Già che ci sono, che sono finiti gli Europei di nuoto, che dunque sono ritornato a un tranquillo tran tran lavorativo pigro di fine estate, posso anche partecipare alla discussione che, per quanto pochi (ma ottimi), avete intavolato su più punti nei commenti al mio ultimo contributo.

Intanto, sarò (ma va’!) cocciuto, ma continuo a andare esattamente contro tutti poi per quanto riguarda le staffette miste e le competizioni miste in genere. A voi sembra umiliante che una donna in vasca assieme ad un maschio prenda 15 metri di distacco su 100. A me sembra totalmente normale, onestamente. Non credo che ci siano donne sane di mente al mondo che pensino seriamente di poter affrontare un maschio alla pari per quanto riguarda la forza fisica pura e semplice. Maledizione! O Dio, o la natura, o il caso, fate voi rispetto a quello in cui credete, ha fatto sì che ogni specie vivente fosse divisa in due sessi che hanno compiti diversi ed entrambi fondamentali nella conservazione della specie in questione.

C’è un sesso che è deputato alla conservazione nel presente, difendendo il territorio e le nuove generazioni provvedendo nella massima parte al sostentamento, e dunque deve essere il più forte possibile fisicamente, e c’è un sesso in realtà molto più importante che è delegato alla conservazione nel futuro ed i cui compiti sono completamente diversi, compiti nei quali la forza fisica è fondamentalmente irrilevante. Così è stato per milioni di anni e dunque i due sessi si sono sviluppati in modo del tutto diverso, come è anche giusto, normale e soprattutto funzionale. E’ solo da poco più di un secolo che la struttura sociale su cui si reggeva l’umanità è cambiata radicalmente. I meccanismi di difesa e sostentamento non sono più diretta responsabilità di un particolare sesso (concretamente, per mangiare si va al supermercato e non occorre più andare a cacciare fiere nella foresta), tutta la società ha visto ridistribuirsi ruoli e responsabilità e dunque anche la condizione del sesso fisicamente più debole (e dunque caratterialmente e intellettualmente più forte, lo dico con perfetta convinzione se non altro per una questione di semplice equilibrio) è mutata drasticamente, per cui è solo giusto e normale che le donne vogliano la parità in campo lavorativo e familiare, e contestualmente anche la stessa parità di opportunità nel fare sport. Però, non so se mi spiego bene, sempre donne rimangono. Fisicamente molto più deboli degli uomini. Per cui continuo a non riuscire ad afferrare il problema della donna che prende 15 metri su 100 in vasca. E’ una questione relativa: la donna che ne prende 10 invece di 15 è quella che ha fatto vincere la staffetta. Tutto qua. Quella che ne prende invece 20 è quella che l’ha fatta perdere. Where’s the problem? Ripeto: l’alternarsi delle squadre al comando in dipendenza dalla composizione delle staffette è un elemento totalmente inedito di interesse ulteriore. Per questo dico che la staffetta mista-mista mi ha divertito, perché mi ha dato in più un elemento di suspence, non solo, ma anche di visualizzazione spazio-temporale (rimontando un tanto, quando riuscirà a prenderla? E poi ci riuscirà? – è stato così con Miressi contro la pure fortissima Kromowidjojo che infatti si è fatta rimontare proprio sulla murata) con cui confrontarsi in diretta. Poi ovviamente alla fine le gare di nuoto che ti affascinano sono ovviamente quelle con maggior contenuto tecnico e la staffetta mista-mista non lo è stata. Tutto qua. Però una piccola chiosa la vorrei lo stesso fare: controllate per favore i tempi dei vincitori olimpici maschi di Tokio ’64 o Città del Messico ’68 (di Roma ’60 non parlo neppure – era preistoria) e confrontateli con quanto fanno adesso le donne. Ne sarete sorpresi. Vi renderete conto che le donne non vanno affatto piano e che, chissà, forse nel 2250, quando la riproduzione umana sarà del tutto centralizzata da qualche macchina diabolica e dunque le femmine avranno smesso di svolgere il loro ruolo base, le gare sportive saranno con ogni probabilità unisex.

Sulla questione dei mental coach ribadisco e chiarisco ulteriormente quanto scritto la volta scorsa. Tutta la questione mi sembra, lo dico fuori dai denti, una solenne vaccata mediatica, o, volendo essere meno drastico, una ennesima re-invenzione dell’acqua calda. E’ dalla notte dei tempi, in qualsiasi attività umana, che colui che vuole migliorarsi deve sempre confrontarsi e acquisire esperienza da colui che attraverso le sue stesse esperienze c’è già passato. Nessuno nasce imparato, per cui deve studiare, applicarsi e seguire la strada indicata da quello che ne sa di più. Che è ovviamente il suo coach. O i suoi coach, ognuno dei quali è specializzato in un campo particolare. Fra questi mi sembra solo normale che ce ne sia uno più attento ai risvolti mentali e psicologici. Ma da questo a idolatrare e ritenere fondamentale la presenza del mental coach mi sembra che ce ne corra. Ripeto: intanto può perfettamente succedere, anzi penso che sia altamente auspicabile, che sia lo stesso coach, chiamiamolo così, “primario”, quello essenzialmente tecnico, a possedere doti di comunicatore e soprattutto che possegga l’empatia giusta per entrare in contatto emotivo e anche affettivo con il suo protetto, penso per esempio a quel grandissimo educatore che è stato Sir Alex Ferguson, e non per niente è amato e riverito proprio da tutti i suoi ex giocatori, o per rimanere nel nuoto il più che giustamente evocato da Cicciobruttino Alberto Castagnetti (nel lontano ’78 a Berlino ebbi la fortuna di sentirlo parlare e commentare in modo libero e spontaneo a bordo vasca – potei spiarlo senza farmi scoprire visto che nessuno nel mondo del nuoto sapeva chi ero – e posso confermare che si trattava di una persona con molte marce in più in testa) o ancora nel mondo del basket il leggendario John Wooden, e in questo caso l’educazione del protetto avviene nel modo migliore (e secondo me, lo dico sommessamente, unico), ma in mancanza di questa dote nel coach “primario” è solo ovvio che ci debba comunque essere una persona a cui l’atleta alle prese con problemi psicologici possa rivolgersi. Che normalmente è comunque una persona fuori dal mondo dello sport (amici, fidanzate-i). Quello che voglio dire è, e torno a quanto ho detto l’altra volta: per risolvere i problemi mentali e psicologici è l’atleta stesso che deve intuire quali siano o quali possano essere e deve lui stesso andare a chiedere consiglio e aiuto. Se non ci riesce (l’auto-stima non funziona) ho i miei serissimi dubbi che uno catapultato da Marte, dicendo semplicemente fai così e così e risolverai i tuoi problemi, possa essere di vero aiuto. Se uno non ci arriva da solo a cosa vuole, non esiste persona al mondo che possa dirglielo.

Può presentargli il quadro generale, suggerire qualcosa, ma alla fine è sempre l’atleta che deve saper scegliere cosa fare. Cioè deve già da prima sapere quel che vuole. E siamo al punto di partenza.

Sulle naturalizzazioni: in linea di massima sono perfettamente d’accordo con voi. Anche sulla questione Randolph. L’ho scritto e ripetuto più volte. Esiste una regola e la Slovenia se ne è avvalsa. Punto. La discussione deve dunque vertere sulla regola e non su chi la applica. Regola sbagliata? Certamente! Farisaica e in definitiva idiota. Ma c’è. Tutto qua. Abolirla? Il prima possibile, non c’è dubbio. Però…e allora i casi Travis Diener, o per restare in campo sloveno Omić o Begić? Il primo cittadino italiano a tutti gli effetti avendo sposato un’italiana, ma di scuola palesemente straniera (come la mettiamo con il figlio di Mannion, tanto per dire?), i secondi due nativi bosniaci, ma in Slovenia da piccoli e con tutta la trafila delle giovanili in Slovenia e dall’età di 18 anni cittadini sloveni a tutti gli effetti? Insomma ci sarebbe da valutare da caso a caso. Difficile? Difficilissimo, ma i politici sono lì per risolvere questi problemi. O no?

Comunque sono d’accordo con voi che sottolineare continuamente la provenienza del tal dei tali in atletica è stucchevole. Però…anche qui. Mi sembra che ci sia una bella differenza fra una Libania Grenot e una Pedroso o nel passato Fiona May (lei che ha sposato un italiano non avrebbe dovuto gareggiare per l’Italia e Travis Diener, nella medesima situazione, invece sì? Un po’ di coerenza per favore. Lei aveva già gareggiato per la Gran Bretagna, mentre Diener no? Pietà! Che nazionali di basket secondarie hanno gli USA quando non ci sono Olimpiadi o Mondiali?), cioè gente diventata italiana per matrimonio o convenienza, ma di scuola esotica, o una Chigbolu o una Obakue, o un Dal Molin, o il simpaticissimo bronzo dei 3000 siepi Chiappinelli, tutta gente che parla con fortissimo accento regionale (sentire una scura, fra l’altro bellissima ragazza, che parla con marcato accento romanesco, o un nero carbone che interloquisce con una micidiale cadenza veneta fa veramente bene al cuore) e che sono italiani veri, anzi, vista la loro storia, sono probabilmente molto più italiani di noi semplicemente perché loro hanno voluto diventarlo, mentre a noi è stato dato. Mi sembra che la differenza sia assolutamente sostanziale e dirimente. Dove si trova la linea di demarcazione? Vattelapesca. Anche qui. Politici sportivi, se ci siete (cosa di cui dubito fortemente), battete un colpo.

Per finire. Incuriosito da quanto riportato da Edoardo sono andato a vedere la partita dell’Europeo cadetti (pardon, Under 16) fra Croazia e Italia. Sconfortante. Anzi, agghiacciante. Ho visto nell’Italia una povertà tecnica inimmaginabile. Semplicemente i lunghi non sanno fare proprio nulla. Non hanno la minima base tecnica. Terribile. Se i miei giocatori alla loro età avessero giocato come fanno loro, la mia carriera di coach sarebbe finita subito, in quanto avrei immediatamente capito che la cosa non faceva per me. I piccoli ovviamente sono imbevuti dalla controcultura cestistica attuale, per cui tentano di scimmiottare quanto vedono in TV con esiti tragicomici, ma almeno qui, onestamente, la colpa non è loro, ma dell’epoca nella quale vivono. L’unico giocatore di basket che ho visto è stato il play di riserva (?) con il numero 7 che aveva visione periferica, idea di gioco, buone letture e ottima tempistica di passaggio, insomma era probabilmente uno venuto da qualche club piccolo, con qualche allenatore fuori dal maistream demenziale attuale, nel quale bisogna ancora saper giocare. Ha un solo difetto, che non è un difetto da poco per un play. Proprio non sa palleggiare. Ogni cambio di mano e direzione (crossover, dicono gli italiani di oggidì) è per lui un’avventura che si conclude normalmente con la palla che non è mai dove lui pensa debba essere. Come vedete, siamo molto ben messi. La Croazia poi ha vinto il titolo pur non avendo neanche una guardia decente, e la cosa mi sembra molto strana. Però ha un fenomeno vero, e cioè il figlio di Prkaćin, ragazzo che ha mezzi tecnici, fisici e mentali di primissimo ordine, e vederlo giocare contro gli imbelli lunghi azzurri era onestamente imbarazzante, financo umiliante, e poi uno altamente sopravvalutato, tale Tišma, che però è molto lungo, è mancino e ha un ottimo tiro (in modo blasfemo viene addirittura paragonato a Kukoč) e che comunque farà sicuramente strada nel basket odierno. C’è anche il figlio di Perasović che mi immaginavo del tutto diverso, conoscendo il padre. Lui è invece quasi due metri, ha un grandissimo fisico, sembra ancora timido e incostante, ma ha certamente grandi numeri. Vedremo.