Sono molto contento che il mio post precedente abbia scatenato un simile interesse, non tanto per quanto ho scritto che sapevo benissimo che vi avrebbe interessato ben poco, visti i miei per voi esoterici gusti musicali, ma perché ha dato la stura affinché vi sbizzarriste a scambiarvi consigli, video, tutte cose che fanno sì che la gente si senta legata, che condivida le sue esperienze, in definitiva che sia viva nel significato più profondo di queste parole. Scusate la mia presunzione, ma ne vado fiero.

Continuate pure a farlo, però devo avvertirvi che questa vostra attività ha scatenato anche la mia voglia di raccontare storie musicali, tutta una serie di aneddoti e di storie che mi sono venute in mente e che vorrei condividere con voi, sempre però tenendo in mente che nel merito della musica che racconto il vostro interesse è molto limitato, e dunque, se leggerete, spero di instillare l’interesse verso il fatto storico in sé indipendentemente dalla musica in questione. Se non leggerete non ve ne avrò certamente a male. Prendetelo per un esercizio privato, per uno sfizio di un vecchietto in pensione, dunque fate quel che volete, ma io scrivo lo stesso. Se poi qualcuno vorrà leggere mi farà solo piacere. Uno sarà comunque meglio di nessuno.

Il primo capitolo si collega alla fine del post precedente, completandolo. Prendendo a parallelo le mie opinioni riferentisi al basket sul fatto che i grandi, i veri campioni sono coloro che hanno più dimensioni, che vedono e capiscono cose che altri non vedono, così nella musica mi hanno sempre affascinato le commistioni di generi e coloro che sono capaci di spaziare in campi apparentemente diversissimi fra loro. Solo un genio riesce a capire le cose buone che possono nascere fuori dal suo seminato e farle proprie, re-interpretandole e creando una nuova cosa che non è più l’originale (e dunque per come la vedo io non è, ne mai potrà esserlo proprio per definizione, la versione definitiva), ma come dice giustamente Stefano, col quale sono perfettamente d’accordo, è qualcosa di altro che va presa per se stessa senza riferirsi alla fonte.

Per tornare alla commistione di generi gli amici mi sono testimoni, perché l’ho detto loro più volte, che, se mai andrò negli Stati Uniti, sarà per andare esclusivamente in pellegrinaggio musicale. Dopo il  commosso raccoglimento che suppongo mi travolgerebbe di emozioni al numero 706 di Union Avenue a Memphis, l’idea sarebbe di percorrere lentamente la valle del Mississippi, passando per Tupelo (Elvis) e Ferryday (Jerry Lee), fino alla foce ascoltando per strada la musica locale per poi tuffarmi a New Orleans ad ascoltare la musica creola di quei luoghi. Io, da buon centro europeo, ho un debole per i valzer, o comunque per la musica in tre quarti, e quale luogo migliore di New Orleans per ascoltare la commistione fra i valzeroni e le quadriglie francesi degli immigrati originari francesi e le musiche di origine africana che si sono succedute, sovrapponendosi e poi stratificandosi in un unicum che si può ascoltare solo lì. Il tutto mischiato alle musiche dei bianchi anglosassoni, insomma un tuffo da sballo fra cajun, zydeco e tutto quello che volete d’altro, tipo le bande che sfilano per il Mardi Gras eseguendo pezzi di jazz primordiale, quello genuino e spontaneo, comunque tutto da gustare e da leccarsi i baffi.

In fatto di genio invece chi meglio proprio del “Genius” per definizione. Solo un genio come Ray Charles avrebbe infatti avuto il coraggio di avventurarsi nel campo per definizione della musica bianca, quella country, per trarne ispirazione e costruire qualcosa di nuovo e irripetibile. Solo lui ha avuto l’ardire di prendere due oscuri pezzi country quali “Crying Time” di Buck Owens o addirittura il lato B, “I Can’t Stop Loving You”, di un 45 giri di un autore country noto solo agli appassionati (tipo il sottoscritto) quale Don Gibson e trasformarli in successi planetari grazie alla sua capacità di trasfigurare fino a livelli impensabili qualsiasi cosa gli capitasse fra le mani. E la cosa affascinante è che non l’ha fatto per snobismo, cosa ampiamente dimostrata dal fatto che non ha mai avuto problemi nell’interagire con i musicisti di quel genere. C’è un pezzo divertente e incredibilmente autoironico che esegue in duetto con uno dei giganti della musica country, George Jones, e che si intitola “We Didn’t See a Thing”, e c’è poi da ascoltare uno straordinario duetto assieme a Willie Nelson di un pezzo struggente di nome “Seven Spanish Angels”. 

E passo adesso alle quattro storie che volevo raccontarvi e che si riferiscono alle ineffabili emozioni che solo la musica può offrire sia a chi la esegue che a chi la ascolta. La prima risale agli inizi degli anni ’50 del secolo scorso. La Carter Family, il gruppo che ha lanciato il country verso la notorietà nazionale grazie ai suoi dischi che poi sono diventati classici della musica popolare americana, o dell’Americana tout court come ha giustamente rimarcato Stefano, era un trio formato da A.P. Carter (A.P. sta per Alvin Pleasant, e dunque è giustamente conosciuto solo per le iniziali), da sua moglie Sarah e dalla cugina di Sarah nonché cognata di A.P. Maybelle, signora dall’apparenza innocua, ma che ha dato vita ad un modo di suonare la chitarra copiata da generazioni di musicisti. All’epoca (le prime registrazioni sono del 1927) non esistevano sofisticate tecniche di registrazione e, o indovinavi tutto alla prima esecuzione, o arrivederci alla prossima volta. Gli strumenti di accompagnamento erano ridotti all’osso e nel trio c’era A.P. che componeva e cantava, Sarah che suonava lo harpsychord, tipo di cetra da accompagnamento, e tutto il resto era devoluto a Maybelle, la quale ha sviluppato per la bisogna un tipo di esecuzione nella quale con due dita suonava la melodia e con le altre tre l’accompagnamento. E infatti l’assolo che fa durante l’esecuzione di uno dei pezzi più famosi, “Wildwood Flower”, è ancora oggigiorno ammirato e citato ad esempio. La signora Maybelle ha poi avuto tre figlie che hanno continuato in modo ammirevole la tradizione di famiglia, Helen, la grande, una delle poche capaci di suonare la chitarra come la madre, June, la media, grande showgirl e poi famosissima quale moglie di Johnny Cash, e la piccola, Anita, cantante straordinaria che non ha avuto la carriera che si meritava perché afflitta dall’artrite reumatoide che le ha minato la salute e fatto sì che non potesse dopo una certa età esibirsi con regolarità. Anita è stata comunque una specie di bambina prodigio, sia per il nome che portava, ma soprattutto perché era veramente bravissima. C’è su You Tube un filmato che ogni volta che lo vedo mi viene la pelle d’oca mettendomi nei panni di Anita e immaginando cosa può aver provato in quel momento. In uno show televisivo lei (neanche 20-enne) canta “I Can’t Help (If I’m Still in Love With You)”, hit dell’epoca e poi diventato uno standard assoluto della musica popolare americana, e a un dato momento ad accompagnarla e a cantare le armonie arriva nientemeno che l’autore stesso del pezzo, il leggendario Hank Williams. Per Anita è come se a Judy Dench, mentre recita Lady Macbeth, arrivasse a dirigerla Shakespeare in persona, e lo sguardo che rivolge a Hank è qualcosa di magico che trasfigura l’amore terreno per entrare di diritto ad essere qualcosa simile all’estasi provocata da una visione divina.

La seconda storia non è in realtà una storia, ma il resoconto di quattro minuti di esibizione dal vivo che da soli producono più emozioni di un migliaio di concerti messi assieme. Siamo nella seconda metà degli anni ’60 e, come sapete tutti quelli che avete visto il biopic interpretato da Joaquin Phoenix e Reese Witherspoon, Johnny Cash, redento dai suoi demoni interiori e dalla dipendenza dalle pillole che trangugiava in enormi quantità (come ebbe a dire poi parlando a nome suo e dell’amico Waylon Jennings: “all’epoca eravamo abbastanza sul chimico”) dall’intensissimo amore reciproco con June Carter, si avventura in un concerto dal vivo nientemeno che nel famigerato penitenziario di San Quentin. Con il peculiare uditorio si instaura subito un’aura quasi di complicità e tutto va a gonfie vele. A un dato momento Johnny diventa serio e dice: “Ragazzi, ieri sera ho pensato molto a voi e mi sono chiesto cosa proverei se fossi al vostro posto. Alla fine ho scritto una canzone che ora voglio cantarvi”. Tutti pensano ovviamente che stia per partire la solita solfa stucchevole sull’espiazione e sulla successiva redenzione e invece l’esordio è una specie di pugno nello stomaco: “San Quentin, you’ve been living hell to me, you busted me since nineteen-sixtythree, I’ve seen them come and go and I’ve seen them die, and long ago I stopped asking why.” Sulle prime tutti rimangono quasi basiti e sul loro volto si dipinge una specie di sorpresa incredulità. Che però si tramuta subito in un urlo liberatorio quando parte la seconda strofa: “San Quentin, I hate every inch of you…” e diventa un ululato quasi di estasi quando, dopo l’assolo del mitico Luther Perkins, il più imitato degli scarsi (avete presente Alvin Lee o Jim McLaughlin? Ebbene, l’esatto contrario) chitarristi della storia, parte l’ultima strofa con un recitativo quasi urlato: “San Quentin, may you rot and burn in hell, may your walls fall and may I live to tell, may all the world forget you ever stood and may all the world regret you did no good – San Quentin, I hate every inch of you” e a queste parole tutti scattano in piedi con la faccia distesa in una beata soddisfazione, liberazione quasi perché qualcuno ha avuto finalmente il fegato di dire a voce alta quello che tutti loro pensano e sentono, ma nessuno può dirlo, per un’ ovazione talmente lunga che Johnny è costretto subito dopo per placarli a fare il bis .

Terza storia. Verso la fine degli anni ’60 arrivò dall’America un nuovo complesso che esordì con il botto e che produceva la musica che più amavo, il country-rock di impronta sudista (quello per intenderci portato alle estreme conseguenze da gruppi tipo Alabama, Lynyrd Skynyrd, per non parlare dei famigerati, ma straordinari ZZ Top) con un pezzo, “Proud Mary”, con il riff iniziale inconfondibile e diventato poi uno dei riff più noti e riconoscibili della storia assieme a quello di “Satisfaction” e di “Smoke On the Water”, subito bissato da un altro pezzo che mi piacque ancora di più (e che se vi interessa è uno dei pezzi in assoluto immancabili nelle mie esibizioni dal vivo fra cerchia amiche) che si chiamava “Bad Moon Rising”. Inutile dire che da quel momento divenne per me obbligatorio comprare subito qualsiasi cosa questo gruppo dal nome curioso, Creedence Clearwater Revival, pubblicasse per godermela con ripetuti ascolti fino allo sfinimento. Ovviamente cominciai a voler sapere tutto di loro. Scoprii che l’anima del complesso era l’ultimo arrivato, reclutato un po’ per sbaglio in quanto fratello minore di nome John di uno dei fondatori, Tom Fogerty, che cantava, suonava la chitarra in modo superbo, ma soprattutto componeva praticamente tutto quello che suonavano. Seppi poi che era un bravo ragazzo, umile e modesto, che aveva bandito dal gruppo qualsiasi “sostegno esterno” in fatto di ispirazione o prestazione sul palco dopo aver assistito da gruppo di contorno ad un’esibizione penosa dei Grateful Dead, complesso che ammirava tantissimo, arrivati sul palco fatti e sfatti. Il problema del gruppo e delle dinamiche al suo interno si palesò subito a causa del fatto, ripetutosi poi anni più tardi tale e quale con i Dire Straits e Mark Knopfler, che John era troppo più bravo e carismatico rispetto agli altri, gli altri si sentivano sminuiti e tutto quanto andò a ramengo quando ad abbandonare il gruppo fu per primo nientemeno che il fratello Tom. Per John i problemi cominciarono ad essere enormi. Era successo che i CCR avessero firmato con il titolare della Fantasy Records, un ceffo di nome Zaentz, un contratto capestro (del tipo di quelli una volta descritto dal famigerato manager di Elvis Tom Parker: “Hai presente le clausole che di solito non vedi e sono quelle che ti fregano? Questo contratto è una loro accurata selezione”), per cui successe che a cantare le canzoni dei CCR potesse essere solamente un gruppo dal nome CCR e nessun altro, se non pagando grosse royalties allo stesso Zaentz, e dunque John Fogerty si trovò semplicemente a non poter cantare più le sue stesse canzoni se non al prezzo di finanziare in modo cospicuo il patrimonio personale del suddetto Zaentz. Si ritirò praticamente a vita privata pubblicando solo sotto falso nome un disco di cover country fino al 1985 quando fece uscire un suo disco da solista che non fu il più venduto disco dell’anno in America solo perché nello stesso anno uscì anche “Born In the USA” del Boss e del quale il pezzo che gli dà il titolo, “Centerfield” (Put me in coach, I’m ready to play today), è diventato con il tempo parte integrante dell'Americana quale inno ufficioso, ma comunque riconosciuto da tutti, della MLB di baseball. La nuova popolarità gli aprì nuovamente la via per i palchi di tutta America, ma di cantare le sue canzoni dei tempi dei CCR non se ne parlava neppure. Era una questione di prestigio, ma soprattutto di orgoglio. Fino a che nell’ ’87 fu chiamato a fare da ospite in un concerto in onore dei veterani della guerra del Vietnam. Bob Dylan lo implorò di fare uno strappo alla regola e di cantare almeno uno dei suoi pezzi più “politici”, “Fortunate Son”, che era diventato popolarissimo presso i soldati proprio per i suoi toni anti classisti quando affermava neanche tanto velatamente che a finire a fare la guerra erano solamente i poveracci che non avevano santi in paradiso. Alla fine John si convinse. Salì sul palco e per iniziare fece partire il riff introduttivo di uno dei suoi pezzi dei CCR, “Born On the Bayou”, con la platea che quasi non riusciva a credere alle sue orecchie. Fu poi tutto un crescendo con i soldati in platea che cominciarono a saltare, cantare e danzare di gioia risentendo dopo anni classici della loro musica eseguiti dall’autore e si finì in gloria quando tutto il cast e tutto il pubblico cantò assieme a lui “Proud Mary”. Per riagganciarmi all’ultima storia che vi racconterò fra poco la successiva storia di John Fogerty è una storia bella di un grande cantante e musicista che si rende perfettamente conto dei tempi nei quali vive, che pubblica qualche disco quando ha qualcosa da dire, ma non insegue mode, compone quella che alle orecchie dei contemporanei è musica demodé solo per il gusto di farlo e di rendere felici me e tanti altri nostalgici, e vive tranquillamente da pensionato circondato da una bella famiglia. Recentemente ha pubblicato un video toccante nel quale suona e canta “Centerfield” accompagnato dai figli al centro di un Dodgers Stadium vuoto dicendo all’inizio di sperare che possa riempirsi nuovamente presto una volta passata l’epidemia. Alla fine gli altri figli e la moglie gli portano la torta di compleanno per i suoi 75 anni. Ecco, si può essere anche grandissime star del rock e del country ed essere anche contemporaneamente persone normali. A me queste cose commuovono sempre.

Un altro secondo me fulgido esempio di quanto appena scritto è una delle grandi dame della musica country, ma anche rock e folk, americana e cioè Emmylou Harris, quella che una volta Willie Nelson definì così: “Al mondo ci son due categorie di uomini, quelli che amano Emmylou e quelli che non la conoscono.” Intanto la ragazza di buona famiglia nata in Alabama nel 1947 è una donna straordinariamente bella, proprio bella, spirituale quasi, il che non guasta mai. La sua carriera, ora che c’è YouTube si può condensare per clip. Si comincia con una sua esibizione da giovanissima, ancora un tantino paffutella, ma dal sorriso radioso e dalla voce angelica, ad un concerto di giovani speranze nel quale esegue da sola alla chitarra “I’ll Be Your Baby Tonight” di Bob Dylan palesando una grande sicurezza e tenuta di scena. La notano e entra nel giro delle cantanti folk legandosi in modo decisivo per la sua carriera al geniale Gram Parsons col quale forma una coppia sia nella professione che nella vita, cosa che si tronca in modo drammatico quando Gram muore per overdose, come era di moda all’epoca fra gli interpreti maledetti. Emmylou ne esce ovviamente devastata, ma prosegue nella sua carriera imponendosi sempre di più. Il clip successivo la vede a Londra nel 1977, non più paffutella, ma un vero e proprio schianto di ragazza, in un concerto per la TV che per me è uno di quelli che voglio assolutamente portarmi nell’aldilà per ascoltarlo a oltranza, supportata com’è da una band incredibile con a farle da spalla l’amico (diciamo così) Rodney Crowell, coautore assieme a lei di una delle sue canzoni più famose, “Tulsa Queen”, con al piano Glen D. Hardin, il pianista di Elvis, alla chitarra solista un bravissimo inglese, Albert Lee, e alla pedal steel Hank De Vito. Concerto nel quale esegue fra l’altro una sua toccante composizione “Boulder to Birmingham” nella quale dopo tanti anni elabora il lutto causatole dalla morte di Gram Parsons, e anche quella che io reputo la versione definitiva, nel senso inteso da Llandre, di “C’Est la Vie” di Chuck Berry. Oltre alla sua carriera da solista ci sono picchi assoluti in collaborazione con altri artisti: memorabile una sua clip con la Band nel finale del famoso film “The Last Waltz” di Scorsese, inconfondibile il suo supporto in fatto di armonie in “Desire” di Bob Dylan (inciso: in quel disco Bob canta “Hurricane”, nel ’62 c’era stata “Oxford Town”, due anni dopo “Only a Pawn in Their Game”, per cui uno si chiede, viste le cose che succedono oggidì, quanto poco sia in effetti cambiata l’America nel frattempo), il disco di canzoni popolari e delle “mountains” come dicono loro fatto assieme a Dolly Parton e Linda Ronstadt di nome “Trio” fa incetta di tutti i Grammy possibili. E infatti la terza clip la vede a Los Angeles nel 2005 in un favoloso concerto che ho già menzionato assieme a Mark Knopfler. Facendo un po’ di conti all’epoca andava per i 60 e la cosa che affascina è che non ha avuto problemi nell’invecchiare serenamente, senza ricorrere a trucchi e sotterfugi plastici, ma anzi esibendo senza problemi la chioma ormai tutta bianca. Se uno pensa a come appaiono nell’inverno della loro vita Claudia Cardinale o anche Brigitte Bardot, anche loro senza trucchi e sotterfugi, gli viene da concludere che solo le donne veramente belle e che sanno di esserlo sono capaci di accettare serenamente l’avanzare degli anni, tanto quanto avevano da dare e avere l’hanno dato e avuto. Segno questo secondo me di straordinario equilibrio e intelligenza. L’ultima clip è quella secondo me più emozionante e malinconicamente magnifica: siamo a Stoccolma nel 2015 e Emmylou è lì per ricevere un prestigioso premio alla carriera, seduta accanto al re Carlo Gustavo. Sul palco ci sono due ragazze svedesi (che il sottoscritto adotterebbe subito, perché in quest’epoca di decadenza hanno avuto il coraggio di dedicarsi anima e corpo alla musica folk), due sorelle, Klara e Johanna Soederberg, che formano un duo folk di nome First Aid Kit. Se non le avete mai sentite e non vi fa schifo la musica folk, ascoltatele perché sono più che brave, sono eccezionali. Le due sorelline si rivolgono a Emmylou e le dicono che lei è stata per loro l’esempio più fulgido che hanno seguito agli inizi della carriera e le dedicano una canzone da loro stesse composta, “Emmylou” appunto. Finisce che alla fine la destinataria della canzone è devastata dall’emozione e deve togliersi gli occhiali per asciugarsi le lacrime mentre il Re di Svezia la guarda intenerito.

Di questa donna non si sa quasi nulla della vita privata, ha due figlie, ma questo è tutto quello che si sa, in quanto è stata sempre gelosissima della sua privacy e mai ha dato scandalo. Certo, è difficile credere che ai tempi nei quali è stata con Gram Parsons sia andata avanti a pane e acqua, ma tutto questo non le ha certamente impedito di vivere una vita decente e di finire la sua carriera riverita e rispettata da tutti.

Quello che volevo dire con queste ultime due storie, che secondo me sono veri e propri apologhi, è che si può essere grandissimi anche in un campo difficile quanto la musica popolare e rimanere persone vere che rimangono tali per tutta la vita e che alla fine riscuotono rispetto e ammirazione e dunque possono vivere tranquillamente l’autunno della loro vita. Sono persone sane dentro che infatti hanno prodotto la musica sana, quella che piace a me: con gioie, dolori, drammi, tragedie e trionfi, ma senza derive psicopatiche. Sono fermamente convinto che non occorre morire giovani per entrare nella storia della musica. Non occorre essere maledetti per essere maledettamente bravi.