Si parlava di forza mentale. Appunto. Una volta finito l’effetto Stožice la nazionale slovena di pallavolo ha avuto a Parigi la forza di giocare sopra i propri limiti solamente per un set (che, pochi ricorderanno, la Slovenia ha dominato) prima di finire la benzina e far ritornare le cose al loro posto con la vittoria della squadra oggettivamente più forte. Ma non era di questo che volevo parlare (e fra l’altro, vista come è finita la favola, anche non mi va molto di parlarne).

 

Quello che volevo rimarcare era che evidentemente nello sport uniti si perde e divisi si vince. Ormai le prove sono schiaccianti. A parte il calcio ci sono tre sport di squadra in Europa che sono dominanti, e sono il basket, il volley e la pallamano. In Europa ci sono grandissime nazioni con straordinaria storia sportiva alle spalle nelle quali gli sport sunnominati sono molto diffusi. Tutti e tre sono molto sviluppati e praticati in Germania, Francia, Spagna e Russia con l’Italia che difetta solamente nella pallamano, ma per il resto c’è, e come. Ebbene, guardiamo un po’ i risultati degli Europei di questi sport. Nel basket e nel volley negli ultimi due Europei la Jugoslavia, senza croati e bosniaci, per non parlare di macedoni e montenegrini, ha conquistato l’oro e l’argento. I croati vengono a soccorso nella pallamano, dove attualmente i serbi sono un tantino in crisi, e per vincere le medaglie tutti devono fare i conti con qualche parte della Jugoslavia. Della pallanuoto non parlo neppure, perché, a parte l’Italia, il resto del panorama mondiale è un torneo jugoslavo fra repubbliche. Ci sono inoltre, per non farsi mancare niente, i tennisti serbi e croati che, oltre ad avere il numero uno al mondo, hanno vinto la Davis sia come Serbia che come Croazia, ci sono i ciclisti sloveni che fanno primo e terzo nella Vuelta eccetera. Giusto per aggiungere la ciliegina sulla torta chi ha conteso alla Francia il titolo mondiale nella sua Maestà il calcio? Scusatemi un po’ di orgoglio nostalgico, ma riuscite solo ad immaginare che la Jugoslavia, se fosse stata ancora unita, ma per qualche strana alchimia politica avesse potuto far gareggiare agli Europei le rappresentative delle sue varie repubbliche, avrebbe in questo decennio ottenuto gli stessi risultati, quando in passato, appunto unita, non poteva neanche sognare di poterli raggiungere pur essendo al completo?

Dall’altra parte dello spettro abbiamo la Germania che era divisa in due e si è riunita circa trent’anni fa. All’epoca esisteva la DDR che dominava il medagliere alle Olimpiadi negli sport individuali con la Germania Ovest che era a sua volta fortissima negli sport di squadra con eccellenze anche negli sport individuali (il primo nome che mi viene in testa è Michael Gross). Tutti a predire alla Germania riunita il monopolio Mondiale nello sport, della serie vedrete adesso cosa faranno le sinergie fra i soldi e la conoscenza, e invece un trentennio dopo abbiamo la Germania che è praticamente sparita negli sport di base tipo atletica e nuoto, ma anche in altri importantissimi sport olimpici tipo ginnastica e canottaggio, e resiste solamente negli sport di squadra, dove è rimasta più o meno dove era prima. Inciso: nella pallamano, più o meno l’unico sport di squadra a parte il calcio concesso dalle autorità ai tedeschi orientali, era fortissima anche la DDR, ma dopo la riunificazione la Germania è rimasta esattamente dove era prima, se non un piccolo gradino ancora peggio. Si dirà: sì, ma erano dopati come scimmie! Va bene, facciamo la giusta tara basandoci su quanto ha fatto, prima e dopo il doping, la più drogata atleta di tutti i tempi, parlo ovviamente di Flo-Flo Griffith – Joyner. Marita Koch quanto ha di primato mondiale sui 400? Qualcosa come 47 e 60. Togliamole due secondi e sarebbe sempre 49 e 6. Trovatemi un’atleta tedesca che ora scenda costantemente sotto i 51 secondi. Non c’è. Oppure vogliamo parlare di quel talento sublime che era Heike Drechsler? O la Witschas-Ackermann che con il ventrale battagliava epicamente con Sara Simeoni? O ancora credete veramente che un Matthes, una Ender (alla quale, sono convinto, il doping ha solo nuociuto) o una Van Almsick non sarebbero adesso superstelle?   

Questi sono fatti che nessuno mi può confutare. E dunque a questo punto non resta che da chiedersi quali siano le ragioni di questo fenomeno. Il mio punto è che questi fatti sono la dimostrazione lampante che nello sport la decentralizzazione e lo sviluppo indipendente di quanti più possibili centri di eccellenza siano la base fondamentale per lo sviluppo di un’attività sportiva. Cioè esattamente il contrario di quanto si pensa oggidì, quando tutti tentano, secondo me in modo controproducente, di concentrare il più possibile l’attività in un centro, chiamiamolo così, federale. L’esempio più illuminante che mi viene in mente è legato allo sci, sempre parlando di ex Jugoslavia. La quale ha avuto i suoi più grandi sciatori che sono emersi da contesti altamente individualizzati. In Croazia addirittura è stata una singola famiglia, quella dei Kostelić, che ha prodotto, e sviluppato fino ai massimi vertici, due talenti incredibili quali Janica e Ivica. In Slovenia è dovuto intervenire un italiano di Gorizia per far sì che Tina Maze si staccasse dalle pastoie federali e mettesse in piedi un team personale per accedere ai livelli ai quali è ascesa.

Per andare agli sport di squadra l’esempio che voglio portare è quello del basket sloveno, ancora, malgrado tutto, campione d’Europa, anche perché è quello che conosco meglio con maggior cognizione di causa. Una volta, ai tempi della Jugoslavia, uno sloveno molto forte passava sempre, inevitabilmente, attraverso l’Olimpija che concentrava tutti i talenti sloveni. Con il risultato che molti di loro si trovavano chiusi da gente fortissima, più anziana e esperta, che toglieva loro molti spazi vitali. Per cui anche il più grande di tutti giocatori sloveni dell’epoca, Peter Vilfan, per emergere ha dovuto saltare a pie’ pari l’Olimpija per passare direttamente dal Maribor alla Jugoplastika. Con la disgregazione della Jugoslavia l’Olimpija è diventata un club come tutti gli altri e l’assunto di cui sopra è caduto in modo naturale, per cui i talenti hanno cominciato a svilupparsi anche altrove trovando molto più spazio per esprimersi liberamente. E non è certamente un caso che tutti i più grandi giocatori sloveni di quest’ultima epoca, Lakovič, Smodiš, Nesterović, Lorbek, i fratelli Dragić, e certamente non ultimo Luka Dončić, abbiano avuto una militanza molto limitata nell’Olimpija (un anno a testa Nesterović e Goran Dragić, quest’ultimo addirittura in prestito dal Tau, gli altri neanche quello). Saltando questo passaggio ed andando direttamente in grandi club europei hanno potuto svilupparsi in modo completo, ma soprattutto molto prima che non se fossero rimasti in un grande club a scaldare la panchina e ad agitare asciugamani.

In Italia il caso più clamoroso è quello di Melli che, per diventare quello che è, è dovuto emigrare in Germania, trampolino verso il Fenerbahce e ora, ahilui, l’NBA. Comunque se non altro si farà i soldi, anche se, conoscendo la famiglia, non credo che ne abbia particolare bisogno. Altro caso più o meno analogo quello di Datome, o in piccolo, di Moraschini che, onestamente, quando era ancora alla Virtus pensavo fosse fondamentalmente un brocco per poi ritrovarmelo insospettatamente produttivo a Brindisi. Dove, scrostatosi da tutti gli epinici che gli elevavano nella sedicente basket city e ritrovata la giusta umiltà, è sbocciato per quello che può e sa dare senza voler fare cose che non gli competono perché semplicemente non sono per lui. Ora però è anche lui a Milano, purtroppo. Dio gliela mandi buona. Sempre per restare a Bologna il caso a specchio in negativo è quello di Fontecchio, presentato come un nuovo fenomeno, penso perché giudicato sulla falsariga degli attuali parametri mutuati dall’NBA, per la quale devi essere fondamentalmente un grande atleta, se poi sai giocare veramente a basket la cosa è altamente secondaria, per non dire terziaria o addirittura irrilevante. Il quale Fontecchio sarebbe potuto (forse) diventare un buon giocatore di basket se si fosse fatto la gavetta in qualche club di secondo piano agli ordini di qualche allenatore possibilmente non uscito dai corsi federali (tenuti da quelli che non sono abbastanza bravi per trovare un posto di allenatore autonomo in qualche club) se non per quel tanto da prendere il famoso patentino e poi tentare di dimenticare il prima possibile quanto dovuto imparare per passare il corso. E non certamente andando a Milano in quel mitico buco nero per tutti i talenti italiani. Fra i quali mi dispiace particolarmente per Dada Pascolo che, andando a Milano, ha fatto la scelta più sciagurata possibile per la sua carriera che avrebbe potuto (e dovuto, viste le grandi doti di vero giocatore di basket che ha) avere. 

Facendo due più due se la cosa vale per uno sport di squadra deve necessariamente valere anche per quelli individuali. Del resto, se ci si pensa un po’, la produzione di atleti di vertice è come ogni altra attività umana che presuppone, appunto, la produzione, è cioè il lato “economico” dello sport. La quale può avvenire in modo proficuo e continuo solamente in regime di libera concorrenza fra tanti centri in competizione con “metodi di produzione” diversi e sempre in evoluzione, copiando quanto di meglio fanno gli altri e provando a inventare qualcosa di proprio che meglio si adatti alle condizioni specifiche nelle quali si opera. In più tanti centri, magari fieramente in contrasto fra di loro per motivi politici o semplicemente di campanile, significano motivazioni aggiuntive sia per i dirigenti e tecnici che per gli atleti stessi, aumentando così sia il livello che gli atleti raggiungono sia la loro voglia di raggiungerli avendo sempre in mente un obiettivo preciso. In questo contesto le condizioni economiche (senza virgolette) nelle quali si agisce, leggi volgarmente i soldi a disposizione per l’attività, vanno in secondo piano, essendo la molla principale che spinge tutti quella magari di vincere il derby del borgo o, come succedeva nei tempi felici in America, di vincere il torneo nazionale fra scuole o università.

E sempre usando il parallelo con le altre attività umane il lato centralistico, quello “politico”, deve essenzialmente pensare a una sola cosa: che le competizioni che organizza siano le più logiche possibili, che coinvolgano tutti, che soprattutto costino poco e che dunque invoglino tutti a parteciparvi. In più deve creare le condizioni di contorno perché tutti abbiano le migliori condizioni possibili per agire con profitto. Quando la “politica” invece pensa di intervenire nel campo tecnico creando fantomatici centri federali nei quali impera il pensiero unico e la concorrenza interna svanisce, e in più facendo ciò crea ammassi di atleti tutto sommato poco motivati che hanno poco modo di esprimersi, creando cioè le varie squadre o gruppi artificiali, tipo i famosi “Club Italia”, fa un danno immenso come sempre quando la politica si immischia nell’economia invece di darle solamente regole che permettano le stesse regole del gioco a tutti. In definitiva: lo sport, come attività umana organizzata, è esattamente come tutte le altre attività umane organizzate. Ha le sue regole e quelle dovrebbe seguire.