Ho aspettato apposta che finisse la settimana folle dello sport italiano per scrivere questo commento a quanto è successo principalmente a Londra. Volevo dire la mia aggiungendomi a tutto il resto del mondo, sperando di dire qualcosa che non fosse la classica melassa appiccicosa che la retorica italiana applica a piene mani quando si tratta di sport. Quanto successo mi ha infatti ancora una volta rafforzato nella mia opinione che l’Italia, quando si tratta di sport, è una nazione particolare e del perché lo sia non sono mai riuscito a capirlo. Ho delle ipotesi che vi esporrò dopo aver fatto un piccolo ragionamento. Parto da un fatto che a me, forte anche del fatto di essere figlio, e dunque di aver tratto dei parziali benefici genetici, di un critico letterario e scrittore, sembra incontrovertibile: gli italiani non sanno fare film, né scrivere veri libri (sono i giornalisti a scrivere le cose migliori, a volte ottime, ma i “veri” scrittori” non sono mai riusciti a farlo) sullo sport.
Eppure ne hanno fatti molti, di film, o anche sceneggiati, se è per quello. Tutti sono, almeno per me, inguardabili. C’è una retorica grondante di epico da quattro soldi, di motivazioni alte e sofferte, di strada verso la redenzione attraverso lo sport, tutta una serie di cose che con il vero sport non c’entrano per nulla. In Italia semplicemente non si riesce a percepire il semplice fatto che un ragazzo (di ogni sesso) che dà calci a un pallone o lo butta in un canestro, o si tuffa in discesa sugli sci, si diverte e ogni tanto qualcuno riesce a trasformare questo divertimento in un lavoro che gli frutta ottimi soldi. Lo sport è tutto qua e le motivazioni per farlo vanno cercate in cose molto semplici, molto umane, in quanto solo le specie più evolute sanno giocare e trarre sia divertimento che insegnamento dal gioco, e non certamente in ragioni che andrebbero bene per qualche tragedia greca. E prendendo spunto proprio da questo fatto, che il gioco è fondamentale per lo sviluppo sia fisico che mentale, e dunque anche lo sport che ne è la sublimazione, le società più evolute danno grande spazio e importanza ad una cultura sportiva di base presso i giovani. In Italia no: lo sport deve essere sempre una cosa sofferta e cerebrale che ha significati reconditi che trascendono quello che è il suo unico, ma fondamentale scopo, quello di essere formativo e educativo per le giovani generazioni. Perché questo succeda non lo so: forse perché, per la storia dell’Italia quale paese cattolico integralista per antonomasia, lo sport sembra attività che distoglie i giovani da quello che dovrebbe il loro solo compito, quello di studiare e di aspirare ai massimi livelli intellettuali, mentre il corpo è solo un mezzo che fra qualche anno ci porterà alla “vera” vita, che sarebbe quella dopo la morte, e dunque non ha in realtà alcuna importanza. In quest’ottica per dedicarsi allo sport senza essere accusati di indugiare in attività futili bisogna sempre inventarsi qualcosa di cerebrale e comunque di trascendente per giustificare la sua pratica. Non credo sia trascurabile neppure il fatto che in Italia, paese di campanili, comuni e signorie innumerevoli e mutevoli, le tenzoni sportive, dagli Orazi e Curiazi in poi, sono sempre state vissute come una specie di surrogato simbolico di battaglia, per cui agli italiani è sempre sfuggita la valenza proprio ludica, intesa come una battaglia mentale per vedere chi è più furbo e capace nella quale il risultato numerico finale, determinato magari da singoli episodi casuali, è del tutto irrilevante, dello sport. Gli italiani nello sport si divertono solo se vincono, non importa come. Non c’è paese al mondo nel quale non valga di più, a livello antropologico quasi, il famoso detto di Vince Lombardi (guarda caso, il cognome ricorda qualcosa sulle sue origini) che vincere non è importante, ma tutto.
Insomma volevo dire qualcosa, ma sono stato sommerso da un’ondata di retorica da quattro soldi tale da sconsigliarmi di farlo, in quanto mai come in questo caso sarei la classica voce del berciante nel deserto. Per esempio nella mia visione dello sport la decisione, sulla quale anche voi, che dovreste essere la punta della comprensione dello sport, avete sorvolato completamente, di Draghi di invitare alla festa a Palazzo Chigi anche i ragazzi che hanno vinto il medagliere degli Europei Under 23 di atletica, è apparsa straordinaria e mi fa ancora una volta pensare che il nostro Primo Ministro sia una persona comunque di livello nettamente superiore a tutti gli altri. O, se non altro, che di sport e di cultura sportiva se ne intende. So benissimo che se continuassi questo discorso entrerebbero in gioco valutazioni ideologiche e politiche che con la cultura sportiva c’entrano come i cavoli a merenda, non per nulla, come detto sopra, siamo in Italia, per cui mi fermo qui. Dico solo che finalmente, per la prima volta in 70 anni di vita, ho avuto la percezione che a capo del governo ci sia qualcuno che sa cos’è il vero sport. Peccato sia solo e che nessuno abbia capito né commentato adeguatamente la portata simbolica, il messaggio se volete, del gesto di aver messo sullo stesso piano oscuri giovani atleti con i semidei del calcio.
Ciò non vuole assolutamente dire che abbia fatto lo snob con la puzza sotto il naso e che non abbia seguito con passione la finale degli Europei e non abbia gioito alla fine. Tanto più che l’Italia mi piace come gioca, ma anche e soprattutto perché stavolta come non mai ho avuto l’impressione che il tanto decantato gruppo esista veramente e che non sia solo una trovata pubblicitaria. Del resto quando lo staff tecnico è formato da amici fraterni che hanno a suo tempo portato la Sampdoria in finale di Champions League, e quando il nucleo della squadra è formato dai tre amiconi che giocavano assieme nel Pescara di Zeman, leggi Immobile (ragione per la quale gioca, non ne vedo altre plausibili – tanto Berardi che Belotti sono molto più utili ai fini del collettivo), Verratti e Insigne, che in questo caso si crei spontaneamente un gruppo coeso è altamente probabile. Per non parlare dei due professori del ruolo di centrale, come disse Mourinho, che anche dopo la partita hanno dimostrato (quando ci sono ancora fortissime emozioni in ballo è praticamente impossibile fingere) quanto siano realmente più che colleghi veramente amici (con tanto di bacetto sulla guancia). E in più io, sarà una mia fissazione, nel calcio faccio da sempre, e ora sempre più, il tifo contro l’Inghilterra. Hanno inventato il calcio, va bene, e allora? Poi bisogna saperlo giocare, cosa che loro pensano che sia loro data geneticamente, semplicemente perché sono inglesi, e invece non è ovviamente per niente vero. Una delle storie che mi fanno sempre gioire è quella della batosta che subirono a Wembley contro l’Ungheria di Puskas, quando vollero dimostrare al mondo chi fosse il padrone del calcio e ne uscirono con le ossa rotte. Per non parlare dell’1 a 0 subito in Brasile quattro anni prima dai camerieri e portuali americani. Vinsero il Mondiale in casa grazie ad un non gol nei supplementari, e poi solo batoste. Ora continuano a pensare di essere i più forti perché grazie ai soldi che ricevono dalle TV mondiali anglofone possono permettersi di prendere tutti i giocatori migliori al mondo, accanto ai quali rifulgono anche emeriti cessi. Per cui quando l’Inghilterra perde godo, tanto più se lo fa in casa contro l’Italia.
Tornando al discorso che ho fatto all’inizio, leggendo le vostre risposte all’interessantissimo post di Skuer dapprima mi sono meravigliato di quanto, secondo me, abbiate mancato completamente il senso vero del discorso, addentrandovi in una selva di numeri che, scusatemi, ma lasciano il tempo che trovano e che soprattutto, mi dovrete ri-scusare, ma a me sembrano totalmente irrilevanti. Certo non lo sono per le varie Federazioni sportive, perché dai numeri che sciorinano dipende la quantità di soldi che ricevono dal CONI, ma dal punto dell’attività sportiva che uno pratichi il calcio invece che il tennis o il badminton invece che il baseball, è insignificante. Esattamente ogni sport ha la sua dignità e la sua ragion d’essere e ognuno merita rispetto. Un bambino, come già detto, la prima volta che vede una palla le dà un calcio, per cui il calcio sarà sempre lo sport più praticato. Poi la palla la prenderà in mano e allora giocherà a basket, volley o pallamano, o magari, se la palla finirà sotto qualche camion e si deformerà, giocherà a rugby o football, poi ancora proverà a colpire una palla più piccola con qualche attrezzo, se sarà un bastone giocherà dapprima al pàndolo (come si chiama a Trieste, nel resto d’Italia mi pare si chiami lippa) che evolverà eventualmente verso il cricket o il baseball, oppure se la farà rotolare per terra si dedicherà a qualche variante dell’hockey, se sarà invece qualcosa di piatto diventerà un tennista, o se del subcontinente indiano un giocatore di squash, o se generalmente asiatico un giocatore di tennis tavolo o badminton. E poi, paese che vai, sport che trovi, dettato sia dal clima che dalla geografia (l’orografia della Slovenia fa sì che lì lo sport della neve per eccellenza sia il salto, in Italia, Svizzera e Austria le alte e scoscese montagne fanno sì che lo sport della neve sia lo sci, non per niente così detto, alpino, in Scandinavia la piattezza e i duri inverni fanno sì che a prevalere sia lo sci nordico, e via dicendo) che anche dalle caratteristiche fisiche della popolazione. In estremo oriente gli sport della racchetta di gran lunga più popolari sono il tennis tavolo e il badminton, mentre il tennis, sport per gente molto più forzuta (li vedete Fucsovics o Hurkacz o magari Opelka a giocare a badminton?) e non necessariamente agile e dai riflessi fulminei, è in secondo piano.
Poi c’è, ma secondo me è un discorso di secondo piano anche se per quasi tutti che ragionano nel modo “italiano” descritto sopra è “il” discorso, chissà poi perché, c’è la faccenda della popolarità globale dei vari sport. Che è data semplicemente dalla prevalenza mondiale della cultura sportiva anglosassone, per cui gli sport che sono popolari presso di loro lo sono anche in tutto il mondo per la semplice ragione che dapprima gli inglesi e ora gli americani hanno dominato e dominano il mondo sia in senso militare e economico che del “soft power”. La loro cultura ha creato miti quali Wimbledon, o se volete, il Masters di Augusta, che sono per loro gli snodi fondamentali di un’annata sportiva e noi ci siamo adeguati. Penso fra l’altro che sia un bene, perché i miti, anche nello sport, sono necessari per stimolare l’interesse, il sogno, quello che volete, insomma per motivare un giovane ad intraprendere una strada sportiva invece di un’altra. E arrivare in finale a Wimbledon è un successo che nel mondo risuona molto di più che in Italia, nella quale, come detto, l’unica cosa che importa è vincere.
E nell’analisi fatta all’inizio penso vada inquadrata anche la diatriba su quanto costi uno sport e come ci siano sport per gente normale o sport per ricconi. Un esempio: girando l’Irlanda in macchina la cosa che salta all’occhio è che, dove ti giri, c’è un campo pubblico di golf. Lì uno che ci vuole giocare può farlo praticamente senza spendere nulla. E anche da noi, tanto per dire: a 8 km da casa mia c’è il campo di golf a Padriciano dove per entrare bisogna essere come minimo milionari, mentre a 10km da casa mia a Lipica in Slovenia c’è un campo di golf a nove buche dove giocare costa più o meno, più meno che più, quello che costa un anno di iscrizione a un corso di minibasket in un qualsiasi nostro club. Per praticare lo sport basta avere voglia e inventiva che il modo si trova. A un dato momento noi a Opicina ci eravamo appassionati di tennis. E’ bastato mettere due sedie ai due lati del centrocampo del nostro playground che alcuni di voi hanno visto, legarli in alto con una corda e giocare senza problemi per tutto il pomeriggio. Certo, se uno vuole iscriversi al Circolo Canottieri Aniene deve avere tantissimi soldi, ma non è certamente in posti come questi che nascono i veri campioni. Ripeto, ogni sport ha la sua dignità e la sua diffusione con diverse gradazioni nelle varie parti del mondo, e praticarlo, se si vuole, si può sempre e comunque. Il problema è avere la voglia e la costanza per farlo. Ed è questo il vero e unico discorso da fare se si vuole parlare di vera cultura sportiva. Che significa svegliare e promuovere questa voglia e poi, ma solo poi, mettere in piedi una struttura tale che permetta ai talenti di lavorare in pace (anche finanziaria) per poter poi emergere e raggiungere il massimo del loro potenziale.
Finisco con il basket. Notato di sfuggita come Gallinari sia entrato al volo nel roster della squadra olimpica al posto di Abass, com’era facilmente pervedibile, vorrei dire qualcosa in merito alle considerazioni di Llandre sul gioco di Dončić e della Slovenia, e penso che ci sarà molto da dibattere alla prossima sconvenscion che a “furor di popolo”, dunque su iniziativa del nucleo storico vostro che comunica via i famosi social (iniziativa che, devo confessarlo, mi ha letteralmente commosso, visto che evidentemente stare insieme piace a voi come piace a me), faremo in via straordinaria sabato 25 settembre sempre che la variante delta non faccia troppo casino. Qui dico la mia e la lascio alla vostra considerazione e ponderazione. Gli inglesi direbbero simply I don’t get it. Fermo restando che le vostre rimostranze sulle naturalizzazioni facili, che fanno sì che le nazionali di oggidì possano tutte giocare con lo straniero di Coppa di una volta, potete farle quante ne volete e ve le lascio fare, tanto non cambiano le cose e comunque non è questo il punto di questa discussione, la Slovenia in questo momento con Vidmar ormai logoro e sul viale del tramonto non ha più lunghi di valore (Dimec lasciamolo stare) e l’ingaggio del peraltro bravissimo Tobey (grazie, Prepelič!) ha solo tamponato una grave falla (oggi sembra che i rappresentanti della classica serie dello sloveno non lunghissimo, ma terribilmente robusto, inamovibile sotto canestro alla Smodiš, Tušek, Jagodnik o Jurak preferiscano darsi all’atletica tipo il giovane discobolo Čeh, grande speranza di medaglia per Tokio). A questo punto sei una squadra di semi nani. E allora cosa fai? Ti arrendi e non giochi? Non mi sembra una grande soluzione. Quello che fai sempre e comunque quando hai in mano una squadra è ovviamente quello di farla giocare al meglio rispetto alle sue caratteristiche. Una squadra di nani, e il sottoscritto lo sa meglio di chiunque altro, visto che in tutta la sua vita mai, ma proprio mai, ha allenato una squadra che, una volta scesa in campo, avesse il predominio sotto canestro, se vuole vincere deve essere una squadra di vespe fastidiose in difesa e soprattutto deve saper correre e tirare il più possibile dentro al canestro, perché sul rimbalzo non c’è proprio trippa per gatti. Ora la Slovenia, se c’è una cosa che non le manca, sono i tiratori. In realtà non le sono mai mancati. Se guardate la storia, ogni generazione di cestisti in Slovenia ha avuto i suoi tiratori, per esempio Hauptman e Horvat vinsero quasi da soli bombardando da ogni dove la finale di Coppa delle Coppe per l’Olimpija contro Vitoria quasi 30 anni fa (fu l’anno in cui, se Trieste avesse vinto la finale di Korač, due coppe europee su tre sarebbero finite a meno di 100 km di distanza). Tornando alla Slovenia attuale, posto che è una squadra piccola con ottimi tiratori, non vedo come potrebbe giocare se non esaltando queste qualità. Nel senso che, se vuole vincere, deve segnare più punti dell’avversario, perché in difesa più di tanto, soprattutto a rimbalzo, non può fare, dunque è un tantino alla mercé degli avversari, e per segnare tanti punti deve segnare tanti tiri. Per segnare tanti tiri bisogna che siano tiri il più aperti possibile. Finora vado bene come logica, o con qualche sofismo tenterete di confutare anche queste cose lampanti? Per fare in modo che i miei tiratori abbiano il maggior numero di tiri aperti possibili devo avere obbligatoriamente qualcuno che queste palle le distribuisca. E oggi al mondo non c’è nessuno che lo sappia fare meglio di Luka Magic. E allora, ringraziando con una serie di novene il buon Dio che me lo ha dato, metto la squadra nelle sue mani e dico: “Fai tu”. E lui lo fa. Come detto, vorrà pur dire qualcosa che, quando lui ha giocato, la Slovenia finora non ha mai perso una sola partita. In questa squadra non c’è una personalità disturbata e invidiosa come Porzingis, ma tutti, proprio tutti, sanno che Luka è una manna dal cielo, per cui che sia lui il big boss nessuno lo mette in dubbio, anzi sono strafelici di averne uno delle sue capacità. Tutti noi che abbiamo giocato a basket sappiamo come non ci sia soddisfazione maggiore di quella di ricevere (sempre!) il pallone quando siamo soli per poter tirare indisturbati e di come di converso sia frustrante correre e smarcarsi di continuo per poi vedere la nostra presunta stella che fa tutto lui da solo magari incartandosi in qualche entrata senza senso. Dončić contro la Lituania ha tirato 5 tiri da tre in tutta la partita, due in meno di Prepelič. A me non sembra proprio la prestazione di uno che fa tutto lui. Quando non andava ha fatto il leader e si è messo in proprio incassando tutta una serie di canestri-e-fallo che hanno tenuto la Slovenia a galla fino a che finalmente, con Prepelič senza tiro, non ha trovato in Čančar (capodistriano, lui ha giocato a Portorose che era allora il farm team del Koper – fra l’altro assieme a Gregor Hrovat ci saranno ben due capodistriani alle Olimpiadi a giocare a basket) il go-to-guy che ha spaccato la partita in due. E, badate, quando Luka ha trovato l’uomo giusto che segnava, ha smesso di fare le cose in proprio e si è dedicato solamente al compito di mettere il compagno nelle condizioni migliori per farlo lui. In questo contesto criticare Luka e il suo gioco nel giorno in cui ha dipinto la sua Gioconda mi sembra grottesco e francamente incomprensibile. Vincere, segnare quando serve, fare il leader in tutti i sensi, e rendere tutti i compagni strafelici è il compito primario di ogni fenomeno che si rispetti. A questo punto l’unica colpa di Luka sarebbe forse quella di essere troppo fenomeno. Che volete, lui non ci può fare nulla. Fra l’altro nel suo caso succede una cosa assolutamente inedita per la Slovenia, nazione di gente particolarmente invidiosa dei successi altrui, paese nel quale il desiderio maggiore è quello che, come dicono loro stessi: “naj sosedu krava crkne” (che al vicino crepi la vacca), paese che guarda con sospetto a ogni storia di successo. Nel caso di Dončić tutti si inchinano alla sua superiorità e in tutta la Slovenia, incredibilmente, nessuno, ma proprio nessuno, ha fatto l’acido discorso di Llandre, ma anzi anche i più critici hanno dato per scontato che era lui a dover vincere la partita, cosa che ha fatto. Un altro incredibile passo avanti verso la trasformazione degli sloveni in popolo normale assieme alla sempre maggiore autostima dei giovani. Tanto per dire: lunedì in prima serata sul primo canale televisivo hanno presentato la spedizione olimpica e il conduttore, intervistando la fenomenale arrampicatrice Janja Garnbret (a proposito, altra del ’99, nata fra l’altro due settimane dopo Luka), le ha chiesto: “Lei dunque a Tokio sarebbe contenta solo vincendo l’oro?” Risposta lapidaria: “Sì!”.