La ragione per cui non scrivo più volentieri su questo blog è molto semplice. Mi rendo sempre più conto che sto vivendo una realtà parallela rispetto a quella che vive tutto il resto del mondo cestistico, per cui mi sembra che quanto io vedo, analizzo e poi elaboro per farmi un’opinione sia una cosa del tutto diversa da quella che la stragrande maggioranza vede attualmente. Per cui ho quasi pudore nello scrivere quello che penso, perché so che sarò vilipeso e deriso, o nel migliore dei casi compatito per la mia ormai irreversibile mentalità completamente fuori dai tempi nei quali viviamo.

Per esempio domenica scorsa c’era la finale dell’Eurolega, ma contemporaneamente c’era anche gara sette della serie fra Toronto e Miami. La finale dell’Eurolega, inutile che faccia il cinico, mi ha entusiasmato.

 

Si è visto tutto quello che il basket può offrire: una partita a scacchi nel primo quarto, un’espressione di basket celestiale, di quello che io credo sia il gioco del basket, con palloni che girano di tocco, con tutti i giocatori che si muovono nella direzione giusta, con assist meravigliosi nei secondi 10 minuti, poi nel terzo quarto il lato più oscuro, ma ugualmente affascinante del basket, la messa in campo di una pressione asfissiante da parte della squadra sotto nel punteggio che alla fine, dai e dai, scardina le sicurezze avversarie (non era certo difficile, direte voi, visto che era il CSKA, squadra nella quale i dioscuri del reparto dietro non sono proprio dei cuori di leone – fortuna che c’era Hrjapa, vero e indiscutibile MVP della finale) e mette in piedi una grande rimonta. E infine nel finale il solito dramma punto a punto con la squadra che non meritava di vincere che quasi vince, ma con quelli che erano stati i migliori che miracolosamente arrivano al supplementare (a proposito, per me il tiraccio di De Colo negli ultimi secondi lo avrebbe dovuto eliminare automaticamente da ogni possibile scelta dell’MVP), supplementare nel quale anche grazie a alcuni fischi arbitrali a favore (qui penso che Obradović abbia perfettamente ragione, soprattutto il clamoroso fallo a centrocampo non fischiato su Sloukas in un momento estremamente delicato) poi allungano di nuovo e vanno a vincere. Con tutte le storie magnifiche che si possono raccontare al contorno: la storia di Dimitris Itoudis, nato e cresciuto nel mito di Galis (che, pare, riuscisse a emulare molto bene come giocatore nei vari tornei di street ball ai quali partecipava durante gli studi croati), che, analitico fino al midollo già da giovane, passa al computer i piani di studio di varie Università europee per i suoi studi di cinesiologia scegliendo alla fine l’oscura Università di Zagabria, alla quale si presenta conoscendo alla perfezione la lingua croata dopo un anno di studio intensivo, studi che poi completa con lode cominciando nel frattempo il suo lavoro di assistant coach presso varie squadre zagabresi, e poi dopo varie vicissitudini come diventa assistant coach di Obradović al Panathinaikos diventando prima il suo braccio destro e poi amico e confidente e di come alla fine si compia ancora una volta la favola dell’allievo che supera il maestro. Roba che se fosse in America starebbero già girando un film. Oppure ancora la storia della redenzione di Teodosić che alla fine si toglie la patina del sempiterno perdente anche con giocate chiave (assist per il backdoor di De Colo nel finale, azione chiave oppure l’assist per Hines nel supplementare) senza forzare quasi mai, pur essendo braccato dagli assatanati difensori turchi (pardon, in maglia di una squadra turca) e patendo per ragioni ormai ineliminabili del suo gioco la pressione asfissiante dei difensori avversari, ma pur sempre utile e anzi decisivo in molti momenti fondamentali. Per gli italiani c’è ovviamente la storia di Gigi Datome, purtroppo l’unica storia senza il lieto fine (finora…abbiate fede), pur avendo disputato una stagione magnifica e anche una Final Four magnifica, cosa testimoniata dal fatto che, mentre Obradović sbraita su tutti i giocatori che commettono errori (e su sciagura Bogdanović, secondo me il colpevole numero uno della mancata vittoria del Fener, aveva di che sbraitare) quando a fare un errore è Datome (e ne ha fatti: tipo un clamoroso coast to coast in semifinale con palla persa per strada o due dormite sui tagli backdoor in momenti molto importanti) il coach gli riserva solo una compita e comprensiva ramanzina spiegandogli educatamente che forse avrebbe potuto fare meglio. Sintomo questo che per il coach serbo Datome “è” giocatore di basket e dunque con lui si può parlare praticamente da pari a pari.  Secondo me questo è il massimo dei complimenti possibili. Pensiero malefico: succederà lo stesso al Preolimpico quando in squadra ci saranno tanti altri galletti molto più chiassosi e forse anche presuntuosi? Speriamo di no.

E mentre uno si riappacificava con il basket vedendo finalmente una grande partita come quasi non sperava che potesse più vedere, durante le pause di questa stessa partita, pause interminabili soprattutto perché Lamonica nel finale la faceva un po’ fuori dal vaso andando a controllare all’instant replay ogni stupidaggine (che sia però ben chiaro, per quanto possa averla con lui per quell’innominabile Spagna-Croazia del 2005 che non gli perdonerò mai, ha arbitrato veramente bene una partita pressoché impossibile) ma anche perché i VIP russi a bordo campo menavano a volte un po’ troppo le mani, il telecomando andava a finire su Toronto-Miami. Che dire? Dirò solo che dopo due, massimo tre azioni di questa partita, il suddetto telecomando virava su qualche altra emittente in puro stile zapping. Posso dire che quella partita, soprattutto perché era in contemporanea con quella che ritengo una vera partita di basket, mi sembrava un’esibizione di qualche altro sport e che aveva per me l’attrattiva di un over di cricket? Se non lo posso dire ditemelo che cambio sport. 

E’ ovvio che mi chieda di continuo perché ciò mi accada, tornando anche a quanto detto all’inizio. Alla fine vengo alla conclusione che mi manca nel basket moderno di oltreoceano il concetto di sport di squadra. A prevalere sono le individualità, questa è la squadra di quello, questa è la squadra di quell’altro, Tizio con i suoi scudieri va alla caccia dell’anello, eccetera, e in campo si vede appunto Tizio con i suoi alla carica con Tizio che per elezione fa quello che vuole, cagate galattiche comprese che, visto che le ha fatte lui, sono state scelte discutibili, mentre se le fa un altro vengono chiamate con il loro vero nome, con Caio che fa da spalla e tira quando Tizio glielo permette, gli altri portano acqua ai fenomeni, il gioco di squadra si riduce a una penetrazione di Tizio con imbucata e tiro o scarico quando non ne può fare a meno, preferibilmente a Caio, mentre gli altri per avere la palla devono andare a rimbalzo, salvo poi ridarla subito a chi di dovere, oppure, massimo del gioco corale, Caio che palleggia (e palleggia, e palleggia…) mentre Tizio prova a liberarsi su tutti i blocchi possibili che gli fanno gli altri. E allora perché sono tanto più forti? Inutile che ripeta la similitudine dei pesi welter contro i supermassimi, tanto mi sembra che nessuno la capisca. Dico solo che lì hanno fisici tali, per cui qualsiasi cosa facciano, addirittura certuni con la tecnica più rudimentale che possa esserci, la fanno a velocità tale per cui semplicemente arrivano prima e più in alto. Tutto qua. Perché io però dovrei apprezzare ‘sta cosa mi rimane un mistero.

Non commenterò dunque i playoff NBA proprio perché sono una voce totalmente fuori dal coro e dunque è inutile che parli. Tanto più che, per le ragioni appena esposte, non guardo le partite. Mi basta la piccola riunione il mattino al lavoro con Tommaso che mi fa il resoconto di quanto successo la notte, resoconto che, conoscendo l’uomo, so che è obiettivo e più che affidabile. Può comunque testimoniare che in tempi non sospetti gli ho detto che ero molto curioso di vedere come i fenomeni paranormali di Golden State avrebbero reagito a squadre che avrebbero messo le mani loro addosso, nei momenti cioè nei quali le difese diventano “vere”, in quanto si gioca per vincere e non per fare spettacolo. Le prime partite contro Oklahoma non sembrano dare responsi proprio confortanti, però per dare un giudizio definitivo bisognerà comunque attendere la fine dei playoff, dopo di ché, ma solo allora, sarà possibile fare i conti. Certo è però che, per quanto chi mi segue trasecolerà a quanto sto per dire, è difficile dare torto a Westbrook quando dice: “Curry? Un grandissimo tiratore. Niente che non abbia già visto.” Esagera? Certo, perché Steph è forse il più forte tiratore di quest’epoca, ma nella sostanza non si può che essere d’accordo con lui.

Guardo comunque i playoff in Italia e dunque, a chi interessa, qualche considerazione. Quest’anno non ho ancora scritto di basket italiano e dunque dico appena adesso che il mio tifo più sfegatato, un tifo che in vita mia mai avevo fatto per una squadra italiana, è per Reggio Emilia. Perché? Forse perché sono stato ospite da loro e mi hanno regalato una forma di parmigiano che centellino a milligrammi ricordando sempre il naufrago dell’ Isola del Tesoro che ne portava un pezzetto in un medaglione sul petto? (Forse anche), ma soprattutto perché semplicemente hanno preso i giocatori che avrei preso io se fossi stato il loro DS, da Aradori a De Nicolao, a Stefano Gentile, perfino a Veremejenko che era da anni che mi chiedevo perché non lo avesse mai preso qualcuno in Italia. Se in mezzo avessero Kirk di Pistoia sarebbero la mia squadra dei sogni. Forse bastava comunque che tenessero Cervi (i più informati mi spiegherete il retroscena della sua cessione che, a quanto ho – poco – capito, è abbastanza complicato), ma che soprattutto non lo dessero a Avellino, perché potrebbe essere proprio quello che li affosserà in questa magnifica serie che è estremamente equilibrata e dove, anche ovviamente per merito di Avellino che sembra aver trovato una perfetta chimica di squadra, si vede del bellissimo basket, ma soprattutto un basket sano, senza stronzate, dove si difende come Dio comanda di squadra, dove si corre in contropiede quando serve, dove si prova a girare la palla, nel quale tutti giocano per far vincere la squadra e non per far numeri. Gara tre che ho visto l’altra sera è stata veramente magnifica, come del resto le prime due di Reggio.

Lo dico adesso e so benissimo che sarò clamorosamente smentito e che dunque tutti mi prenderanno in giro, ma la mia netta impressione è che Reggio-Avellino sia la vera finale anticipata. A meno che Milano non trovi improvvisamente un gioco e che le sue palle lesse individualiste non cambino di colpo mentalità mettendo in campo quello che in questa stagione mai hanno dimostrato di avere. Milano mi sembra la classica squadra dove si prendono i giocatori a un tanto al chilo, leggendo numeri aridi e irrilevanti, giocatori che poi formano un puzzle che neanche John Wooden o Greg Popovich o Aca Nikolić riuscirebbero a risolvere, in quanto per formare una vera squadra dovrebbero praticamente ripartire dall’inizio, tenendo qualche giocatore, spedendo via altri e mettendo assieme i pezzi indipendentemente dalla piazza che richiede i grandi nomi. Però…, chissà come, tutti quelli che a Milano sembravano pippe bollite, quando se ne vanno via rinascono, tipo Bouroussis che quest’anno per mezzo canestro non ha portato praticamente da solo Vitoria alla finale di Eurolega.  E dunque qualcosa non quadra a livello di Società. Devo confessare che da quando ha lasciato la panchina di Milano non vedo più Luca Banchi. Sarei curiosissimo che a quattr’occhi (e soprattutto orecchie) un giorno potesse farmi un po’ il resoconto di come sia stato il suo periodo a Milano. Senza censure. Che Milano faccia figure come quella fatta in gara tre a Venezia è inconcepibile, imperdonabile e indecente. Contro una squadra sicuramente adesso in piena salute, ma con voragini lampanti nel gioco (asse play-centro: va bene che tutti giochino tutto quando si gioca contro ectoplasmi, ma, ricordando anche quanto detto sopra su Golden State, bisogna poi reggere l’urto di squadre che fanno la faccia feroce) e che, almeno a occhio, sembra almeno di un gradino inferiore tanto rispetto a Reggio che a Avellino.