Domenica pomeriggio ho preso un'importante decisione dopo aver visto la finale dei Mondiali, ma soprattutto dopo la premiazione, e cioè quella di smettere con il basket. Semplicemente questo sport, per come si gioca ora, ma soprattutto per come viene percepito, non fa più per me. E’ qualcosa di completamente diverso dalla cosa della quale mi sono innamorato nei miei anni più teneri e che ha poi, volente o nolente, dettato tutto il percorso della mia vita. Basta. Fermate il mondo, voglio scendere.
Va be’, la cosa era più o meno attesa. Che cioè l’Argentina si sarebbe di colpo trovata senza benzina e che gli Spagnoli, rotti ad ogni esperienza e trucchetto, l’ avrebbe asfaltata. Però c’era sempre la speranza che sarebbe riuscita lo stesso a concentrarsi facendo un ultimo sforzo per riuscire a giocare in modo simile a quanto aveva fatto contro i serbi, quando aveva giocato la partita perfetta. La partita è cominciata alle due del pomeriggio, alla stessa ora nella quale hanno rombato i motori a Misano. Guardo ovviamente il basket. Gli argentini scendono in campo come se fossero in preda ad uno dei più letali sedativi che ci siano, appaiono del tutto spaventati, Scola sbaglia i primi (e poi anche quelli successivi) tiri, la Spagna va avanti 14 a 2 e giro sulla MotoGP. Quando la corsa (molto bella, fra l’altro) finisce ritorno sul basket, la Spagna è avanti di quasi 20 e la partita non la guardo più. Non voglio più soffrire. Però il peggio deve ancora arrivare. Guardo la premiazione e vedo che il premio di MVP della partita (e passi, nella finale ha giocato in modo decente), ma anche il premio di MVP dell’intero campionato è stato attribuito a Ricky Rubio. Devo confessare che la mia decisione di disintossicarmi dal basket è maturata in quel preciso istante. Non so, cari amici, se avete mai provato l’angosciante sensazione di sentirvi fuori dal mondo, quando non capivate cosa stesse accadendo attorno a voi, e siete stati colti dal panico, convinti di essere impazziti, in quanto è impossibile che impazzisca tutto il mondo con voi che siete rimasti gli unici lucidi. A me questa sensazione si è palesata, opprimente, domenica pomeriggio poco dopo le quattro.
Per quanto ne so io, e per quello che ho visto, Ricky Rubio mi sembra sia quel giocatore che nella partita contro l’Italia è stato di gran lunga il miglior giocatore dell’Italia. Ricordo che l’Italia (l’Italia! – non certo la rappresentativa di Marte) era avanti di quattro a tre minuti dalla fine e che l’Italia quella partita avrebbe potuto tranquillamente vincerla se solo avesse avuto in campo un, uno solo, giocatore che sapesse come si gioca in quei frangenti e che avesse saputo cosa fare. E ricordo altresì che in caso di vittoria dell’Italia la Spagna sarebbe andata direttamente a casa al posto della suddetta Italia. Veramente un apporto sontuoso di Rubio (ricordo, almeno per quello che pare a me, che per essere MVP del torneo bisogna aver giocato da MVP per tutto il torneo. O no?). Ricordo anche che la Spagna è approdata in finale sostanzialmente per merito di un tiro libero sbagliato da Mills (che ha risvegliato in me angosciosi ricordi di un tiro libero analogo sbagliato dal Gentile vero contro la Scavolini tanti anni fa), se poivogliamo analizzare l’apporto dei singoli giocatori in quella partita, la finale l’ha conquistata grazie alla fantastica partita di Marc Gasol, che non ha solamente segnato un trentello, ma ha anche segnato sette punti di fila, con una tripla, nel terzo quarto nel momento cruciale nel quale sembrava che gli australiani stessero scappando. Per non menzionare i due tiri liberi segnati negli ultimi secondi del primo supplementare. Nella stessa partita le triple decisive, quelle che hanno materialmente fatto vincere la Spagna, le ha segnate Sergio Llull, per cui abbiamo almeno due giocatori che hanno meriti ben maggiori per la vittoria spagnola in quella decisiva partita .
Va bene, Rubio ha giocato in questi campionati in modo sorprendentemente positivo, ma ha soprattutto tirato bene, cosa che non gli succede proprio spesso, ma da questo ad eleggerlo miglior giocatore ce ne corre e non vedo proprio alcuna ragione per cui possano averlo fatto. Non può essere il miglior giocatore di un torneo uno che gioca il basket in modo del tutto istintivo, ma che soprattutto non ha proprio alcuna delle caratteristiche che fanno di un giocatore un leader, ed è in definitiva, nell’insieme dei giocatori di medio livello sicuramente uno dei migliori, ma non è certamente un campione. Per essere MVP un giocatore deve necessariamente essere uno che non si può immaginare che la sua squadra potesse vincere senza di lui. Pensate seriamente che la Spagna, senza Rubio, non avrebbe vinto lo stesso?
Vedete allora perché non voglio più avere a che fare con il basket? Semplicemente perché sono troppo vecchio per capire certe cose. Proponetemi qualcosa d’altro, per favore.
Quello che avete appena letto è il mio pezzo conclusivo di commento ai Mondiali apparso oggi martedì (mentre scrivo) sul Primorski e ad esso non ho proprio più niente da aggiungere, se non che mi è costato uno sforzo immane scriverlo, proprio perché di basket, almeno per un po' di tempo, non voglio più parlare. Quanto è successo ai Mondiali, 32 squadre con troppi dopolavoristi, un gioco sempre più scimmiottante l’NBA (anche se, guarda caso, le squadre che sono arrivate più lontano sono quelle che, o hanno troppi pochi giocatori NBA per fare massa critica, oppure quelle, come l’Australia e la Spagna, che hanno sì giocatori NBA, ma che giocano già da tantissimo tempo insieme, per cui, quando si ritrovano insieme, ritrovano anche le motivazioni per giocare prima da gruppo e poi da squadra), l’incapacità di tutti di giocare in modo decente i minuti “crunch”, quelli nei quali si decidono le partite, gli arbitraggi lisergici con fischi che non stavano né in cielo né in terra, e infine la goccia che ha fatto traboccare il vaso, Rubio MVP, mi ha fatto onestamente odiare quanto vedevo e, se ho guardato le partite, era solo ed esclusivamente perché avevo la rubrica quotidiana sul giornale.
Baskettomani, a questo punto potete finire tranquillamente di leggere questo pezzo. Vado avanti con un altro argomento che immagino alla stragrande maggioranza di voi che mi leggete freguntubo, come direbbe Giordani, ma che per me è stato di decisiva importanza per non impazzire a causa dei Mondiali e che mi ha fatto riconciliare con la vita. Tutto sommato non ci sono solo i Mondiali di basket, per cui la vita, malgrado tutto, merita lo stesso di essere vissuta.
In parallelo ai Mondiali c’era la Vuelta e io ovviamente, da buon sloveno di cultura e sentimenti, ho gioito e trepidato per tre settimane. E poi è finita in trionfo, trionfo che mi ha abbondantemente consolato domenica sera per le tristezze che avevo vissuto con il basket. Il successo di Roglič e Pogačar ha suscitato in Slovenia un’euforia incredibile con titoloni sui giornali e dibattiti in studio nelle TV nelle ore di maggior ascolto ed è stato un’iniezione di orgoglio e di autostima enorme, paragonabile quasi a quello del successo della nazionale di basket due anni fa. So che fra di voi c’è gente a cui piace il ciclismo e che forse sarebbe curiosa di sapere qualcosa di più su questi due eroi popolari in Slovenia. Ecco qua.
Di Roglič sapete forse tutti che proviene dal salto con gli sci, dove è stato anche medaglia ai Mondiali juniores e nel quale prometteva molto. Lui è nato in un paesotto di quattro case attaccato al borgo di Kisovec, che è a sua volta molto vicino a Trbovlje e Hrastnik, zona mineraria storica per le sue miniere di carbone che hanno dato lavoro per secoli alle genti di quelle zone, genti che per il lavoro durissimo al quale sono abituate geneticamente sono normalmente dure e forti come rocce. Forse non è un caso che due giocatori di basket quali Tušek e Smodiš siano usciti dallo stesso bacino. Primož cominciò con il salto, sport nazionale in Slovenia se ce n'è uno, ma un infortunio lo costrinse ad una lunga riabilitazione e per non andare fuori forma cominciò ad andare in bici, il suo secondo grande amore sportivo. Da cosa nasce cosa e decise di partecipare a qualche gara per amatori con il risultato che mentre lui era già sotto la doccia gli altri erano ancora lontani dall’arrivo. La storia di questo cicloamatore che distruggeva tutti gli avversari non passò inosservata e la squadra di Novo Mesto, l’Adriamobil, unica squadra professionistica slovena del rango più basso possibile, lo chiamò per fare qualche test. Racconta Martin Hvastija, allora CT della nazionale, che lo chiamarono da Novo Mesto segnalandogli questo non più giovane cicloamatore e affermando che era potenziale per la nazionale maggiore. Si mise quasi a ridere, finché non gli dissero: “Aspetta che ti mandiamo i test che gli abbiamo fatto e poi ci saprai dire”. Infatti appena arrivato aveva sparato fra le altre cose qualcosa come 7,8 di rapporto peso/potenza (e qui ricordo sommessamente che i saltatori tutto il doping potranno prendere fuori che anabolizzanti che per loro vogliono dire precipitare a fondo valle appena decollati), cosa in sé non decisiva, ma la cosa che li aveva meravigliati era stata la sua straordinaria etica di lavoro e il fatto di non cercare mai alibi né scuse. Riuscì a mettersi in mostra, lo presero gli olandesi della Lotto Jumbo (allora), arrivò a qualche centesimo da Dumoulin nel prologo del Giro corso in Olanda e il resto è storia.
In merito al fatto che non cerchi scuse vorrei puntualizzare qualche cosa che ai più è sfuggita, o per meglio dire non è stata mai raccontata. Ricorderete tutti la tragicomica vicenda al Giro dell’ammiraglia ferma per fare pipì mentre a lui si spacca la bici, deve risalire sulla bici di Tolhoeck, raggiunge il gruppo e poi sulla bici non sua cade nella discesa verso Como mancando poco che si sfracelli. Gli fa un male boia, in contemporanea accusa un virus intestinale che lo debilita impedendogli quasi di alimentarsi, ma lui non dice niente e in modo stoico alla fine arriva a salvare addirittura il podio. Alla Vuelta cade con tutta la squadra il primo giorno e invece di guadagnare 20 secondi ne perde 40, nella tappa di Andorra sotto il nubifragio sbatte sullo sterrato contro una moto che gli si mette di traverso e infatti quando riprendono le immagini della corsa si vede lui che rincorre furiosamente con i telecronisti a chiedersi dove fosse andato in crisi, poi nella terzultima tappa sbatte contro un muro di cemento per una caduta davanti a lui, non sa neanche se riuscirà a risalire in bici, ce la fa, arriva al traguardo con il gruppo e poi dice ai giornalisti sloveni: “Non sto molto bene, però (alludendo al Giro) sono già stato peggio”. E il giorno dopo si salva in modo miracoloso nel tappone del trionfo di Pogačar. A me uno così fa impazzire, è il prototipo assoluto del campione, e il fatto che sia sloveno mi inorgoglisce ancora di più. Fra l’altro ha già affermato che, dopo i Mondiali, farà seriamente una sola corsa ancora, per la quale vuole prepararsi a puntino, e cioè proprio il Giro di Lombardia, nel quale ha molti sassolini da levarsi dalle scarpe.
Tadej Pogàčar (accento messo apposta) è invece il prototipo dell’ultimo tipo di sloveno, quello quasi 3.0, molto vicino per carattere e temperamento al buon Luka del basket. Sembra incredibile a me che conosco la storia della mia gente che possa esistere, a neanche 30 anni dall’indipendenza, un simile cambiamento epocale nelle nuove generazioni slovene. Da eterni piagnoni perdenti a vincenti nati. Nelle interviste rilasciate aigiornalisti sloveni dopo la sua impresa di sabato ha detto due cose per me illuminanti. Alla domanda su quando avesse deciso di attaccare ha risposto: “Quando ho visto che gli altri (Lopez) avevano già sparato a salve tutte le loro cartucce”, indice questo di lucidità, ma soprattutto di grande fiducia, e alla domanda se pensasse di farcela ha risposto: “Io dovevo tentare, speravo di arrivare, ma avrei potuto comodamente rimanere folgorato per strada. Però se non ci provi non lo potrai mai sapere”. Il che è esattamente la risposta che io mi attendo da uno che ragiona da campione. E sta appena compiendo i 21 anni!
Qualcuno più attento avrà notato che il suo account twitter è »TamauPogi” e forse qualcuno sarà curioso di sapere perché. E’un bell’aneddoto e si riferisce proprio ai suoi inizi. Lui è della Carniola Superiore (Gorenjska), di Komenda, borgo molto vicino all’aeroporto di Lubiana. Di famiglia tipica del luogo, tutta casa e chiesa con una nutrita serie di fratelli e sorelle (esattamente come i Prevc che sono anche loro di quelle parti), ha fatto la scuola elementare a Lubiana (ricordo 8 anni in Slovenia). Un giorno si presentarono a scuola quelli della squadra dilettantistica di ciclismo del Rog (emanazione agonistica della fabbrica di bici che era l’eponimo della bici stessa nella vecchia Jugoslavia) per fare dei test sugli alunni per vedere se c’era del materiale da arruolare. Fra i prescelti ci fu anche il 12-enne Tilen Pogačar che fece subito questo discorso agli emissari: “Vengo molto volentieri, ma se volete un consiglio prendete anche il mio fratellino Tadej, che ha due anni meno di me, ma quando corriamo già mi batte”. Lo ascoltarono, presero anche il fratellino che abbandonò il calcio per dedicarsi anima e corpo al ciclismo, per cui nelle giovanili del Rog presero a parlare del “Ta vel’ki Pogi” (il grande Pogi, in dialetto lubianese) e del “Ta mau Pogi” (il piccolo Pogi) per distinguerli. Definizione che poi gli si è attaccata definitivamente e della quale va molto orgoglioso.
Anche qui il resto è storia. Alla Vuelta ha vinto i tre tapponi di montagna, ha distrutto il tanto decantato “pittore” Lopez rimontandogli 1 minuto e 20 presi nella caduta dell’UAE nella cronosquadre di apertura e staccandolo per bene correndo tutta la corsa senza uno straccio di squadra (mentre quello aveva tutto lo squadrone dell’Astana che lavorava per lui), insomma sembra forte, molto, molto forte. Del resto Contador ha detto: ”Onestamente, avete mai visto qualcosa di simile?”