Non posso parlare di basket, visto che non sono abbonato a Eurosport player, per cui intervengo per esortarvi a ragguagliarmi su come stanno andando i playoff dell’Eurolega. Spero che Buck continui nelle sue esaustive cronache e nei suoi commenti e che anche gli altri si diano da fare per spiegarmi cosa succede nelle altre serie. Potete tranquillamente, se non vi interessa, saltare il resto di questo pezzo e continuare in calce a parlare solo di basket. Non me ne avrò certamente a male, visto che quanto sto per scrivere non c’entra per niente con ciò di cui normalmente discutiamo.

Ma comunque, a mo’ di diversivo, o di intermezzo, se preferite, e giusto per non limitarmi all’esortazione di cui sopra, vorrei riportarvi due notizie che ho letto sul Primorski Dnevnik che, come ormai già sapete, è il quotidiano della minoranza slovena in Italia.

Faccio insomma per una volta tanto lo Stefano del caso e faccio come fa lui quando riporta quanto scrive il Manifesto (a proposito, auguri di cuore per il giubileo! – giornale che, sempre per stare in tema, rimane nel cuore di molti sloveni di Trieste, e infatti il Primorski vi dedica oggi un editoriale nel quale il massimo commentatore politico del giornale fa i più sinceri auguri pur ricordando che lui personalmente aveva smesso di leggerlo quando aveva preso i classici fischi per fiaschi tipici di tutta la sinistra europea, che spesso e volentieri pontifica ideologicamente su cose delle quali è semplicemente ignorante, nel periodo della lotta slovena per l’indipendenza quando aveva preso in modo sciagurato le parti della Serbia e di Milošević).

La prima notizia riguarda il 27 aprile, giorno sacro in Slovenia, in quanto in quel giorno nel 1941, tre settimane dopo che la Strafexpedition di Hitler aveva distrutto la resistenza dell’esercito jugoslavo e gli italiani, a traino dei tedeschi, avevano occupato la Slovenia del Sud fino alla Sava, fu formato nella villa Vidmar a Lubiana il primo embrione del futuro esercito partigiano della resistenza slovena all’occupante italo-tedesco, ed è ufficialmente riconosciuto come il giorno dell’inizio della resistenza armata durante la seconda guerra mondiale. La suddetta villa, situata nella zona residenziale di Rožna Dolina (se arrivate a Lubiana da Trieste è la zona a sinistra di Via Trieste - Tržaška Cesta – sotto il monte Rožnik, polmone verde della capitale slovena), fu comprata dal governo della Germania Ovest nel 1986 in segno di riparazione ai torti commessi per ristrutturarla e conservarla. Ieri vi si è tenuta una cerimonia in presenza del Presidente sloveno Pahor nel quale l’Ambasciatrice di Germania in Slovenia Natalie Kauther ha fatto questo discorso: “Nella nostra ambasciata proviamo un grosso senso di responsabilità nei confronti di questo edificio per conservarlo con cura ricordando quanto avveniva qui dentro ottanta anni fa. Non ho alcun diritto, quale ospite del vostro Paese, di darvi consigli. Soprattutto non come tedesca. Posso però dire di essere riconoscente per il fatto che, dopo tutte le sofferenze che abbiamo inferto e le atrocità che abbiamo commesso nei confronti di tantissimi popoli, siamo stati poi lo stesso riammessi nel consesso dei popoli civili. Per noi il fatto di poter oggi condividere con popoli, che sono stati per noi feroci nemici, una profonda amicizia e di poter collaborare con loro per rendere questo nostro mondo migliore è un grandissimo dono.”

Se avete ben presente in mente quanto detto solo due anni fa da Tajani e Salvini a Basovizza in occasione del giorno della Memoria potete facilmente capire, facendo un semplice paragone, perché in Slovenia i tedeschi siano tanto, ma tanto più popolari degli italiani. Nel caso vi chiedeste perché da italiani, quando andate in Slovenia, vi guardino storto.

L’altra notizia, letta oggi, mi ha fatto molto piacere. Anche perché scoprire che ci sono ancora giovani bravi, intraprendenti e capaci fa sempre bene al cuore. La giovane Catherine Vegliach, erede di una famiglia triestina da tempo immemore impegnata nel campo del commercio del caffè, ha avuto la secondo me geniale pensata di depositare il marchio commerciale del mitico “capo in B” triestino, intanto per impedire che qualche furbo imprenditore magari veneto (vedi quello che hanno fatto a noi carsolini con il marchio del prosecco) rubasse l’idea, ma soprattutto per tentare di esportarlo nel mondo e rendere così tutti partecipi di questa peculiarità triestina. Trieste è, e viste le esternazioni pubbliche recenti delle tifoserie bolognesi, lo è sempre più, Basket City, ma è soprattutto, indiscutibilmente, la “Coffee City” del mondo. Ha dietro una tradizione che risale alla fine del 17.esimo secolo, quando dopo il ritiro delle truppe turche che assediavano Vienna gli austriaci scoprirono il caffè e Trieste, come porto dell’Impero, fu la prima città che cominciò a importare e poi a distribuire la preziosa bacca orientale, prima nell’Impero stesso, poi anche nel resto d’Europa, sviluppando così un’esperienza che ancora ai giorni di oggi è ineguagliata e ineguagliabile. I triestini si affezionarono alla bevanda sviluppandone moltissimi modi diversi di degustazione e soprattutto cominciarono a berla in massa. Secondo studi statistici citati dalla Vegliach il consumo pro capite di caffè è a Trieste di circa 10kg per abitante all’anno, mentre altrove in Italia è di circa 4kg e mezzo. A Trieste c’è una mescita di caffè ogni 265 abitanti, altro record. In tutto questo il “capo in B” (letteralmente “capucin in bicier”- bicchiere) recita un ruolo di primissimo piano. Intanto una precisazione, per chi ancora non lo sapesse: nella provincia di Trieste il “capo”, cioè cappuccino, è tutt’altra cosa rispetto al resto dell’Italia. Per una serie di ragioni storiche da noi il “capo” è semplicemente quello che nel resto dell’Italia viene chiamato macchiato caldo, mentre il cappuccino italiano è da noi declassato a semplice caffelatte, tipo bevanda da lattanti. E in effetti i triestini cominciano a bere il caffelatte praticamente appena svezzati. Per la cronaca per noi triestini l’ultimo avamposto (o, se volete, il primo segno di essere tornati finalmente a casa) del “nostro” cappuccino è l’area di servizio di Sistiana. Oltre ci sono i “leones italici” e bere il caffè oltre le nostre mura è per noi sempre un po’ una sofferenza. Figurarsi poi fuori dall’Italia – io personalmente quando esco dall’Italia (o per meglio dire dalle nostre zone: in Istria e sul Carso lo fanno decente, perché se non lo facessero i triestini smetterebbero di andare da loro il fine settimana ad abbuffarsi di selvaggina e pesce) semplicemente smetto di bere caffè. In tutto questo il “capo in B” è un caposaldo incrollabile. Subito dopo la seconda guerra mondiale nei vari uffici si sviluppò l’abitudine di ordinare il caffè nei bar e nelle torrefazioni (che sono, o per meglio dire erano, bar speciali che vendono solo e esclusivamente caffè torrefatto in casa) che veniva recapitato nei comuni bicchieri da bar per non correre il rischio di rompere le preziose tazzine durante il trasporto. In un bicchiere ci sta più caffè che in una tazza, e già questo fu accolto con particolare favore, e poi la particolare miscela del “capo in B”, e cioè un terzo di caffè, un terzo di latte e un terzo di schiuma di latte, fa sì che il gusto sia particolarmente equilibrato. Tanto per dire nel 1955 ci fu un vero e proprio boom di produzione e vendita di bicchieri da caffè, il che testimonia del fatto che la novità fu subito accolta con grandissimo favore. Ed è questa la ragione per la quale in un’inchiesta fatta dalla stessa Vegliach il 62 percento dei triestini beve piuttosto il “capo in B” che non l’espresso classico in tazzina. Sempre dalla stessa inchiesta risulta che quasi il 18% dei triestini (io uno di quelli) beve quattro caffè al giorno, il 33% ne beve tre, e quasi il 30% due. E, inutile rimarcarlo, la grande maggioranza reputa il caffè un magnifico strumento di godimento e di socializzazione e solo una sparuta minoranza lo reputa per quello che è un po’ visto altrove, come cioè un modo per combattere la fatica, in sostanza una droga.

Io spero tanto che la brava giovane concittadina riesca nel suo intento e che finalmente il mondo si accorga di quello che noi sappiamo da sempre, e che cioè per bere il caffè come Dio comanda, devi venire per forza a Trieste. E sarebbe anche ora che altra gente, la mente corre ovviamente verso i tronfi e boriosi napoletani, smettesse di comportarsi come se il caffè lo avessero inventato loro venendo magari qui da noi a spiegarci come farlo. Sarebbe come se noi andassimo da loro a spiegare come si fa una pizza.