dall’alto interferisse. E inoltre un decentramento amministrativo permette ai singoli talenti, potendo saltare l’esiziale passaggio da repubblica a stato federale, di entrare molto prima nel giro che conta maturando in tempo le giuste esperienze. Pensando alla Garnbret di cui sopra, per esempio, nella vecchia Jugoslavia  non avrebbe probabilmente neanche cominciato la sua carriera, in quanto parlare di alpinismo in Jugoslavia era praticamente come raccontare una barzelletta sulle manie dei montanari sloveni e sui loro jodl, parallela a quelle sulla pigrizia dei montenegrini.

L’Italia è sempre stata uno stato di campanili, per cui il problema in realtà non si è mai posto. Le nicchie regionali sono sempre state il motore dell’attività sportiva specializzandosi in modo capillare grazie a piccoli circoli che hanno tramandato, ciascuno nel suo sport, di generazione in generazione le esperienze e le competenze acquisite. E infatti anche in queste Olimpiadi abbiamo seguito tante magnifiche storie di sportivi di cui nessuno (probabilmente neanche il CONI) sapeva nulla, salvo poi rivelarsi vincenti addirittura a livello globale. Ed è stato secondo me proprio per questa straordinaria frammentazione che l’Italia alle Olimpiadi ha sempre vinto molto, ma molto di più, di quanto avrebbero meritato le sue strutture ufficiali, scuola in primis. Lasciamo stare che in queste Olimpiadi hanno fatto latte le galline (o, come ho scritto sul Primorski, se l’Italia vince cinque ori nell’atletica, vuol dire che c’è qualcosa che assolutamente non va nell’universo – forse siamo già in uno strano universo parallelo), o forse gli italiani sono riusciti veramente a copiare il Professore fra le nuvole inventando qualche strano composto che, inserito opportunamente sotto le suole delle scarpe, agisce da molla invisibile. Fatto sta che penso che quanto successo a Tokyo sia irripetibile, se non altro perché prima o poi anche gli altri avranno le stesse molle. Prima che qualcuno le dichiari illegali, ovviamente. Il fatto incontrovertibile rimane che l’Italia è stata semplicemente incredibile vincendo praticamente dappertutto. A parte la scherma e del fatto è molto contento non solo Franz.

Discorso totalmente diverso per la Germania. Ma cosa le succede? La superpotenza europea con trascorsi stellari che improvvisamente diventa una comparsa nell’atletica e nel nuoto, Wellbrock a parte (cioè talento singolo non legabile ad alcun tipo di scuola), nella ginnastica, finanche nel canottaggio e nella canoa, cioè più o meno in tutti gli sport più nobili che ci siano all’Olimpiade e che nel passato erano suo terreno di conquista. Per vincere 10 ori è dovuta ricorrere ai suoi cavalli che almeno loro non erano imbolsiti. Veramente incomprensibile.