Un saluto a tutti dopo tanto tempo. Onestamente, per quanto sia stato in ferie a fare un perfetto niente a casa (che per me è l’interpretazione per antonomasia della parola ferie) se non prendere il sole, guardare i Mondiali di calcio per quel poco che potevo vederli, visto che gli stessi problemi che il fulmine aveva creato al mio modem li ha creati anche all’antenna del terrestre, e risolvere sudoku, e dunque avessi tutto il tempo possibile per scrivere qualsiasi cosa, non l’ho fatto primo per non turbare la sacralità dell’ozio delle ferie e secondo perché in effetti non avevo in realtà nulla da dire, se non ringraziarvi tutti per la magnifica sconvenscion che abbiamo vissuto della quale posso dire solo che mi preoccupa un tantino proprio il suo successo, nel senso che eravamo proprio in tanti.
E onestamente non so quanti di più si possa essere senza perdere quello che assolutamente non voglio perdere, e cioè la sensazione che si tratti di una riunione fra amici nella quale è lecito un po’ tutto e dalla quale qualsiasi tipo di ufficialità deve essere totalmente bandita. Con in più la magnifica ciliegina sulla torta della presenza di Boša Tanjević che non finirò mai di ringraziare abbastanza. Ovviamente pur continuando a non essere d’accordo con lui su tanti punti, da quello politico (chi c’è stato ricorderà le visioni opposte che abbiamo sulla storia recente della Jugoslavia) a quello tecnico, anche se ovviamente il guru è lui e dovrebbe avere ragione a prescindere. Su alcune cose sicuramente, dico io, su altre mi tengo le mie opinioni (certezze?), visto che, almeno a mio parere, l’esperienza non fa che confermarmele ogni volta con rarissime eccezioni.
Detto questo però, e avendo visto troppo poco dei Mondiali per poter essere credibile, avevo finito gli argomenti. Pian piano però con i vostri commenti avete tirato in ballo nuove situazioni, avete portato all’attenzione altri aspetti dello sport, ci sono stati importanti risultati sportivi, per cui mi è tornata la voglia di scrivere. Anche perché mi sembra di cogliere in tutti questi eventi che avete nominato un filo conduttore che per me è di importanza capitale ed è forse l’essenza stessa dello sport, o almeno è quello che fa sì che un atleta, uno sportivo possa o non possa varcare la famosa soglia che divide i normali dai campioni e poi ancora dai fuoriclasse.
Non so quante volte ho scritto che non c’è talento senza testa e che le qualità mentali sono assolutamente imprescindibili quando vogliamo valutare se il tizio o il caio ha la tempra del campione, se cioè potrà mai diventarlo. Ho fatto polemiche lunghe e inutili praticamente con tutti voi che mi dicevate che il talento è un’altra cosa, che sono in effetti le potenzialità offerte in sostanza dalle capacità fisiche, comprese quelle neuro-motorie. Che poi possa esprimersi sono necessarie anche doti di testa, almeno questo me lo concedevate. Io invece continuo a battere sul fatto, e più passa il tempo e più l’esperienza non fa che darmi ragione, che senza qualità intellettuali di primissimo ordine semplicemente il talento non esiste. Dal punto di vista fisico uno scimpanzé è nettamente più capace di fare acrobazie di qualsiasi essere umano e un gorilla è altrettanto molto più forte di qualsiasi essere umano, ma non potranno mai giocare bene a basket (o calcio, o pallamano, o rugby, o tennis…pallavolo? Beh…). Perché? Lascio a voi l’ardua risposta.
Tutto questo non vuole assolutamente dire che devi essere Einstein per diventare un campione. La nostra mente non è solo capacità di immagazzinare ed elaborare dati, capacità di analizzare, dedurre o indurre, non è solo scienza, è tutto un insieme di tantissime cose, fondamentalmente molto più importanti. Mi ricordo sempre di una barzelletta che raccontava mia mamma di uno scienziato che va a fare una gita in barca e pone domande scientifiche e filosofiche al barcaiolo, commentando inevitabilmente a ogni scena muta del rematore: “Eh, lei signor, se no la sa ‘ste robe, mezza vita persa!”. Arriva un fortunale ed è il barcaiolo che domanda: “Ma lei, signor, la sa nudar (nuotare)?” “No” “Alora, tuta vita persa”. L’idea è ovviamente che nella vita sono importanti tantissime altre cose che non sia la mera intelligenza cognitiva, quella che si misura in IQ. Non mi ricordo, e qui chiedo aiuto agli amici che di queste cose se ne intendono (Walter, aiuto!), chi abbia catalogato quante intelligenze in realtà ci siano. Ce ne sono comunque tantissime e alcune di queste sono fondamentali nello sport. Fondamentalmente la cosa più importante nello sport è la capacità di autostima, non nel senso di egocentrismo e superbia, come viene percepita normalmente con connotati anche spregiativi o almeno dubitativi, confondendola con l’ego che è in definitiva la conseguenza finale del processo di autostima. Auto-stima nel senso proprio periziale, come il geometra ci fa la stima dell’appartamento. La capacità cioè di leggere se stessi nel modo più obiettivo possibile sforzandosi di vederci con gli occhi degli altri e valutando continuamente le nostre capacità in qualsiasi campo con quelle del resto dell’umanità. A questa capacità, che ci fa capire dove, in che campo cioè, e quanto siamo capaci e ovviamente dove e quanto siamo incapaci in tantissimi altri campi, deve aggiungersi anche la voglia e il desiderio (che dal mio punto di vista, una volta individuati i campi nei quali si può eccellere, viene da solo) di sviluppare queste capacità. Per svariati motivi, il più comune e umano dei quali è il desiderio di autogratificazione, il desiderio cioè di lasciare un piccolissimo segno del nostro passaggio su questa terra. In definitiva quello che voglio dire è che non ci può in alcun modo essere successo se l’atleta solo non riesce a capire perfettamente già all’inizio del suo percorso agonistico dove vuole arrivare e come può riuscirci. Se il suo processo di autostima è stato corretto, se è riuscito a percepire che in un determinato campo ha potenzialità da campione, lo diventerà, potete starne certi. O almeno raggiungerà il livello che voleva raggiungere, e anche qui il processo di autostima è fondamentale, in quanto ognuno di noi deve sapere il più precisamente possibile fino a dove può arrivare e non crearsi così false speranze che non potranno mai essere realizzate. Il grandissimo campione, il fuoriclasse, è uno che sa perfettamente quanto vale in ogni momento, e il suo unico obiettivo è di dare di gara in gara esattamente il massimo che lui stesso si attende possa dare. Tutto il resto non gli potrebbe fregare di meno. Se dando il massimo vince, tanto meglio, se non vince, pazienza. L’unica cosa importante è avere la certezza di aver dato il massimo. E state pur certi che i grandissimi campioni (oserei dire solo loro, essendo questa l’infallibile riga che divide i campioni da quelli che non lo sono), guarda caso, ottengono i risultati migliori nelle gare chiave della stagione, quelle preparate con più cura. Se fa parte di una squadra, il campione è quello che si prende le responsabilità più importanti nel momento decisivo, non perché voglia apparire sui giornali come il salvatore della patria, ma semplicemente perché sa che, o lo fa lui, o lo fa qualcuno meno capace di lui, cosa non buona. Si tratta semplicemente di una valutazione spassionata: l’importante è sempre comunque che vinca la squadra. Jordan dice a Kerr nel time out: “Vai lì che riceverai la palla e segnerai il canestro della vittoria”. Kerr va lì, riceve, segna e i Bulls vincono. Ecco perché Jordan è il più grande giocatore di basket di tutti i tempi. Poi che volasse aiutava, è ovvio.
Poi, ma solo molto dopo, arriva tutto il resto. Senza le premesse indicate sopra semplicemente non ha neanche senso partire. Tanto è impossibile arrivare. Ribadisco: un campione è colui che nei momenti chiave ha la capacità, data dal lunghissimo e difficilissimo processo che ho tentato di spiegare sopra, di estraniarsi da qualsiasi fattore esterno e di semplicemente fare quello che lui sa, ma lo deve sapere lui, in modo quasi inconscio, non serve esattamente a nulla che glielo dicano gli altri (da questa nota potete capire quale sia la mia considerazione sui mental coach – servono sì, ma solo ed esclusivamente a quelli che anche senza di loro ci arriverebbero comunque, magari più lentamente, ma ci arriverebbero), di saper fare. Come diceva quel mio amico: se uno è un tacchino, non diventerà mai un’aquila.
Pensavo a queste cose quando guardavo le ultime buche di Francesco Molinari a Carnoustie. Ero andato allo Staranzan All-star di 3-v-3 e prima di andare ho registrato il finale dell’ultimo giro che poi mi sono riguardato una volta tornato a casa come fosse una diretta. Molinari è stato sempre un giocatore fortissimo, ma il fatto di aver vinto a Wentworth, di esser stato il primo italiano a vincere un PGA in America, i grandi e soprattutto continui risultati che ha fatto in quest’ultimo periodo sono stati evidentemente l’ultimo tassello del suo processo di autostima. Alla fine del quale ha deciso di essere fortissimo e che poteva vedersela con tutti. Giocava con Tiger, era in testa ad un major, roba da svenimento e cosa ti fa sulle ultime due terribili buche? Dapprima spara un secondo colpo folle alla 17 che atterra in green e quasi fa birdie e poi alla 18 mette palla da birdie dopo due colpi impeccabili, meglio di Tiger, il quale Tiger sbaglia il putt da un metro e mezzo, lui però no. E vince. Sono forte, so giocare, nei momenti chiave do il meglio. Ho vinto? Ma va’…Una volta sfondato questo muro di autoconvinzione sono sicuro che farà ancora tantissimi grandi risultati, a cominciare dal prossimo PGA e poi nella Ryder. Poi, chiaro, la forma va e viene, qualcuno può impazzire e fare cose turche, ma intanto tu sei lì sempre e comunque.
Più o meno mi sembra, anche se non seguo più tanto il tennis, che si possa dire lo stesso di Cecchinato. Che era un signor nessuno. Fino a quando non ha avuto il suo momento di gloria a Bucarest (o era Budapest?), quando dalle qualificazioni è arrivato a vincere il torneo. Ora non mi direte che in quella settimana ha improvvisamente alzato in modo drastico il livello del suo gioco rispetto a prima. I colpi erano sempre quelli, solo che di colpo sono cominciati a entrare, gli errori sono diminuiti, si è detto fra sé e sé mentre macinava gli avversari “forse non sono tanto un brocco”, in testa gli è scattato il clic, secondo la mia interpretazione il suo processo di autostima si è completato, e come risultato ha battuto Đoković al Roland Garros ed è arrivato fino in semifinale. Rimanendo dal punto di vista del “talento” esattamente quello che faticava nei challenge. Però la testa è cambiata, o per meglio dire il processo di cui sopra è arrivato a compimento. E con quali risultati lo avete visto tutti.
Con Nole il discorso è diverso, anche se la falsariga rimane la stessa. Lui ha vinto tutto quello che c’era da vincere e, anche perché serbo, tutto si poteva di lui dire meno che non fosse ferreamente convinto delle sue capacità. Poi, per ragioni che probabilmente conosce solo lui e qualcuno a lui molto vicino, di colpo ha sbarellato di testa. E quando si sbarella di testa è dimostrato che anche il corpo lo fa. E’ come se la mente desse un ordine al corpo di infortunarsi per creare un alibi e trovare così una spiegazione all’improvviso crollo delle prestazioni. Ha cambiato team, ha cambiato abitudini, si è operato, ma la sua testa è rimasta sospesa nel nulla. Poi, non so perché e percome (probabilmente anche qui solo lui e la sua stretta cerchia sa perché – non so perché ma continua a ronzarmi in testa il famoso detto francese “cherchez la femme”), le cose sono cominciate ad andare a posto e, molto significativamente, è ritornato con il suo vecchio team. La testa ha rifatto clic, i meccanismi di una volta si sono rimessi in moto e, tac, ha vinto Wimbledon. Infortunio? Operazione? Mai nominati anche perché probabilmente non se ne ricordava più (almeno giocando, è chiaro che poi, anche perché avanza l’età, gli acciacchi cominciano a farsi sentire non smettendo più).
Nel basket abbiamo un caso molto simile che secondo me, per come si svolgono le cose attorno al personaggio in questione, non si risolverà, semmai continuerà ad aggravarsi. Parlo ovviamente di Alessandro Gentile. Lui semplicemente, come figlio di cotale padre, non ha la minima capacità di autostima, non ha proprio le capacità mentali (qui l’intelligenza non c’entra niente, si tratta di capacità acquisite, appunto, dall’ambiente nel quale è cresciuto) per riflettere su se stesso. Lui non sa cosa sa, non sa cosa non sa, non ha idea di cosa dovrebbe fare per far risaltare al massimo le sue capacità di giocatore (che continuo cocciutamente a ritenere elevate) e contemporaneamente mascherare le cose nelle quali non è capace, insomma sul punto nodale che divide il campione dal fallito è nella nebbia più totale. E visto come lo tratta la stampa non vedo chi potrebbe diradargliela.