Non so quando queste righe vedranno la luce, in quanto il mio administrator è in vacanza in Argentina, incredibilmente connesso molto precariamente (che il mio esempio, dai e dai, abbia creato la base per qualche riflessione controcorrente? Se fosse così, sarebbe troppo bello), per cui non ci sono realistiche possibilità fino a domenica 31 che questo testo venga messo in rete.
Posso dunque prendermela comoda e non parlare di attualità, se non agganciarmi per un istante a quanto riportato da Walter nei commenti sugli eventi di due settimane fa, pieni di straordinari successi che per me si sono completati (oltre alla goduria per la vittoria della Juve, sia per la vittoria in sé, sia per la perversa soddisfazione di vedere strangolati in gola ai gufi antijuventini tutti i latrati vomitanti odio che si sarebbero esalati in caso di eliminazione – poi ha perso anche l’Inter, il che in sé mi lascia freddo, ma pur sempre come conseguenza gli interisti, almeno loro, avranno, spero, il pudore di non aprire più bocca, visto che non gli conviene) con la doppia vittoria a Vikersund della squadra slovena sabato e del redivivo Domen Prevc domenica sul trampolino di voli più grande che ci sia al mondo.
A proposito, per me il highlight più clamoroso di questo ultimo mese in campo sportivo, checché voi ne pensiate, è stato il primo volo di Ryoyu Kobayashi domenica scorsa a Planica. Il suo volo è stato qualcosa di una bellezza metafisica, tipo il discorso dell’uomo che si trasforma in essere volante, libero dalla gravità, senza alianti o paracadute di sorta, che come i sub senza bombola, e dunque lasciati soli con se stessi e con le proprie capacità umane in un ambiente ostile, che dunque deve essere affrontato al massimo delle proprie possibilità, anche di coraggio, sperimentano sensazioni impossibili da dividere con qualsiasi essere umano che non sia loro stessi. Come da quelle altezze sia atterrato senza uccidersi, anzi restando in piedi quasi sul piano a 252 metri, ancora non me lo spiegare.
Roda mi chiede di dire qualcosa sul biathlon. Non ho nulla da dire se non che in TV non mi perdo una gara, e ciò già da tantissimi anni, da quando cioè in vista delle Olimpiadi di Sarajevo andai l’anno prima alle gare preolimpiche e commentai dal posto per la prima volta una gara di questo sport di cui non sapevo nulla. Poi l’ho commentato alle Olimpiadi e ancora ai tempi di Berlusconi, quando ero uno dei pochissimi che avesse qualche idea di cosa fosse il biathlon. Pensate un po’ che ai primi mondiali che commentai c’erano ancora le gare per pattuglie. Per chi non lo sapesse gareggiavano in quattro che partivano e arrivavano assieme e a ogni poligono sparava uno diverso mentre gli altri attendevano che finisse. In più c’era la 10 sprint, la 20 individuale, la staffetta e fine. Malgrado il fatto che le gare, staffette a parte, fossero oggettivamente per lo più noiose (nell’individuale l’intervallo alla partenza era di un minuto, per cui le gare non finivano mai), i tedeschi e i nordici si appassionarono sempre più a questo sport, lo sottrassero alla Federazione internazionale di pentathlon moderno, di cui era una costola, e dunque lo “secolarizzarono” da sport prettamente militare che era, introdussero gli inseguimenti e le mass start sviluppando in pieno tutto il potenziale di spettacolo che questo sport possedeva e il resto è storia.
Anni fa feci un lungo servizio-intervista con Rajmond Debevec, sparatore sloveno con la carabina, un oro e un bronzo olimpico (nella carabina tre posizioni, la disciplina dominata negli ultimi anni da Campriani), e a un dato momento gli chiesi come, secondo lui, facessero i biathleti a trovare il modo di calmarsi dopo la fatica fatta sul fondo per poter sparare calmi e centrare i bersagli. Lui mi guardò con faccia schifata e mi disse: “Bella forza, loro sparano comunque a bersagli molto più grandi dei nostri!” Per dire che tutto è relativo. Certo, a me un bersaglio di 4 cm e mezzo a terra e di 11 cm in piedi a 50 metri da centrare con il fiatone sembra un’impresa non certamente banale. Soprattutto quando ci si giocano piazzamenti importanti in gare quali Mondiali o Olimpiadi. Ed è proprio per questo che il biathlon mi piace tantissimo. Perché è uno sport completo nel senso che piace a me: oltre ad avere un fisico bestiale per andare il più possibile veloci sulle piste, bisogna avere poi al momento giusto anche la testa giusta e gli attributi giusti per prendere i bersagli quando le gambe tremano. E dall’altro canto, dal punto di vista dello spettacolo, la gara normalmente non è finita mai, come dimostrato dalla vittoria stile Bradbury di Windisch nella mass start mondiale. Ovvio, lui è stato fenomenale a centrare lo 0 all’ultimo poligono, però lo ha sicuramente agevolato il fatto che sparava nel mucchio, non aveva più nulla da perdere (come la Vittozzi a Holmenkollen, quando ha centrato tutti i bersagli in piedi dopo averne sbagliati 5 a terra nella mass start finale), e non poteva sapere che quelli attorno a lui stavano tutti sparando ai piccioni svedesi. Sarei molto curioso sapere che sensazione possa aver provato quando si è precipitato in pista per l’ultimo giro e incredibilmente non ha visto nessuno davanti. Deve essere una sensazione che, una volta provata, uno, penso, può anche pensare di smettere, perché sa che il massimo raggiungibile in carriera in fatto di devastante emozione positiva lo ha già raggiunto e mai potrà duplicarlo.
E a proposito di attualità è proprio di oggi mentre scrivo (mercoledì 27) la notizia bomba che ha sconvolto l’assetto societario della massima espressione triestina del basket. Poco fa mi ha telefonato un giornalista amico chiedendomi se quel Franz che scrive sul mio blog potrebbe essere una fonte affidabile per potersi fare un’idea di quello che sta succedendo, ma soprattutto di quello che potrà succedere. Ovviamente ha avuto da parte mia l’assoluta conferma che la fonte è altamente affidabile (Franz! Mi sono guadagnato una birretta?) e che almeno da parte mia, che sono molto, ma molto meno addentro alle cose segrete del basket dell’(ex?) Alma, tutto quello che lui scrive è assolutamente da sottoscrivere. Per quanto mi riguarda posso solo dire che è già da tempo che nella mia cerchia del bridge, gioco praticato soprattutto da gente normalmente abbastanza in alto nel panorama sociale ed economico, la gente si chiedeva perplessa se era veramente tutto oro quello che luccicava palesando dubbi molto seri sulla limpidezza di tutta l’operazione che aveva portato l’Alma ad impegnarsi in modo così profondo nel supportare le sorti del massimo club cestistico della città. Si trattava comunque tutto sommato di chiacchiere fondate su impressioni e sospetti non supportati da fatti reali, per cui pensavo che fossero più o meno dicerie che lasciavano il tempo che trovavano. Ora non ne sono più tanto sicuro, o per meglio dire, sono sicuro che effettivamente qualcosa di losco ci fosse.
Gli scenari prospettati da Franz per il futuro medio-prossimo delle sorti dell’Alma sono tutti molto logici e sono certo che altre alternative non ce ne siano. Da parte mia posso solo aggiungere che lo scenario positivo (unico) sia piuttosto utopico, visto che, almeno a lume di naso, le multinazionali dell’assicurazione normalmente sono molto restie a buttare soldi al vento essendo proprio per ragione sociale, diciamo così, votate alla taccagneria più spinta. Se c’è un campo nel quale sono sprovveduto questo è proprio il campo della finanza e dunque quello che dico può essere, anzi sicuramente lo è, una straordinaria fessaggine. Non riesco a capire come non si possa salvare una realtà sportiva che è profondamente radicata nel tessuto sociale della città, che è lo sport cittadino per eccellenza, che porta sulle gradinate del PalaRubini (scusate, ma per me si chiamerà sempre così) 7-8000 spettatori a partita, che si tratti di Milano o di Pistoia. Qualche modo per coinvolgere tutta la città nell’operazione salvataggio ci dovrà pur essere, anche se a Trieste proverbialmente no se pol. Chiaramente l’azionariato popolare è la prima cosa che viene in mente, anche se mi rendo conto che quando una cosa è di tutti, soprattutto in Italia finisce per essere di nessuno, per cui malversazioni, o magari solo operazioni malaccorte, sono dietro ad ogni angolo, ma insomma qualcosa si dovrebbe pur riuscire a escogitare. Speriamo bene.
A questo punto, già che ci sono, rimango nel basket e lascio la dissertazione sull’insegnamento a una prossima volta. Assisto con preoccupazione all’offensiva della lobby afro-americana dell’NBA che in extremis sta lanciando in modo massiccio la campagna affinché il titolo di ROY vada a Trae Young invece che a Luka che è ovviamente di tutto un altro pianeta rispetto al pur bravo giocatore di Atlanta. Se succederà davvero, allora vuol dire che è assolutamente vero quanto si dice nel film citato da Stefano, che cioè per gli afro-americani il basket è uno sport loro e che viene loro usurpato dalla potenza economica dei caucasici (mi sembra che dire semplicemente neri e bianchi non si possa più – va be’, sforziamoci di stare nei limiti del politicamente corretto, anche se forse a volte dire pane al pane e vino al vino sarebbe liberatorio e farebbe molta più chiarezza). Francamente che fosse così lo sospettavo da tempo, proprio per il modo nel quale si gioca nell’NBA che è sempre più lontano dalla nostra mentalità di sporchi bianchi europei, la maggior parte dei quali, giovani soprattutto, per voler essere alla moda, tentano, ovviamente senza riuscirci, visto che la cultura nera urbana degli Stati Uniti è quanto di più lontano possa esserci rispetto a tutte le nostre sensibilità, di cavalcare l’onda dell’attuale modo americano di concepire il basket. Diventando così tristi parodie di cose che non saranno mai, che mai riusciranno a capire, cosa questa che trascina anche come ovvia conseguenza il fatto che capiscono sempre meno di basket e, se continua così, sempre meno ne capiranno.
E’ solo ovvio che questa mentalità dei neri americani è quanto di più deleterio possa esserci per tutto il movimento del basket mondiale. Uno sport, per essere universale, deve essere capito e interpretato in tutte le parti del mondo secondo le sensibilità della gente del luogo, cosa questa che ha per esempio fatto sì che il basket jugoslavo diventasse così forte e che al contrario ha fatto sì che il basket italiano non diventasse tanto forte quanto avrebbe potuto, come dimostra il calcio, sport universale proprio perché si gioca in modo concettualmente diverso secondo la gente che lo pratica, con il magnifico risultato che per esempio un Mondiale è sempre un affascinante scontro fra diversi modi di giocare che sono ciascuno perfetto per chi lo pratica e che, se lo praticasse l’altro, sarebbe semplicemente ridicolo.
Nel basket invece il trend attuale è che tutti vogliono giocare come i neri americani. Il che è una totale demenzialità. Ognuno dovrebbe giocare secondo le sue inclinazioni e l’NBA dovrebbe essere un perfetto melting pot di tutte queste diverse interpretazioni e i neri di laggiù dovrebbero rendersi conto che pensare di avere il copyright del basket è, più che presuntuoso, totalmente imbecille. Il mondo è bello proprio perché è vario. Senza varietà non c’è progresso. E tutto diventa noioso perché ripetitivo e sempre più prevedibile. Cioè l’NBA attuale.