Prima di passare al basket alcune precisazioni sulle famose “ić” invece di “ič” nei cognomi di alcuni giocatori sloveni. Per chi non lo sapesse le due diverse grafie del segnetto sopra la “c” sono assolutamente dirimenti per scovare le origini di una persona dell’area jugoslava (in senso geografico). La “č” ha una pronuncia dura , diciamo lo stesso tipo di c di ciliegia detto soprattutto da Roma in giù, mentre la “ć” ha una pronuncia molto più tenera che a noi che parliamo dialetti di origini venete riesce benissimo per esempio nelle parole “cior”, “ciapin” eccetera. Il trucco è che la c tenera (“meki ć“), considerata come consonante a parte, esiste solamente nel serbo-croato, mentre in sloveno non esiste proprio. E dunque i patronimici sloveni (Blažič, Prepelič, dei giocatori dell’attuale nazionale) vengono scritti con la c dura, mentre la c tenera esiste nei patronimici di origini serbo-croate che dunque distinguono subito, a prima vista, le origini della persona che porta questo tipo di cognome. Come detto già altre volte (e Jesenice è solo un esempio) nella vecchia Jugoslavia la Slovenia, da repubblica più progredita, attirava molte persone dal sud in cerca di lavoro, esattamente lo stesso fenomeno per il quale a Torino ci sono molti più tifosi juventini che torinisti. Le quali comunque sono ormai arrivate alla terza, se non quarta generazione, di gente nata in Slovenia, che si sente slovena al 100% (facciamo da 70% a 90%... Dragić, Murić, Zagorac – a proposito, anche la desinenza –ac invece di -ec è decisiva per scoprire le origini) pur portando il retaggio del cognome originale.
C’è poi il fenomeno caratteristico delle terre di frontiera per cui ai tempi della guerra fredda sia Italia che Jugoslavia ammassavano caserme militari nei pressi del confine più a rischio. Se io a Opicina (a 5 km dal confine jugoslavo) avevo nel raggio di 5 km in linea d’aria ben quattro grosse caserme nelle quali venivano a fare il servizio di leva da tutta Italia, specularmente la stessa cosa avveniva in Jugoslavia con imponenti caserme dell’esercito jugoslavo, caserme che ovviamente erano in Slovenia. Nelle quali gli ufficiali erano normalmente serbi (come si è visto poi durante la fase della guerra di disgregazione) che chiaramente, essendo di carriera, mettevano radici nella località dove si trovava la caserma, magari sposandosi con ragazze locali (come succedeva da noi ed è meraviglioso a volte vedere anziani ex militari calabresi o siciliani felicemente sposati da decenni a Opicina, perfettamente integrati nel tessuto locale, che si sforzano di parlare nel nostro dialetto o addirittura in sloveno). Nell’attuale nazionale slovena ci sono due casi del genere: il primo è Aleksej Nikolić, che è nato assieme al fratello maggiore Mitja, visto per qualche mese a Bologna sponda Fortitudo, a Postumia in quella che era forse la più grande caserma jugoslava in territorio sloveno, da nonno militare serbo. Infatti già il padre era nato in Slovenia ed è stato anche un ottimo giocatore a Capodistria. L’altro caso, assolutamente analogo, è quello di Luka Dončić, il cui padre Sašo è nato a San Pietro di Gorizia (Šempeter) in un’altra grandissima caserma da padre serbo. In realtà dunque Luka, la cui mamma è ballerina classica di famiglia lubianese dalla notte dei tempi, è anche tecnicamente sloveno al 100% e l’unica cosa che lo legherebbe alla Serbia sarebbe il cognome che si porta dietro dalle origini del nonno. Per cui le ragioni per cui la Serbia dichiara a tutti le sue origini serbe sono evidentemente puramente strumentali al valore del ragazzo. Tecnicamente è più italiano Icardi che Dončić serbo.
Passando al basket vorrei prima di tutto tradurre il finale del mio pezzo per il Primorski uscito ieri: “E dunque, anche a costo di rischiare un’altra figuraccia, mi sento di ripetere la fatidica frase: non vedo proprio come l’Italia possa battere la Serbia”. La base del mio ragionamento era che, in quanto a impianto e a filosofia di gioco, Italia e Serbia giocano a specchio. E quando due squadre giocano a specchio vince semplicemente chi ha i giocatori migliori. La Serbia, pur con tutte le assenze sanguinose che accusa, assenze soprattutto dei giocatori più tecnici, ha i giocatori più prestanti fisicamente, fondamentale, come si è visto, e soprattutto giocatori che conoscono di più il basket rispetto ai corrispettivi giocatori italiani, e ripeto ancora una volta cosa intendo per giocatori che capiscono di basket, cosa che non ha nulla a che vedere con il loro “talento”, nel senso comune e secondo me totalmente fuorviante nel quale viene usata questa parola. Per chi mi segue da poco tempo il mio esempio quasi paradigmatico del giocatore di basket, malgrado il “talento” praticamente inesistente, era Mason Rocca. Qui si parla di intelligenza cestistica, di lettura, di capacità di sapersi muovere, di leggere le pieghe della partita, sapere in ogni momento cosa fare di produttivo in quel preciso momento, magari in un altro momento facendo un’altra cosa. E dunque da questo punto di vista l’esatto opposto di Mason Rocca, proprio all’altra estremità dello spettro c’è Aleksej Šved, “talento” spaventoso, ma intelligenza cestistica espressa in numeri negativi. Esattamente al centro, al vertice delle due qualità, possedendole entrambe ai massimi livelli, io situo solamente i grandissimi, fra i quali ci metto senza remora alcuna il suddetto Luka Dončić. Il quale, lo ricordo, quest’anno potrebbe giocare l’europeo Under 18 (ve lo immaginate?), ma è capace, in una partita difficilissima, contro avversari assatanati che segnavano a raffica con tiratori dei quali il più piccolo era 2 e 05, di tenere la squadra in mano, di segnare un canestro fortunoso (Roda, mi sono incazzato con te come una iena! – mancavano più di quattro minuti e la Slovenia, lo ricordo timidamente, era avanti di 4: di che canestro fortunoso che ha deciso la partita di grazia parli!) che però intanto si deve segnare e poi, per farsi perdonare, di segnare in modo perfettamente legittimo un’altra tripla fondamentale. Per non parlare della faccia che ha fatto quando ha subito i due falli nel finale che lo mandavano in lunetta per i tiri liberi, la faccia di chi è felice di poter tirare i liberi, tanto di sbagliarli non si parla. La faccia di Totti contro l’Australia o di Grosso nella finale quando sono andati a tirare i rigori decisivi, la faccia di quelli che non si pongono neanche la questione di poter sbagliare. E per non parlare della serafica risposta all’intervista in inglese della FIBA: “E ora, dopo questa vittoria?” “Niente, questa è andata, ora ce ne sono altre due ancora da vincere”. Pensandolo più che seriamente. E tutto questo da parte di uno che, come dice Dragić, suo compagno di camera, in albergo non fa che guardare cartoni animati o vecchie puntate di “Friends”.
In questi miei pezzi sono sette anni che tento disperatamente di far passare l’idea che essere un grande giocatore di basket prescinde in modo totale da numeri, statistiche e balle del genere. Le cose bisogna guardarle da una prospettiva molto, ma molto più alta e ampia, considerando in modo globale l’impatto di un giocatore sulla squadra nella quale gioca. E vedere un 18.enne che in modo naturale, al suo esordio (!), prende in mano la squadra con gli altri ben felici di dargli in mano il comando “filosofico” delle operazioni cambiando addirittura il carattere della squadra (la Slovenia di Spagna 2007 nel finale dell’altro ieri, con la Lettonia risalita da meno 13 a meno uno, con Porzingis che, purtroppo per noi, scusate il tifo, a un dato momento ha deciso di andare a giocare sotto canestro dove è stato peggio di Irma, si sarebbe sfaldata in un amen) è vedere veramente un giocatore di un’altra dimensione, un giocatore che nel terzo millennio non si è visto ancora. Poi, per le sue statistiche, può giocare meglio, peggio o addirittura male. Ma, ripeto, nel quadro generale queste sono cose totalmente insignificanti.
Contro la Spagna non sarei così ottimista come il ninyo maravilla. Anche se, pensandoci bene, la Spagna finora non ha ancora mai dovuto spingere al massimo e mostrare quale sia il suo plafond attuale. Se la Slovenia li fa correre e li stanca, viste le rotazioni che neanche loro hanno straordinarie, può scapparci la sensazione. Peter Vilfan, che fa il telecronista della TV slovena che ha i diritti e che trasmette le partite, ha detto in un’intervista che lui non teme la Spagna e che l’unica cosa che teme sono gli arbitri: scarsi e influenzabili dai nomi. Già Porzingis ha fatto il quinto e poi sesto e magari il settimo fallo senza che gli venisse mai fischiato, immaginarsi una leggenda come Pau Gasol che, se anche l’avversario gli dice solo buongiorno, se lo guarda male l’arbitro gli fischia subito il fallo a favore. Immaginarsi allora Vidmar che è brutto e grezzo (ma quanto utile e bravo!). Staremo a vedere. Devo dire che qualche speranziella ce l’ho.
Sull’Italia tornerò ancora, non vi preoccupate. Desidererei solo che le emozioni e il polverone si calmino per poter analizzare le cose a mente fredda. Ce ne sarà tutto il tempo.