Ovviamente, vista la piega che ha preso la “discussione” su questo blog, e visto che la mia opinione l’ho ripetuta fino all’esaurimento, è inutile, e dunque non vedo il motivo di farla, un’analisi sull’Europeo di basket. Per chi vuole sapere cosa ne penso si procuri l’ultimo Superbasket e legga. Non è che cambi parere se scrivo per un giornale o sul mio blog. Potevate venire alla sconvenscion, lì sì che ho parlato fuori dai denti.

Se scrivo è solo per fare un commento e una mia riflessione su quanto ho visto scritto negli ultimi commenti, o per meglio dire nello scambio di insulti fra Franz e Roluk. Quello che segue non avrà nulla a che fare con il basket, non solo, ma sarà farcito di note autobiografiche, per cui vi avverto che non occorre che leggiate avanti. Non dite dopo che non vi interessava. E’ solo un piccolo sfogo. 

 

Leggere cose tipo: "i serbi... il nulla totale in campo intellettivo e cerebrale" e dopo ancora: “sottolineo poi l'assoluta stranezza della liceità di ingiuriare l’Italia e gli italiani in questi lidi mentre un duro giudizio sui serbi crea liti, (per cui) rinnovo l’invito a rinunciare alla cittadinanza senza disturbare ancora” più che rabbia mi procura angoscia e tristezza. Normalmente sono una persona incline al pessimismo e reputo che il mondo sia per la stragrande maggioranza stupido e cattivo, ma che si possa in un Paese civile arrivare a simili bassezze di puro e semplice vuoto culturale mi sembrava impossibile. E’ che forse ho avuto insieme la fortuna e la sfortuna, per un altro verso, di nascere in un territorio di frontiera da matrimonio misto, per cui, essendo dalla nascita vissuto in due culture, mi sembra totalmente alieno che si possa pensare che ci possano essere graduatorie di capacità intellettuali dovute alla semplice appartenenza a questo o a quel popolo. Ognuno ha la sua cultura, la sua storia, la sua sensibilità su tutta una serie di cose che attingono alla vita sociale, ma le capacità emotive e intellettuali sono perfettamente una tutt’altra cosa. L’unica cosa sicura è che l’imbecillità e la cattiveria sono le caratteristiche più democratiche dell’umanità, in quanto non conoscono differenze di sesso, razza, colore della pelle o religione qualsivoglia, essendo spalmate in modo assolutamente lineare. E inoltre non riesco proprio a rendermi conto di come si possa concepire l’idea che criticare la gente alla quale tu stesso appartieni (nel mio caso per metà, o quasi, come dirò fra poco) sia un indice di alto tradimento e come riconoscere agli altri i loro meriti sia altrettanto disdicevole. L’identità nazionale che si sente come propria non ha nulla a che fare con presunte militanze in campi contrapposti, è semplicemente quello che gli americani definiscono “right or wrong, it’s my country”. Ed è qui che entrano in campo le note autobiografiche. Allora in breve: io nasco da padre sloveno con la famiglia (nonno e nonna) che per vicissitudini familiari si era trasferita a Trieste dalla località carsica di Dutovlje (Duttogliano sotto l’Italia), dove c’è ancora la casa natale di mio nonno (ora c’è un bar gestito da un mio secondo cugino) e di mia nonna (interessante, anche lei nata Tavčar), fra l’altro nel frattempo trasformata in museo (“Bunčetova hiša”), in quanto la famiglia di mia nonna era quella più benestante in paese e possedeva l’unica locanda-albergo del paese stesso. Mia madre era invece l’incarnazione stessa della triestinità, leggi bastardaggine di razze allo stato puro. Suo padre, Julius Lange, nonno Giulio, era nato a Vienna da una famiglia originaria dello Schleswig-Holstein e si era trasferito da piccolo a Trieste dove aveva poi sposato mia nonna, Erminia Parola, nata sull’isola dalmata di Cherso da famiglia di origine chioggiotta. In casa nostra, nella quale viveva anche la nonna Michela, la mamma di papà, o per meglio dire noi vivevamo in casa sua, si parlavano due lingue in modo corrente, papà con nonna in sloveno, papà con mamma in dialetto triestino, papà con me in sloveno e io con mamma in dialetto. Mamma aveva quattro fratelli e una sorella, tutti almeno di 12 anni più anziani di lei (come ebbe a dire una volta lo zio Oscar a mia mamma: “taci tu, ultimo errore senile dei nostri genitori!”), tutti cresciuti in ambiente italiano, totalmente estranei al mondo della minoranza, per cui da parte di mamma, frequentando moltissimo gli zii, tutti persone straordinariamente squisite che mi volevano un sacco di bene, ero totalmente immerso, per così dire, nell’italianità di Trieste e nella cultura che da ciò ne derivava, non solo, ma due dei miei zii erano stati fascisti convinti e uno di loro aveva combattuto nella seconda guerra mondiale con le armate italiane in Jugoslavia (e incidentalmente solo una volta accennò alle bruttissime cose a cui aveva partecipato). Dall’altro canto mio papà, come tutti gli sloveni di Trieste, era stato da fin da piccolo forzato a dover parlare la sua lingua materna di nascosto e a dover frequentare le scuole italiane, essendo state soppresse quelle in lingua slovena, cosa che non fece che rinfocolare il suo, diciamo così, ben poco benevolente atteggiamento verso tutto quello che più che italiano (distinzione che fece già da molto giovane) era fascista, cioè biecamente nazionalista. Infatti per tutta la vita si era vantato di non aver mai indossato la divisa fascista, essendo riuscito a marinare tutte le adunate dell’obbligatoria Gioventù fascista nelle quali era obbligatoria l’uniforme. Una sorella di papà, di sei anni più vecchia, a 16 anni era emigrata a Vienna per lavoro presso una sua zia e si stabilì lì sposando un tale Otto Schartel e mettendo su famiglia. Il quale zio Otto durante la guerra fu autista della Waffen SS, essendo lui nazista convinto, e si era fatto tanto la campagna di Russia che quella di Jugoslavia. Ciò comunque non rovinò affatto i legami familiari, anzi mio papà e suo cognato, malgrado le convinzioni politiche diametralmente opposte, furono per tutta la vita grandissimi amici. Negli ultimi anni del secolo scorso, durante una mia visita a Vienna, andai con la zia di sera in uno di quei tipici locali viennesi che per i turisti stanno a Grinzing, mentre per i viennesi veri sono da tutt’altra parte, e parlando del più e del meno si scivolò, non so come, a parlare della guerra e lei cominciò a raccontarmi convinta che l’Olocausto era stato pompato a arte, che era tutta una manovra degli Ebrei, cosa che mi lasciò trasecolato, per cui ovviamente troncai subito il discorso passando ad altro.

Tutto questo per dire che io, come tantissimi altri triestini, ho vissuto dalla nascita tutto lo spettro possibile tanto culturale che politico che ci sia, cosa questa che mi fa vedere i vari nazionalismi come cose che letteralmente non riesco a comprendere, perché proprio non vedo da cosa potrebbero nascere se non dall’ignoranza e dalla limitatezza mentale più bieca che può essere sì comprensibile per le persone che non nascono sulla frontiera come noi, ma che comunque poi necessita di uno sforzo intellettuale per superare questi handicap culturali che noi non abbiamo. Da questo fatto dico che ho avuto fortuna a nascere a Trieste, avendo avuto dalla nascita una visione superiore, stereoscopica quasi, sulle diversità e contemporaneamente sui meriti e difetti di varie culture che però, e questa è la grande lezione che a noi viene inculcata spontaneamente dalla nascita, non sono una meglio dell’altra o viceversa. Semplicemente sono diverse e prendendo il meglio da ambedue, e infatti conoscendole entrambe puoi vedere meglio i pregi e i difetti di una paragonandola all’altra (per questo parlavo di stereoscopia), non puoi che migliorare e arricchirti. Questa è la fortuna, dicevo, la sfortuna risiede invece nel fatto che per lungo tempo non sai chi sei, mancandoti riferimenti precisi e radici ben visibili che per il corretto sviluppo della personalità di ciascuno di noi, con le sue tradizioni, i suoi riti, con l’approfondimento del senso di appartenenza, sono, per quanto non sembri a chi queste cose le ha dalla nascita, molto importanti. Concretamente la mia identità l’ho decisa per caso in quarta liceo, quando un giorno, facendo i compiti in casa, studiavo per l’ora di italiano la storia delle guerra del 1866 con la disfatta di Custozza, e subito dopo, per l’ora di sloveno, dovevo studiare una poesia di un autore che a un dato momento fa dire al suo eroe: “Neanche a Custozza ebbi tanta paura!” significando ovviamente che aveva preso parte a quella battaglia con l’esercito austriaco. Mi misi a pensare: “ma tu, Sergio, a Custozza hai vinto o hai perso? A chi vanno le tue simpatie?”. Alla fine decisi che a Custozza avevo vinto e da lì nacque la mia identità nazionale di appartenenza che non mi ha poi più abbandonato per tutta la vita. Conosco comunque tantissimi altri triestini che di fronte allo stesso dilemma hanno fatto, in modo del tutto legittimo e comprensibile, la scelta opposta. Quello che voglio dire in definitiva è che il senso di appartenenza nazionale e di identità culturale, come sappiamo sulla nostra pelle noi triestini, è una scelta difficile e dunque, una volta acquisita, tanto più preziosa. E che comunque questo processo non recide in nessunissimo modo i legami che hai con l’altra cultura, essendo essa stessa parte di te dalla tua nascita. Piange dunque il cuore leggere rozzezze tipo quelle citate sopra che dimostrano come chi le scrive non ha neanche l’idea di dove si comincia e di che profondità sia un processo del genere. Solo se ci si sforza di studiare, di capire, di conoscere, si può comprendere cosa pensa l’altro e, chissà, magari anche capire il suo punto di vista nonché magari arrivare alla conclusione che un cervello ce l’ha pure lui e non è affatto detto che sia peggiore del nostro solo perché lui è lui e noi siamo noi. Quanto meno razzismo, quanto meno nazionalismo, tutto sommato quante meno guerre ci sarebbero se solo la gente si conoscesse meglio.