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Lo sport della minoranza slovena in Italia
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Gli inizi dello sport della minoranza slovena in Italia risalgono ai primi anni ’50 ancora sotto occupazione alleata. Ovviamente le associazioni slovene aderivano tutte all’UCEF, il “CONI” filo jugoslavo del TLT al quale per esempio aderì anche il Ponziana calcio che infatti giocò un anno nella massima divisione jugoslava (contro Partizan, Zvezda, Dinamo! – prendendo paghe paurose). All’inizio l’attività si concentrò esclusivamente nel comprensorio di Via di Guardiella dello stadio Primo maggio che era un’area di proprietà della minoranza slovena come tanti altri edifici o comprensori sparsi sul territorio e restituiti alla minoranza come riparazioni ai danni di guerra (iniziata dall’Italia con l’invasione della Jugoslavia il 6 aprile del ’41, ma la gente in Italia sembra dimenticarlo…). Si trattava di poca roba a cura di alcuni entusiasti che, oltre all’atletica leggera, praticavano come sport di squadra solamente la pallavolo, visto che fra i maggiori entusiasti, capitanati dal professore di ginnastica Bojan Pavletič, poi anche mio professore alle inferiori, quasi tutti erano pallavolisti sfegatati. Con gli anni e sotto la guida di leggende del nostro sport quali il professor Franko Drašič o Ferruccio detto “Učo” Jurkič, l'allora unica associazione sportiva della minoranza che agiva nell’ambito dello stadio Primo maggio, l’Unione sportiva Bor, mise in piedi una sezione molto importante di pallavolo, sia maschile che femminile, approfittando del fatto che tutti i ragazzi sloveni che volevano praticare qualche sport, o praticavano la pallavolo, oppure dovevano andare in qualche squadra italiana, dove a quei tempi non erano visti proprio di buon occhio, per cui la base era amplissima. Ebbero anche molta fortuna, in quanto la mitica famiglia di venditori di articoli sportivi Veljak di San Giacomo produsse due fortissimi giocatori, uno era Sergio, poi anche nazionale italiano con la squadra di Firenze, e il secondo suo cugino Valter che è stato fra l’altro da ripetutamente ripetente (scusatemi, ma rende l’idea) anche mio compagno di classe in quinta liceo pur essendo di quattro anni più anziano di me. La squadra femminile inoltre fece addirittura una puntata di una stagione nella Serie A italiana (la concorrenza era però allora ridicola).
Con gli anni l’attività sportiva nella minoranza aumentò esponenzialmente, espandendosi soprattutto dove gli sloveni erano nettamente di più, leggi sul Carso. La pallavolo non fu più l’unico sport di squadra, in quanto proprio sull’altipiano nacquero in rapida successione società locali di calcio, dapprima il Primorje a Prosecco, poi il Vesna a Santa Croce e infine il Breg a Dolina. Poi nacquero tante altre (Zarja, Primorec, Kras, Gaja…), ma le prime tre furono queste. Intanto però il Bor continuava a reputarsi l’”unica vera” realtà dello sport sloveno (e, ahimé, continua a farlo ancora adesso dopo tanti anni facendo figure patetiche, ma è purtroppo ancora e sempre supportato dalle strutture politiche che vogliono per precisa scelta che il cuore dello sport della minoranza rimanga in città), per cui soffocava senza pietà qualsiasi timido tentativo che qualcuno potesse fare sull’altipiano o in periferia di fondare una sua società sportiva (i calciatori erano visti a parte come “traditori” della causa, visto che per la maggior parte i loro giocatori erano di etnia italiana – è difficile mettere insieme 11 giocatori buoni cercandoli in una ristretta cerchia di persone).
A questo punto però successe una cosa fondamentale, nel senso che il Bor, per incrementare la base dei suoi sportivi, ebbe un’idea in sostanza geniale, ma che alla fine si rivelò un fantastico sparo nei propri piedi, come si dice in America. Il professor Pavletič mise in piedi quelli che nelle prime edizioni furono chiamati “Giorni dello sport sloveno” e che poi diventarono, per l’enorme successo riscosso, addirittura “I giochi sportivi sloveni”, riservati a tutta la minoranza in un numero sempre maggiore di sport, non solo dunque la pallavolo. Fu così che a metà degli anni ‘60 fece la sua comparsa nel quadro delle “Slovenske športne igre”, a noi notissime con l'acronimo “SŠI”, anche il torneo di basket. Il Bor non partecipava ai giochi con una sua formazione (si riteneva la “nazionale”), per cui i suoi atleti, leggi pallavolisti, si aggregavano alle varie formazioni di quartiere in città o di paese sull’altipiano, normalmente emanazioni di associazioni culturali, che si assemblavano su base del tutto volontaristica per combattere derby sentitissimi contro il paese o il quartiere vicino. A Trieste per esempio la massima rivalità era fra i circoli Škamperle di San Giovanni e Cankar di San Giacomo, i due più importanti agglomerati sloveni di Trieste (istituto commerciale e Primo maggio a San Giovanni, ex media inferiore unica – da me ancora frequentata - e Primorski a San Giacomo), mentre è inutile rimarcare come a Prosecco l’unica cosa importante era battere Santa croce o Aurisina o di converso a Trebič battere Padriče o Bazovica e viceversa. Opicina in tutto questo, da vera metropoli centrale dell'altipiano, era un caso a parte, in quanto era un paese totalmente a-calciofilo, nel senso che a causa dell’occupazione americana, con relativa creazione del magnifico diamante che c’è ancora, lo sport eponimo del paese era il baseball con la società locale, l’Alpina, che giocava con successo nella massima serie italiana. Di altri sport non si parlava neppure.
Per il basket però, quando finalmente apparve, riuscimmo ad organizzarci bene. A parte il sottoscritto, fanatico di basket da sempre, avevamo come atout due giovanotti che noi adolescenti o quasi vedevamo come maturi signori, uno era un laureando in ingegneria che aveva giocato in una squadra italiana, e uno era addirittura il figlio maggiore del pittore Lojze Spacal, Savo, che era andato a Lubiana a studiare medicina e ovviamente, quando uno è a Lubiana, città di basket come non ce ne sono altre al mondo, lo dico con grande convinzione, non può che appassionarsi a questo sport. Purtroppo però per essere competitivi eravamo ancora troppo scarsi, in quanto il circolo Škamperle di San Giovanni, già nominato, aveva nelle proprie file il Dončić dell'epoca, circondato dalla maggior parte dei pallavolisti del Bor con qualche infarinatura di basket (fra i quali Radovan Fučka, zio di Gregor) che dal punto di vista atletico erano imbattibili. Il fenomeno dei poi vincitori a mani basse del torneo era un ragazzo di Doberdob nel goriziano, di nome Branko Lakovič, appena diplomatosi all’Istituto tecnico commerciale (dove fra l’altro mio padre insegnava inglese), che era un appassionato di basket che praticava attivamente in una squadra italiana, visto che di pallavolo non voleva sentir neanche parlare. Allora stava per iniziare la sua leva in marina che l’avrebbe portato in giro per l’Italia anche e soprattutto a giocare a basket nelle varie squadre delle città dove faceva base, esperienza che gli fu successivamente di grande aiuto. Aveva un bel fisico, non alto, ma molto ben piantato, un’eccellente tecnica e un ottimo tiro, ed era l’unico vero “professionista” del basket di tutta la nostra minoranza.
Al primo torneo di basket dei Giochi parteciparono solo quattro squadre, se ben ricordo, ma lasciò un segno importantissimo. Branko e il nostro Savo Spacal vennero a contatto e con Savo che stava per ritornare a Trieste dopo aver finito gli studi decisero che era venuto il momento di mettere in piedi nell’ambito del Bor anche una sezione basket. Così nel 1966 nacque ufficialmente la sezione basket del Bor che immediatamente si iscrisse al campionato di Promozione (la prima divisione non esisteva ancora) con in squadra, oltre a Branko e Savo, un gruppo molto giovane di entusiasti neofiti, fra i quali anche Peter Starc, figlio di un notissimo medico della minoranza e poi medico anche lui (i suoi fratelli Ivo e Damir furono poi anche loro due cestisti molto bravi), molto dotato per il basket, che infatti anni dopo fu adocchiato anche da alcune squadre italiane di vertice. All’epoca però era appena 15-enne, quindi non certamente un fattore. Io mi ricordo che andavo sempre a vedere le loro partite in Via della Valle aggiornando il tabellone segnapunti. All’epoca non giocavo ancora a basket, ma a tennis tavolo, anche se la mia più grande gioia era quando tiravo da solo a canestro durante le pause dell’allenamento allo stadio Primo maggio. Dopo la prima stagione Savo e Branko decisero che la loro gestione comune quali allenatori non andava bene e Branko riuscì a convincere il suo amico Mario Mari ad abbandonare le ragazze del Mivar di Muggia (con le quali era stato campione d’Italia junior) per prendere in mano il Bor. Mario, poi diventato per tutti noi una specie di padre-leggenda, accettò con entusiasmo, in quanto, pur non parlando una sola parola di sloveno, si riteneva un membro a tutti gli effetti della minoranza, ricordandoci sempre che il nome originario della sua famiglia era Ukmar, poi storpiato dai fascisti.
Per quanto vale (nulla) anche il sottoscritto quell’anno si dedicò definitivamente al basket (a metà stagione) ovviamente senza lasciare alcun segno tangibile della sua presenza. Dopo un buon campionato, terminato nelle posizioni alte di classifica, si aprì uno spiraglio a causa di alcune defezioni e il Bor, senza colpo ferire, si trovò addirittura in Serie D, all’epoca ancora più selettiva dell’attuale C gold. Giocavo anch’io e ogni tanto riuscivo a entrare nel roster dei 12 per la partita, per cui mi ricordo di trasferte a Thiene e Novellara, tanto per dire. Non fu un grande campionato e la squadra retrocedette, ma l’esperienza maturata fu enorme e lo sviluppo cominciò a divenire sempre maggiore, sia di qualità, ma soprattutto di quantità.
E qui ci fu il passo decisivo, conseguenza del famoso sparo nei piedi a cui accennavo sopra. I Giochi ormai a metà degli anni ’60 avevano tanto successo che nei vari paesi dell’altipiano la spontanea aggregazione dei ragazzi per parteciparvi (noi per esempio a Opicina per allenarci in atletica avevamo preparato un campo in piena regola su un prato abbandonato, mentre per il nuoto organizzavamo sessioni di allenamento alla piscina Bianchi nelle ore aperte al pubblico) portò all’inevitabile nascita dell’idea di formare a questo punto una società sportiva in piena regola. Noi a Opicina, dopo una trionfale edizione dei Giochi nei quali fummo secondi dietro al fortissimo circolo culturale (e poi sportivo) Sokol di Aurisina, nel settembre del 1967 ci riunimmo in sessione solennemente costitutiva della nuova società sportiva che per decisione dell’assemblea stessa, su proposta del poi inevitabilmente presidente Egon Kraus, mammasantissima della vita politica e economica non solo di Opicina, ma di tutta la minoranza filo jugoslava, quella che riceveva i soldi da Belgrado (SKGZ), venne chiamata Società Sportiva Polet. Io, malgrado avessi neanche 18 anni, fui subito eletto nel Consiglio direttivo (mi ero messo in mostra come organizzatore e animatore della sezione nuoto, mio secondo sport, nel quale vinsi ai Giochi molte medaglie, fra le quali anche un oro). Praticamente in contemporanea nacquero come funghi in quasi tutti gli altri paesi nuove società sportive, per esempio il Kontovel che poi ebbe un’importanza decisiva nello sviluppo del nostro basket, mentre quelle che fino a quel momento avevano avuto solo il calcio, e segnatamente Zarja di Basovizza, Gaja di Padriciano e Kras di Sgonico allargarono la loro attività anche ad altre discipline, tanto che per esempio il Kras divenne famoso in tutta Italia per i suoi successi nel tennis tavolo. Il Bor dunque ottenne come effetto del suo astuto tentativo di reclutare per sé nuovi sportivi quello di veder nascere tutta una serie di nuove società che immediatamente cominciarono a discutere sul perché e secondo che tipo di investitura il Bor si arrogava il diritto di essere la società guida della minoranza. E infatti cominciò ad esserci sempre più concorrenza con, anzi, le società appena nate che tentavano quasi per ripicca di fare le cose meglio di quanto non riuscisse a fare il Bor che, pure, ricordo, aveva dietro a sé tutta la struttura socio-economica dominante della minoranza. Tutta con l’eccezione decisiva di Egon Kraus al Polet, persona scomparsa da circa 15 anni che però, più passa il tempo, più riconosco come il vero deus ex machina dello sviluppo di tutto il nostro sport, straordinario politico e stratega che a quei tempi nessuno di noi amava particolarmente per i suoi modi di fare superiori, autoritari e in definitiva arroganti.
Dopo un anno nel quale la società mosse i suoi primi passi senza una particolare direzione, all’inizio della stagione successiva la nostra dirigenza decise di cambiare rotta fondando due sezioni, pallavolo e basket, per le ragazze (i ragazzi, ricordo, giocavano quasi tutti a baseball) e subito dopo mise in piedi la sezione di pattinaggio artistico a rotelle che poi ottenne straordinari successi con addirittura due campioni del mondo, Samo Kokorovec fra i ragazzi e Tanja Romano fra le ragazze. Io, a neanche 19 anni, mi misi alla guida della sezione basket e, devo dire immodestamente, dopo un inizio a livello quasi carbonaro, in un anno riuscii a coinvolgere un cospicuo numero di ragazze mettendo in piedi addirittura due squadre, una delle classi ’55 e ’56, e l’altra del ’57 e più giovani (fra le quali c’era anche Liliana Fučka, cugina del padre di Gregor). Quello che reputo il mio grosso successo fu un minuscolo fatto politico, quando nel campionato allieve giocammo una partita contro la Ginnastica Triestina nella sua mitica palestra ricolma di riferimenti irredentistici e patriottici e prima della partita nell’augusta palestra risuonò il blasfemo “trikratni zdravo” (tre volte salute) con il quale salutammo le avversarie, prima volta che l’aborrita lingua degli schiavi risuonava in quel sacro luogo (negli anni precedenti quando la Ginnastica doveva giocare contro il Bor si giocava in campo neutro – i tempi erano ancora quelli).
Il successo riscosso dalle ragazze fece sì che i loro compagni maschi di classe cominciarono anche loro a interessarsi a questo sport, ma la società era riluttante a mettere in piedi anche la sezione maschile per non urtare troppo la sensibilità di quelli del Bor. I ragazzi però non si dettero per vinti. Convinsero il loro professore di ginnastica Zadnik a iscrivere una squadra della scuola al torneo per scuole medie inferiori e mi chiesero di dare una mano in panchina durante le partite. Mi accorsi subito che alcuni di loro erano molto dotati, per cui alla fine della stagione ’69-’70 riuscii a convincere i capi a acconsentire affinché fosse fondata anche la sezione maschile.
Fu una specie di valanga. Per i ragazzi del paese praticare uno sport in un ambiente locale dove si parlava in sloveno con il campo all’aperto proprio al centro del paese era una magnifica occasione anche per stare insieme e in pochissimo tempo mi trovai fra le mani addirittura due squadre con in prospettiva la possibilità reale di mettere in piedi anche una sezione di minibasket. Dovetti abbandonare le ragazze che furono affidate a un altro allenatore, giocatore del Bor, che però non riuscì a tenerle assieme e alla fine la sezione si disgregò nel mio più acuto dolore. Io però non avevo nessuna possibilità di badare a loro, in quanto, oltre al fatto di dover curare i ragazzi, stavo studiando ingegneria, non solo, ma molto in breve, nel marzo del ’71 (a 21 anni appena compiuti), cominciò anche la mia avventura di telecronista che poi doveva segnare tutta la mia vita successiva.
Ovviamente in tutta questa bagarre di continuare a giocare non se ne parlava neppure. Del resto che non fossi dotato fisicamente (ero molto lento e in compenso non saltavo) lo sapevo dal bell’inizio, per cui non fu un grande sacrificio.
La nostra crescita preoccupò molto quelli del Bor che però, onore al merito a Branko e Mario Mari, capirono che i tempi stavano cambiando, per cui arrivammo a un accordo, nel senso che avremmo collaborato in campo giovanile con scambio di giocatori secondo le necessità, salvo poi, una volta cresciuti, confluire tutti al Bor che unico avrebbe mantenuto una squadra senior. Devo dire che avevamo buonissime atout da giocare e infatti due nostri giocatori, Adriano Sosič e il figlio del big boss Edi Kraus, negli anni successivi furono importanti colonne del Bor e poi ancora la vecchia guardia dello Jadran che partecipò fino in fondo alla trionfale cavalcata di cui parlerò alla fine e che durante tutto questo tempo tenne a bada la nuova infornata di fenomeni che stavano crescendo.
Appunto: a 5 km da noi, dall’altra parte della Napoleonica, a Contovello stava crescendo una straordinaria generazione di ragazzi nati negli anni ’60 e ’61 che passavano tutti i giorni a giocare sul campetto della trattoria sociale e poi a riposare con lunghissime partite a carte. Lì da loro il catalizzatore del movimento era stato proprio quel Peter Starc nominato sopra che con l’aiuto del suo amico di Barcola Stojan Kafol aveva messo insieme un gruppo di ragazzi entusiasti, ma soprattutto con alcuni di loro dotati di un grandissimo potenziale. Oltre che su suo fratello Ivo Peter poteva contare su un magrissimo ragazzino che sembrava dovesse inciampare nelle sue stesse gambe di momento in momento, ma che intanto cresceva e giocava in modo divino capendo praticamente in modo istintivo tutto del basket, di nome Marko Ban, e su un bambino piccoletto dai tratti quasi medio-orientali, non per niente il suo soprannome era “Bosna”, fratello piccolo di un pallavolista del Bor, che di nome faceva Claudio Starc, che era però semplicemente una scheggia che si muoveva a velocità doppia rispetto ai suoi coetanei che infatti non solo non riuscivano a tenerlo, ma in campo praticamente non riuscivano neanche a vederlo. Aveva tecnica, tiro e intelligenza, per cui nei campionati di categoria se segnava meno di 50 aveva voluto dire che era stato in pessima giornata. Poi c’ era anche un lungo all’apparenza goffo nel quale non riponevano molte speranze, ma che era molto ben piantato fisicamente, un po’ lento, ma molto coordinato e con un’ottima mano, di nome Mauro Čuk. Forse anche da lui poteva uscire qualcosa di buono, si dicevano.
Con questa gente ebbi il primo impatto quando nel ’72 a Trieste ci fu un grande torneo per nazionali che si giocò all’aperto sul parquet del campo di sfogo del Grezar (insomma proprio dove ora sorge il Pala Rubini) in preparazione per i Giochi di Monaco e prima delle partite serali si giocava come aperitivo un torneo di minibasket al quale partecipò anche la selezione delle società slovene sotto l’egida nella neo fondata Associazione delle Società Sportive slovene (ZSŠDI), in sostanza il Polet con rinforzi dal Bor e dal Kontovel. Il Kontovel si presentò con Claudio e Mauro che furono assolutamente decisivi per la nostra vittoria al torneo letteralmente a mani basse. Fra l’altro anche noi del Polet avevamo un fortissimo ’61, il fratello di Adriano Sosič Valter, uno che aveva cominciato a 7 anni seguendo il fratello e che a mia memoria fu l’unico che facemmo giocare tutto un campionato sotto falso nome perché era ancora troppo piccolo, uno che di basket sapeva (e sa ancora) tutto, con l’unico difetto di non essere un tiratore, ma in fatto di compiti difensivi era straordinario sapendo sempre leggere prima quello che gli avversari intendevano fare, e che in quella occasione si integrò in modo favoloso con Claudio. Come poi del resto fecero in tutti gli anni gloriosi dello Jadran. In quella occasione Peter Starc continuò a lamentarsi con me che purtroppo avevano dovuto lasciare a casa il loro giocatore migliore, perché gravemente ustionato in un incidente casalingo. Pensavo che mi prendesse in giro, visto i due che aveva portato e che già di loro mi sembravano fortissimi, ma quando poi vidi all’opera Marko Ban capii subito che aveva detto la semplice verità.
Con la crescita di questa generazione del Kontovel noi del Polet non avevamo la minima possibilità di batterli (quelli del Bor non li calcolavamo neanche, per quanto anche loro avessero due molto bravi, Rado Race e Bruno Kneipp) fino a che non avemmo la nostra grande botta di sedere, anche se dovemmo aspettare fino alla primavera del ‘75. Successe che all’allenamento dei miei juniores si presentasse un giorno un ragazzo di oltre un metro e 90, neo compagno di classe di mio fratello (classe ’57), il quale lo aveva invitato ad allenarsi a basket, visto il suo fisico assolutamente devastante (una volta riuscì in vacanza, facendo una mossa di corpo, a sradicare dalle sue rotaie uno skilift – per fortuna non fu beccato). La sua famiglia, con la mamma originaria di Repen dove aveva ancora una casa, si era trasferita tanti anni prima in Australia, il padre aveva fatto fortuna come muratore e poi come costruttore e proprietario di immobili, per cui si erano ri-trasferiti a casa portando con loro anche i due figli, ambedue nati e cresciuti a Melbourne. E infatti al primo allenamento il ragazzo, di nome Milko Vitez, si presentò con una maglia senza maniche a righe orizzontali bicolori e, alla mia domanda su cosa diavolo fosse, mi rispose in dialetto con un fortissimo accento inglese: “E’ una maglia di football australiano, uno sport molto maschio”, sport che praticava e nel quale eccelleva. E si sa che per giocare a football australiano, o si ha un fisico della Madonna, o si viene triturati in campo.
Milko era, ed è ancora rimasto (fra l’altro sua figlia Sandra è stata nazionale italiana di pallavolo, vicecampionessa del mondo junior da opposto titolare, ma poi smise di giocare dopo l’aut-aut che le fece la dirigenza del settore squadre nazionali, o vieni al centro federale o non ti chiamiamo più, cosa che fecero quando lei decise che avrebbe continuato gli studi di farmacia) un ragazzo d’oro, buono come il pane, che mostrò buonissima attitudine per il basket ed infatti anche lui poi giocò nello Jadran, ma i suoi meriti maggiori per il bene del nostro basket fu quando riuscì a convincere il fratello minore Boris, di quattro anni più giovane e appassionato sfegatato di calcio, del quale era stato nazionale giovanile dello stato del Victoria, a provare a giocare a basket se non altro per tenersi in allenamento durante l’inverno. Un giovedì vidi arrivare all’allenamento della squadra cadetti questo ragazzo mai visto prima che si presentò come il fratello di Milko. Fisico all’apparenza normale, longilineo e ben strutturato, ma insomma tutto qua. “Hai mai giocato a basket?” “No, so solo che esiste e bisogna buttare la palla in un canestro.” Ben messi. Se voglio che si aggreghi alla squadra devo insegnargli almeno qualche cosa fondamentale, per cui lo prendo da parte e lo porto sotto un canestro lasciando gli altri a giocare una partitella sotto l’altro canestro. Tiro da sotto. Ciuff. Passo e tiro. Appoggio perfetto. Terzo tempo con un palleggio. No problem. Con più palleggi. Uguale. Palleggio, arresto e tiro. Riuscito al primo tentativo (segnando ovviamente). Già che ci siamo andiamo a sinistra per fare le stesse cose con l’altra mano. L’unico problema arriva al momento del tiro dopo l’arresto, quando mi sento chiedere: “Devo usare per forza la sinistra o posso magari tirare con la destra che mi riesce più facile?”. Il tutto dura non più di 10 minuti.
A fine allenamento partitella. Palla a due. Salta Boris che decolla, arriva mezzo metro più in alto dell’avversario e recapita la palla in mano a un compagno. Palla persa, azione per quegli altri che tirano, sbagliano, sul rimbalzo vedo un’altra volta decollare un elicottero che arpiona la palla, scatta in contropiede palleggiando perfettamente, stacca il più vicino avversario di circa 10 metri e deposita a canestro dopo un perfetto terzo tempo. “Ho fatto giusto?” mi sento chiedere. “Ottimo, domenica giochi”. Avversaria nella sfida al vertice l’Inter 1904. Perdiamo, ma, con un tifo sfegatato di Milko da bordo campo, Boris gioca 40 minuti e segna otto punti. Il turno dopo contro il Bor a Trieste ne mette già 32. E io so che ho per le mani di gran lunga il più forte giocatore che abbia mai allenato.
Il resto è storia, come si dice. Boris fece progressi giganteschi immediati, tanto che a 16 anni non ancora compiuti combinava stragi nel campionato di Prima divisione accumulando anche esperienza contro i vecchi marpioni di quel campionato, ragion per cui stabilimmo grazie a lui un rapporto di quasi parità con il Kontovel, anche se loro erano un pelino più forti. Però se non altro ce la giocavamo. E comunque sempre per il vertice triestino assieme a ben poche altre squadre, tipo Pall. Trieste, Ferroviario, Ginnastica, Inter 1904 o Ricreatori.
Le altre squadre slovene, Bor, Sokol e Breg erano anni luce dietro.
A dire il vero il caso del Bor era particolare. Branko Lakovič, che smise di giocare molto presto sia perché cominciò a accusare grossi guai fisici alla schiena che ancora adesso lo tormentano, e sia perché era sempre più occupato dal suo mestiere di giornalista, si dedicò anima e corpo a fare l’allenatore, non solo del Bor, ma anche della sezione basket del Breg di Dolina che contribuì a fondare (sempre secondo la vecchia idea di formare talenti da portare poi al Bor). Mise in piedi una fortissima formazione delle classi ’57-’58 (per dire contro di loro noi del Polet, malgrado non fossimo scarsi e avessimo il nostro “straniero d’Australia” Milko, non avevamo chance), sia al Bor che al Breg, e quando questa generazione arrivò alla categoria juniores fece un grandissimo campionato mancando di poco le finali nazionali, battuta dall’imbattibile Ginnastica Goriziana dell’epoca dei vari Jordan Marušič, Gregorat e Cortinovis. Anni dopo i due pilastri di quella squadra, il play Peter Žerjal e l’ala Robi Klobas, divennero a loro volta colonne dello Jadran in Serie C. Dietro però, per le classi successive, non c’era Branko e onestà vuole che si dica che i coach delle squadre giovanili di quelle classi non si rivelarono proprio delle aquile, o forse la situazione generale era cambiata, non lo saprei dire, fatto sta che da quella generazione in poi il Bor produsse molto poco, in verità. Ebbe ancora uno sprazzo quando forse casualmente trovò un’ eccellente generazione nella classe ’71-’72, ma per il resto, diciamo così, smise definitivamente di essere la nostra società di riferimento.
Tornando alla cronologia della metà degli anni ’70, e sempre parlando di Bor, a livello senior, dopo tutta una serie di buoni, ma tutto sommato anonimi campionati di Promozione, nel ’76 Branko Lakovič ebbe un’idea per far fare alla sua società un balzo in avanti. Contattò a Lubiana il giovane coach Peter Brumen e gli propose di trasferirsi a Trieste per prendere in mano tutto il movimento cestistico della minoranza con il fine di mettere in piedi una vera e propria “nazionale” slovena che prendesse il posto del Bor per ambire a maggiori traguardi. Il progetto fu approvato in una storica riunione di tutti i dirigenti delle varie squadre slovene nella nostra sede del Polet, ma il problema fu quando noi delle altre società arguimmo che, se i nostri giocatori dovevano andare a giocare nella “nazionale”, questa non poteva essere tout court il Bor, ma doveva essere creata una società nuova ad hoc. Però per la Federazione l’unica società ad avere il diritto di giocare in Promozione era il Bor, e dunque fu trovato una specie di compromesso, per cui la squadra si sarebbe chiamata per il pubblico Jadran, anche se per la FIP era sempre Bor. L’idea era di mettere in piedi per il futuro una squadra di questa nuova società che ottenesse il diritto di giocare in Promozione, alla quale poi avrebbe fatto capo tutto il movimento, nel senso che le società avrebbero mantenuto la loro indipendenza, salvo poi convogliare i migliori junior e senior nello Jadran, da considerarsi a tutti gli effetti la vera rappresentativa della minoranza slovena in Italia (Gorizia compresa, ovviamente).
La stagione fu ottima, ma purtroppo alla fine l’obiettivo dichiarato di ottenere la promozione in Serie D non fu raggiunto a causa di una drammatica sconfitta nello spareggio-promozione con la Servolana. A questo punto noi delle altre società reclamammo quanto pattuito l’anno prima, ma il Bor non volle saperne (cosa che ci confermò che l’anno prima erano stati in clamorosa malafede), per cui si venne a una totale rottura, ognuno per conto suo. L’idea però era già stata lanciata, per cui noi altri (tutti, meno Bor e Breg che era più o meno un’emanazione del Bor, ricordo), leggi Polet, Kontovel, Sokol e Dom Gorizia, supportati in pieno dall’allora dirigenza dello ZSŠDI nella persona del Presidente Vojko Kocman, importante imprenditore di Sgonico con moglie di Banne, dunque “nostro”, decidemmo di mettere in piedi il progetto Jadran. L’idea era quella di mettere in piedi una squadra senior con l’obiettivo, ampiamente alla nostra portata, di conquistare l’accesso alla Promozione e poi, una volta arrivativi, decidere su come andare avanti.
Il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi. Alla fine del campionato ci fu a Gorizia uno spareggio a tre fra le vincitrici dei tre gironi della Prima divisione con un posto in palio per la Promozione dell’anno dopo. Lo Jadran, cioè in sostanza il Polet con il gran rinforzo di Peter Starc, riattivatosi per l’occasione (ricordo che all’epoca aveva appena 26 anni), e di un ex giocatore del Bor, Boris Fabjan, diventato “carsolino” per matrimonio, non ebbe difficoltà a qualificarsi per il gironcino finale nel quale l’avversario da battere era il Mobilcasa di Cormons. Chi era la terza squadra? Era ancora il Polet (!) (coach il sottoscritto) con la sua squadra juniores che nel girone eliminatorio aveva preceduto in classifica il Kontovel. Come mai? Era successa una cosa estremamente preoccupante: l’anno prima Claudio Starc, ormai definitivamente nell’orbita delle nazionali giovanili italiane, nelle quali era titolare inamovibile, e Mauro Čuk avevano del tutto legittimamente optato per la carriera cestistica abbandonando il Kontovel per passare alla Pall. Trieste, allora Hurlingham. E Marko Ban? Lui no, lui era rimasto, ma aveva esitato fino in fondo se andare anche lui o no.
Nella partita decisiva contro Cormons gli arbitri, due fratelli di Monfalcone ai quali mai più ho rivolto la parola né mai più penso di farlo, arbitrarono in modo scandaloso a favore dei cugini isontini, e in più lo Jadran ci mise molto del suo, giocando in modo inguardabile, anche e soprattutto a causa delle decisioni cervellotiche dell’allenatore che avevamo ingaggiato, un tizio di Ajdovščina che, lo scoprimmo dopo, era in realtà un coach di pallamano (!) femminile che si dilettava anche come coach di basket. Risultato: perdemmo di uno al supplementare buttando nel cesso in modo assurdo l’ultimo attacco per la vittoria. A fine partita l’allenatore sparì misteriosamente e non lo vedemmo mai più.
Sembrava che tutto fosse andato a ramengo e nell’estate successiva eravamo tutti depressi al massimo. In più i nostri fenomeni si erano stufati di aspettare. Boris Vitez cominciò a frequentare assiduamente gli allenamenti della squadra junior della Pall. Trieste e perfino Marko Ban sembrava deciso ad andarsene. A questo punto io, Peter Starc e Stojan Kafol ci riunimmo e decidemmo che non poteva finire così. Nasca quel che nasca, avremmo messo insieme i nostri juniores rimasti ed avremmo comunque iscritto una squadra al campionato di categoria, sperando di mantenere almeno accesa la fiammella dell’idea che uniti si è più forti. Avemmo in ciò ancora una volta il supporto incondizionato di Vojko Kocman, per cui in una fatidica sera di fine estate del ’78 convocammo i ragazzi alla trattoria sociale di Contovello e facemmo loro questa semplice domanda: “Se ci mettiamo insieme e formiamo una squadra comune chi di voi rimane?” Ricordo ancora come se fosse oggi, fu uno di quei momenti che decidono in un istante le sorti per un lungo futuro a venire. Marko non ebbe alcun dubbio: “Se ci riuniamo io rimango, non si discute neanche.” E Boris, dopo averci pensato un attimo: “Se rimane Marko, rimango anch’io.” Lo Jadran delle meraviglie nacque in quel preciso istante, sotto gli ippocastani della trattoria sociale di Contovello, il “večer pod kostanji”, come lo chiamiamo ancora tutti dopo tanti anni, quando vogliamo essere patetici e sentimentali (leggi quando, da buoni sloveni, dunque slavi, abbiamo nelle vene la quantità sufficiente di alcool).
Le buone notizie non finirono lì: come se il destino volesse premiarci per le nostre virtù dopo pochi giorni avemmo la fantastica notizia che si era liberato un posto in Promozione che lo Jadran occupò quale primo avente diritto. Giocammo così sia fra gli juniores, ingaggiando una lotta titanica contro l’Hurlingham (con Claudio e Mauro, ricordo) vincendo sia noi che loro tutte le altre partite e facendo 1 a 1 negli scontri diretti, per cui ci volle uno spareggio nel quale furono purtroppo troppo forti, che fra i senior in Promozione, arrivando alla fine in testa a pari punti con la Servolana e il Jeans Corner di Muggia, per cui anche qui ci volle uno spareggio a tre che vincemmo alla grande grazie anche ai 43 punti con 19 su 21 al tiro che Boris Vitez (18 anni) sciorinò contro Muggia nello scontro decisivo. Per la promozione in Serie D (all’epoca passare dalla Promozione in D voleva dire superare un bel collo di imbuto) dovemmo giocare ancora uno spareggio, vinto senza soverchi problemi, contro l’Itala di Gradisca, vincitrice del girone goriziano (più 25 all’andata a casa loro, per dire). A dire il vero questo spareggio fu del tutto inutile, in quanto anche l’Itala fu promossa a causa dei soliti buchi che si vengono sempre a creare quando qualche squadra rinuncia nelle serie superiori.
L’ anno dopo ritornarono all’ovile sia Claudio che Mauro, per cui i rinforzi necessari arrivarono nelle vesti di cavalli di ritorno, per così dire. Sembra facile e normale che fosse così, ma per esempio Claudio Starc, a causa di questa decisione, dettata dal cuore e dal senso di appartenenza alla minoranza, dovette dare praticamente l’addio ai suoi sogni di una grande carriera. Era ormai il play titolare della nazionale juniores dopo aver vinto per getto della spugna il match interno con una guardia romana di nome Sbarra, che era però clamorosamente pompato da tutto l’establishment della FIP, ovviamente ferocemente romano-centrico, che Claudio regolarmente scherzava negli allenamenti propinandogli tunnel e veroniche appena poteva farlo. Quando comunicò a Dado Lombardi, coach di Trieste, la sua decisione, quest’ultimo tentò disperatamente di dissuaderlo facendogli capire che la sua carriera in nazionale poteva ritenersi finita, visto che così spianava la strada al cocco della Federazione, ma Claudio fu irremovibile. Ovviamente successe regolarmente quanto previsto e, infatti, se ancora oggi fate a Claudio il nome di Sbarra, gli viene immediatamente un violento attacco di itterizia.
Finalmente nella formazione più o meno standard che tutta l’Italia del nord-est ricorda ancora oggi con ammirazione e rispetto, con un paio di giovani prospetti che si stavano rapidamente facendo le ossa, un centro di Contovello dal nome di Roberto Daneu (Danieli, fra l’altro zio di Sandra Vitez nominata prima – come si vede la ragazza ha ereditato geni di eccellente fattura), e un’ala centro di Aurisina ex pallavolista di nome Sandi Rauber, e in attesa ancora che l’anno dopo arrivassero dal Bor i già nominati Peter Žerjal e Robi Klobas, lo Jadran iniziò nel ’79 la famosa e irripetibile scalata, diventata quasi leggenda a Trieste. In un anno dalla D alla C-2 e poi ancora l’anno dopo subito dalla C-2 alla C-1, e infine il primo anno di C-1 subito playoff promozione, persi di un soffio. Playoff promozione ai quali lo Jadran è approdato in ogni stagione che ha giocato in C-1 fino all’indimenticabile giornata nel 1986 di gara tre dello spareggio per la promozione in Serie B contro la Stefanel di Treviso, giocata al Palachiarbola di fronte a spalti gremiti (4000 spettatori!), trasmessa in diretta da Telequattro con la telecronaca di Giovanni Marzini e vinta alla grande nel tripudio incontenibile della gente. La successiva mega festa che per ovvie ragioni simboliche si organizzò nella trattoria sociale di Contovello fu un evento memorabile durato tutta la notte, nel quale alcool e cori di ogni genere si susseguirono incessantemente.
La Serie B all’epoca era una cosa serissima. Due soli gironi di 16 squadre ciascuno per tutta l’Italia e infatti il nostro impatto con questa realtà fu molto duro, malgrado ci fossimo rinforzati con lo “straniero”, leggi non sloveno della minoranza, Fabrizio Zarotti, centro di buonissima stazza, non un prodigio di tecnica, ma grande lavoratore e soprattutto ragazzo d’oro in tutti i sensi. Per dire la prima partita la giocammo a Montecatini che schierava giocatori fortissimi, fra gli altri Boni e Niccolai, tanto per dire, mentre per la seconda partita arrivò a Trieste la seconda squadra di Varese con Bianchi e i “vecchi” Della Fiori e Lucarelli, vecchi, ma sempre di un’altra categoria, onestamente. Giocammo comunque un campionato più che dignitoso che alla fine però ci vide “retrocedere”, nel senso che proprio in quella stagione ci fu la riforma dei campionati con l’istituzione della Serie B-2, nella quale finimmo trovando più o meno la nostra vera dimensione.
Chiaramente non poteva durare. Già Boris se ne era andato alla Stefanel Trieste l’anno prima della storica promozione, poi anche Marko e Claudio provarono l’avventura ai massimi livelli con buon successo, insomma la vecchia generazione si sgretolò per forza di cose e fu impossibile ritornare a quei fasti. Rimane però la bellissima storia di come, partendo dai livelli più amatoriali e improbabili, si sia alla fine arrivati a vertici assolutamente non preventivabili grazie alla voglia, all’abnegazione e al senso di appartenenza di un gruppo di magnifici ragazzi, ancora oggigiorno magnifiche persone con le quali continuo a intrattenere rapporti di grande amicizia fungendo per loro un po’ da padre e molto da fratello maggiore. Sono le cose che ti rendono orgoglioso e che in definitiva danno un po’ un senso a tutta la tua vita.
Storia di una famiglia
- Scritto da Administrator
Un avvertimento: la mia testimonianza è frutto esclusivamente dei miei ricordi, cioè di quello che mi hanno raccontato i genitori, ma soprattutto nonna Michela, che ha vissuto con noi da quando sono nato fino alla sua morte, nonna che è stata in effetti per me la mia vera madre, soprattutto quand’ero piccolo, in quanto mamma lavorava all’epoca come precaria e era impegnata frequentemente sia di mattino che di pomeriggio nei vari Ricreatori. Con nonna ho avuto un rapporto speciale che si basava su un grandissimo amore reciproco, in quanto, per così dire, sono stato da lei vissuto come l’ultimo figlio suo. Bisogna rimarcare che quando sono nato aveva in tutto 52 anni.
Nonna mi parlava ovviamente spesso della sua famiglia e quanto sto per scrivere è quello che ho sentito direttamente da lei. Ovviamente storicamente molte cose saranno inesatte, però penso lo stesso che almeno nelle linee generali rispecchierà quanto in effetti successe.
Mihela Tavčar, nata il 28/09/1897, era l’ultima (15-esima!!) figlia della famiglia più benestante di Dutovlje, proprietaria dell’unica trattoria in paese che agiva anche da locanda e organizzava ricevimenti di tutti i tipi grazie ad un enorme salone che occupava tutto il secondo piano dello stabile posto proprio al centro del paese. All’epoca era solo ovvio che non tutti i figli superassero la giovane età. Per quanto ne so solamente in otto hanno raggiunto l’età adulta. Personalmente ho conosciuto solamente due delle sorelle sopravvissute, zia Zofka, che si era sposata e viveva a Kopriva, e la a me carissima zia Albina, che era solamente di un paio di anni più anziana rispetto a nonna. La sua storia è tragica: per quanto sembri incredibile anche lei sposò un altro Jože Tavčar, che di mestiere faceva il ferroviere. Le autorità fasciste, secondo la loro ferrea politica di cancellazione etnica, trasferirono la famiglia slovena in Italia, per cui zia visse la maggior parte della sua vita a Cassino. Lì nacquero i suoi tre figli, che però morirono tutti e tre nel corso di un solo anno: il più grande come carrista in Nord Africa (medaglia d’argento al valor militare), il medio in un incidente motociclistico, la terza, ancora bambina, di meningite fulminante. Questa immane tragedia fu superata in qualche modo e in tarda età lo zio e la zia si trasferirono a Sgonico, dove andavamo ogni domenica di bel tempo a fare loro visita (davanti alla loro casetta avevano un ampio giardino e dietro addirittura un recinto con animali da cortile) e uno dei miei più bei ricordi riguarda il momento nel quale zia Albina mi preparava la “pagnottella”, come lei la chiamava, per rifocillarmi dopo essermi sbizzarrito in giardino. Ora nella casa natale di nonna c’è un museo, “Bunčetova hiša” (la casa di Bunča), anche se nonna ha sempre chiamato se stessa Mihela Bončetova, dal nome di un Bonča che un paio di secoli prima era venuto a Dutovlje da Idria. La sua famiglia era per tradizione la colonna portante dei conservatori cattolici del paese. Quando nonna aveva solo 15 anni si innamorò del due anni più grande primogenito della famiglia dei più grandi rivali politici dei Bončetovi, i Tavčar “Š’menjakovi”, una famiglia famosa per coltivare i valori liberali e che si era sempre distinta per iniziative ardite nel campo dei mestieri più “moderni”. Quando a neanche 16 anni compiuti rimase incinta da Josip, Pepi, Š’menjakov, si sollevò, nel più puro stile Romeo e Giulietta, un clamoroso scandalo in paese ed entrambi furono più o meno cacciati da casa.
Qui si solleva un po’ di nebbia, in quanto chiaramente né nonna né quelli a lei allora vicini avevano molta voglia di parlare di quel periodo. Quello che so per certo è che prima o poi si stabilirono a Trieste in ricerca di lavoro e che nonno Pepi ottenne un lavoro come marinaio sulle grandi navi che allora collegavano Trieste con l’Estremo Oriente. Con il tempo e grazie alle sue capacità si guadagnò il posto di capo cambusiere sul transatlantico Conte Verde. La cosa certa è che il frutto del peccato giovanile Marija, per tutti noi della famiglia zia Mimi, venne al mondo il 5/2/1914 e che nonna dovette prendersi cura della neonata da sola durante il periodo della prima guerra, mentre nonno era per mare per più di sei mesi all’anno. Quando esattamente nonna prese in gestione la trattoria presso la stazione centrale vicino all’entrata del porto vecchio, trattoria nella quale i clienti abituali erano per la maggior parte facchini e comunque lavoratori sottopagati del porto, tutti sloveni del Carso che in nonna ebbero sempre più un’amica che una connazionale, non saprei dirlo, però so per certo che aveva la trattoria già negli ultimi anni del secondo decennio del secolo scorso (quando dunque aveva appena qualcosa più di 20 anni!).
Quando la guerra finì nonno e nonna finalmente si sposarono e zia Mimi diceva sempre quanto si fosse divertita alle nozze a fare da damigella a sua mamma sorreggendole il velo. Ovviamente ebbero cura, una volta sposatisi, di mettere al mondo il 31/7/1920 finalmente il loro primo figlio “legale”, che chiamarono, secondo la tradizione di famiglia sui primogeniti, Josip. (Perché anch’io non sono Josip è sostanzialmente il frutto di un’astuta macchinazione ordita in tandem da mamma e papà – “Pepi, mio fio no pol ciamarse Pepi!” “Sta bona, anche mi no voio, ma bisogna far finta che mi no savevo niente, se no mama se rabia” “Lassime far a mi!”). Un anno e mezzo dopo nel marzo del 1922 venne al mondo anche la seconda figlia, Nada, che però, poverina, fu iscritta all’anagrafe con il nome di Bernarda, in quanto già allora le autorità italiane non concedevano più di chiamare i figli con nomi slavi.
Con nonna per quasi tutto il giorno in trattoria e con nonno per quasi tutto l’anno via di casa Pepi e Nada erano per lo più affidati alla più grande Mimi che si prendeva cura della casa. La famiglia viveva all’epoca in una piccola casetta a Roiano vicino al ruscello. Roiano era un paese completamente sloveno, all’epoca non ancora attaccato al resto della città, e secondo le parole di mio papà le prime parole che sentì in italiano fu a scuola, quando entrando in classe per la seconda elementare la stessa maestra che l’anno prima aveva insegnato in sloveno cominciò a meraviglia di tutti a parlar loro in italiano su ordine superiore delle autorità fasciste. Per fortuna almeno Mimi, di sei anni più anziana, riuscì a completare la scuola dell’obbligo in lingua slovena. E devo dire che anche dopo più di 70 anni trascorsi a Vienna, ancora in età avanzata parlava uno sloveno corrente e fluente, oltre naturalmente all’italiano e al dialetto triestino.
Lo stesso anno, il 1927, nonna partorì nuovamente, di nuovo una bambina, che però, nello straziante dolore di tutti, venne al mondo già morta. Nonna però non cessò mai di affermare che lei aveva avuto cinque figli e che la piccola Sofija aveva per lei l’importanza di tutti gli altri.
In tutto questo tempo la famiglia cambiò anche spesso abitazione. Non so esattamente quando e dove, so invece per sicuro che passò un po’ di tempo addirittura a Opicina, e poi anche alcuni anni in un’abitazione in Via della Tesa, prima di trasferirsi all’incirca verso i primi anni ’30 (so per esempio per certo che zio Edi nacque quando la famiglia viveva già lì) definitivamente nell’abitazione di Via Commerciale 50, dove poi nacqui anch’io.
Nel 1929, ai tempi della grande crisi mondiale, venne in aiuto a nonna la cognata Filomena, per tutti noi zia Menza, sorella del nonno, che nel puro stile degli Š’menjakovi era emigrata a suo tempo a Vienna, lì conobbe un tale signor Klinz (un leggendario aneddoto della nostra famiglia racconta di quando fu ricoverata a Trieste in ospedale per una frattura ad una gamba e alla domanda come si chiamasse, sentito il nome Filomena Klinz, la rimproverassero severamente: »Signora, ghe par questo el momento de scherzar!«), lo sposò, ebbe una figlia (Lotte, molto legata ai due cugini, sia Mimi che Pepi, ma anche nella vita, un po' come sua madre, leggermente »burrascosa«), divorziò abbastanza presto e dopo la separazione ebbe dal marito un garage che gestiva lei stessa. Aveva bisogno di aiuto e così zia Mimi emigrò a Vienna, dove poi si sposò, ebbe due figli (con il più vecchio, Peter, eravamo veramente in magnifici rapporti e finché non morì improvvisamente per un veloce cancro andavo quasi ogni anno da lui per una settimana) e visse una vita lunga e dignitosa. Discorso a parte era suo marito, Otto Schartel, di professione commerciante di pitture industriali, che aveva una grande e ottimamente frequentata drogheria che gli serviva anche da base per il commercio delle pitture in Liechtensteinstrasse 90, nel nono distretto, e sopra ad essa un ampio appartamento che è stato spesso la mia seconda casa estiva quando ero piccolo. Il problema era che zio Otto era un convinto nazista, che durante la guerra fece l'autista di veicoli blindati per le Waffen SS partecipando sia alla campagna di Russia che a quella jugoslava. La cosa incredibile è che con la moglie slava si volessero un bene dell'anima e che è sempre stato un grande amico di papà e estremamente gentile e amoroso con tutti noi della famiglia della moglie. E devo dire che di lui ho solo bei ricordi. Ovviamente ero molto legato anche alla zia, che mi voleva molto bene. Soprattutto quando rimase abbastanza presto vedova veniva molto volentieri per qualche settimana da noi a Trieste a stare con la mamma e il fratello. E quando nonna era ancora viva veniva spesso con noi in vacanza. Si somigliavano come due gocce d'acqua e la gente non poteva credere che non fossero sorelle, ma madre e figlia. Anch'io andavo spesso da lei a Vienna e passavamo bellissime serate quando mi portava nei caratteristici “heurigen” viennesi, quelli giusti per i viennesi e non per i turisti che si concentrano nel rione di Grinzing e che zia evitava come il diavolo l'acqua santa.
Con la partenza di zia Mimi per Vienna il non ancora decenne Pepi e l’anno e mezzo più giovane Nada rimasero sostanzialmente soli a casa, quando nonna era in trattoria e nonno in mare. Volenti o nolenti se si vuole mangiare qualcosa bisogna anche cucinarla e Pepi con molto coraggio si cimentò nell’impresa che poi divenne il suo hobby adorato di tutta la vita. Ovviamente gli inizi non furono facili e un altro nostro leggendario aneddoto (confermato da tutti e tre i partecipanti) dice che un giorno nonna tornò dalla trattoria e si imbatté in Pepi furioso con una pentola in mano e Nada piangente tutta bagnata in testa. “Pepi, cosa è successo?” “Niente, ho cucinato la minestra” “E?” “Niente, ho detto a Nada che doveva mangiarla, ma lei mi ha detto che non lo avrebbe fatto, perché faceva schifo. Le ho detto che, se non l'avesse mangiata, gliela avrei rovesciata in testa” “E?” “Niente, non l'ha mangiata e gliel'ho rovesciata”.
Il fatto che i genitori erano per cause di forza maggiore quasi sempre assenti non preoccupava granché il piccolo Pepi. Si adattò subito all’ambiente nel quale venne a trovarsi per strada in compagnia di altri piccoli discoli. Aveva un grande carisma e dovunque andasse prima o poi diventava il leader della combriccola. Anche quando questa combinava cose non proprio ortodosse. Di grande aiuto gli fu il fatto che era forte e abile, nell’animo un vero sportivo (cosa che poi anche divenne e per tutta la vita fu appassionato di sport – posso dire per fortuna, in quanto proprio grazie a questo e al suo aiuto ho potuto trovare l’occupazione della mia vita), e ben pochi avevano l’ardire di litigare con lui. Continuo sempre a domandarmi come mai nonna riusciva, malgrado tutte le incombenze che la assillavano, a tenere ben diritta la barra dell’educazione dei suoi figli. Probabilmente proprio per il fatto che anche lei aveva una personalità d’acciaio, forgiata attraverso tutte le mille difficoltà che aveva dovuto affrontare. Per non farsi mancare niente il primo di aprile (! – lo zio poi diceva sempre di essere nato “per scherzo”) del 1931 partorì anche il quinto figlio a cui fu dato il nome, sempre secondo la tradizione degli Š’menjakovi, di Edoardo, per tutti noi zio Edi. Se zia Mimi era nata ancora Tavčar con la “kluka” sulla c, e papà e zia Nada erano Tavcar senza “kluka”, lo zio Edi, nato in piena era fascista, fu ufficialmente registrato all'anagrafe come Edoardo Taucer (quattro fratelli con tre cognomi diversi – bizzarro). Tornando alle tradizioni degli Š'menjakovi il primo figlio maschio era sempre Josip, il secondo invece sempre Edvard. E questo era infatti anche il nome del prozio che era rimasto a Dutovlje a portare avanti la casa di famiglia. Ovviamente anche lui secondo la più fulgida tradizione di famiglia decise di dedicarsi ad un mestiere “moderno” e divenne il primo proprietario e guidatore di taxi sul Carso. Per trasportare la gente in modo sicuro l’automobile (ricordo che eravamo nel terzo decennio del secolo scorso e le auto erano ancora rarissime) doveva essere curata e mantenuta con la massima attenzione e per questo lo zio Varde si trasformò in un provetto meccanico, così provetto che la sua mitica Opel percorse in carriera oltre un milione di chilometri senza che poi alla fine avesse al suo interno neppure uno dei componenti originali. Bisogna inoltre rimarcare che finì la sua carriera ancora perfettamente sana e funzionante (per noi bambini quell’automobile orgogliosamente parcheggiata nel garage di casa era una specie di leggenda e la ammiravamo con gli occhi sbarrati), in quanto nel frattempo lo zio si dedicò a attività più normali, assieme alla moglie Francka aprirono nella casa natia un ristorante che offriva (ovviamente solo a parenti e amici, per i triestini in trasferta bastava quello comprato) anche il miglior terrano del Carso, prodotto dalle vigne sulle terrazze del podere di famiglia che si adagiava sul versante esposto al sole della discesa che porta dal centro di Dutovlje verso la stazione. Al posto del ristorante c’è ora nella casa natia di nonno un bar, gestito dal nipote di zio Varde Marjan.
Quando papà entrò nell’adolescenza cominciò improvvisamente a interessarsi di letteratura. Come e perché, soprattutto viste le condizioni “selvagge” nelle quali viveva (nonna diceva sempre che ogni sera che Pepi tornava a casa senza botte o infortuni, cosa che non succedeva peraltro spessissimo, tirava un grandissimo sospirone di sollievo), non mi è dato di saperlo e anche lui stesso ne parlava molto poco. Bisogna dire che la sua stessa mamma gli offriva un magnifico esempio, in quanto, pur avendo finito solamente le elementari, era comunque di vedute molto ampie a amava la letteratura. Conosceva in sostanza a memoria tutte le poesie dell’“usignolo di Gorizia” Simon Gregorčič, e lo so perché spesso mi recitava con trasporto poesie intere commuovendosi sempre (“Sergio, non sono belle?”). Tornando a papà probabilmente ad un dato momento sentì l’impulso che era venuta l’ora di dedicarsi a cose anche un po’ più serie, e comunque la sua sete di conoscere è sempre stata molto forte. Lui stesso era convinto di essere diventato miope verso i 15 anni, quando durante una lunga malattia che lo costrinse a letto non fece che leggere e leggere con ciò rovinandosi, secondo lui, la vista. E’ vero che, almeno a quanto ne so, nonno non portò mai gli occhiali e che anche nonna aveva un’ottima vista, però a giudicare da che tipo di talpe siamo sia io che Loris deve esserci per forza anche qualcosa d’altro. Tanto più che mamma Irma aveva 11/10 di vista.
Anche perché papà si sia innamorato particolarmente del teatro non mi è noto e anche lui stesso non l’ha mai chiarito. Fu così e basta. Quando cominciò a frequentare il liceo Oberdan cominciò subito a scrivere lavori brevi, tutto cose con dialoghi comunque. Fu perciò naturale che in quarta classe lui e il suo compagno di classe Egidio Umari (ex Ukmar, peraltro italianizzati ben prima del fascismo), eccellente pianista e studente di composizione, decidessero di comporre un’operetta, papà il testo, Egidio la musica. Quando alla fine misero qualcosa assieme si presentò il problema di vedere dal vivo cosa ne era venuto fuori. Bisognava trovare una cantante e Egidio propose immediatamente la cugina di sua madre, che aveva i loro anni, che anche lei suonava il piano ed era molto vicina a terminare gli studi, ma soprattutto aveva una bellissima voce e una grande passione per il canto. E se tutto ciò non fosse ancora bastato, aveva anche un aspetto molto attraente… e… tanti anni dopo la conseguenza di quell’incontro siamo io e Loris.
Irma Lange era una tipica triestina, nel senso che nelle vene le scorreva il sangue proveniente da molte origini diverse. Suo padre Julius (nonno Giulio, morto un anno e mezzo prima che io nascessi, e la cosa mi ha sempre suscitato grandi rimpianti, in quanto, da ciò che mi raccontavano di lui, penso che sarebbe stato un mio idolo assoluto) era nato a Vienna in una famiglia originaria dalla Germania settentrionale, famiglia che poi si stabilì a Trieste con il giovane Julius che trovò lavoro presso la fabbrica di tessuti di iuta (il famoso “iutificio”), e a Trieste si sposò con una dalmata originaria di Martinščica sull'isola di Cherso di nome Erminia Parola. Suo padre (di origini incerte, comunque nativo del paese) era stato adottato da una famiglia di origini chioggiotte, da cui il tipico cognome Parola, mentre la madre era una dalmata locale dal cognome Đurđević, cambiato poi dai fascisti in Giorgi. Facendo dunque le somme io e Loris abbiamo metà sangue sloveno, per un quarto è tedesco e per un ottavo veneto e croato. La famiglia abitava in una modesta casetta di lavoratori in Ponziana in Via del Bosco quasi esattamente sotto il viadotto ferroviario. I coniugi Lange non aspettarono troppo per avere figli: nel corso di sei anni, dal 1903 al 1909, ne nacquero ben cinque, primo fra tutti Albert, poi Bianca, poi ancora Oskar e alla fine la ciliegina sulla torta fu la nascita di due gemelli, Egon e Duilio (comunque estremamente diversi l’uno dall’altro, tanto che nessuno poteva neppure supporre che fossero parenti, men che meno gemelli). Poi per molto tempo niente. Venne la Grande Guerra, la famiglia durante il tempo di guerra si stabilì provvisoriamente a Maribor, poi a guerra finita tornò a Trieste e i due coniugi festeggiarono la fine delle ostilità concependo la quasi postuma figlia Irma, venuta al mondo il 6/2/1920, esattamente 11 anni dopo la nascita dei gemelli (una volta zio Oscar, arrabbiatosi con Irma, le gridò: “Tasi ti, ultimo error senile dei nostri genitori!”). Irma ovviamente divenne la mascotte di famiglia, cosa che finì per forza di cose a viziarla non poco, perché chiaramente ogni suo desiderio era più o meno un ordine. Quanto di meglio c’era a disposizione andava per prima cosa a lei, poi quanto restava andava agli altri. E devo purtroppo confessare che questo suo egocentrismo, l’abitudine di essere sempre al centro dell’attenzione, che sentisse che tutto girava attorno a lei e per causa sua, è stata il suo più grosso difetto per tutta la vita (“Sergio, perché te son mufo? Te la ga con mi?”). Dall’altra parte comunque l’educazione dei figli era all’epoca una cosa ancora maledettamente seria, per cui era molto severa, e mamma crebbe come una ragazza molto seria e responsabile, ma soprattutto dal cuore d’oro e dall’onestà adamantina.
I genitori volevano per Irma tutto il meglio possibile ed erano pronti a ogni sacrificio perché non crescesse nell’indigenza. Quando mostrò una grande attitudine verso il canto e la musica riuscirono a farle studiare il pianoforte. È interessante che mamma si ricordava sempre con grande affetto della sua maestra di pianoforte, “come diseva sempre la Kette”, che era slovena e in stretta parentela con il nostro grande poeta Dragutin. Parallelamente si diplomò senza problemi alle magistrali un anno dopo aver conosciuto ed essersi fidanzata con Pepi.
Negli anni ’30 del secolo scorso la vita in Via Commerciale 50 cominciò a movimentarsi. Riassumendo: nell’appartamento vivevano nonna Michela, il piccolo Edi che per forza di cose divenne subito molto indipendente e passava la maggior parte del tempo in strada con gli amici (tutti italiani, con i quali parlava in dialetto – ragion per cui parlava sloveno solamente a casa con la madre e inevitabilmente, quando cominciò ad andare a scuola, perse progressivamente il contatto con la lingua materna – quando nacqui io capiva e parlava ancora qualcosa, ma quando si trasferì definitivamente per lavoro in Italia dimenticò tutto), Pepi, a cui veniva a far visita sempre più spesso Irma, e dopo ancora Nada, che aveva nel frattempo conosciuto un altro compagno di scuola di Pepi prendendo per lui una solenne sbandata, ragion per cui l’appartamento cominciò a essere frequentato di tanto in tanto anche dal suo prescelto Bruno Vidmar. Quest’ultimo dire che era “popolare” sarebbe esagerare non poco. Era infatti il tipico secchione primo della classe nel significato più stereotipato di questo termine. Estremamente intelligente e sveglio, però proprio per questo sfoggiava una superiorità intellettuale mista ad arroganza, e ovviamente disprezzava gli incapaci e non era disposto ad aiutarli in classe neanche sotto tortura. Pepi, Egidio e la piccola banda attorno a loro, che comprendeva anche il più grande amico di Pepi, Vladimir “Ladi” Mevlja, sloveno di Kolonkovec, che poi condivise con papà tutti gli studi superiori e alla fine si stabilì a Maribor, dove insegnò per tantissimi anni lingua e letteratura italiana negli Istituti superiori, nonché il leggendario Silvio Ralza, l’idolo assoluto di mio papà che parlava di continuo con grande divertimento delle sue prodezze di anarchico assoluto che non accettava alcun tipo di autorità (una volta fu espulso da scuola e il suo commento verso il capoclasse fu: “Professore, lei così mi rovina l’ano” – con una sola “n” molto ben messa in rilievo), non potevano in alcun modo sopportare Bruno e per papà fu uno choc ulteriore vedere la sua adorata sorella (malgrado la minestra in testa) mettersi assieme all’odiato Bruno. Una cosa ulteriore che a papà dava grosso fastidio era il fatto che Bruno, malgrado la lampante origine slovena del suo cognome (suo padre era originario, lo dice il cognome stesso, dai dintorni di Idria), era da figlio unico quasi morbosamente legato alla madre con la quale viveva e che era una fanatica tedescofila, malgrado fosse di origini e nascita ceche. Ragion per cui Bruno parlava in tedesco con la madre, altrimenti in italiano, e comunque disprezzava gli sloveni. Malgrado questa combinazione letale poi col tempo Pepi e Bruno si riappacificarono e diventarono amici, tanto da mettere in piedi nel 1955 una specie di combinazione di Camel Trophy e tentativo di entrare nel Guinness dei primati, quando con la Vespa 125 (quella ancora con il fanale sul parafango anteriore) di Bruno si cimentarono in una trasferta europea fino a Londra e ritorno, dovendo per esempio sul Gran San Gottardo papà scendere dalla Vespa per spingerla, in quanto in due, con tutto il bagaglio che avevano, non ce l’avrebbe fatta. Nel frattempo io e mamma, zia Nada e la cugina Anni rimanemmo per tre settimane parcheggiati da zia Menza, che aveva una villa estiva a Solbad Hall presso Innsbruck.
Con il tempo anche Bruno, ripeto, persona molto intelligente e curiosa, soprattutto una volta che non ci fu più l’opprimente madre, si riconciliò con lo sloveno, lo imparò e aiutò papà a tradurre il Pekel in italiano. L’unico problema è che zia Nada è stata l’unica della nostra famiglia a non aver mai avuto una vera spina dorsale, è stata sempre mansueta e sottomessa al marito, ma soprattutto alla autoritaria “omama” che viveva con loro. Mi sono spesso chiesto se ciò è stata diretta conseguenza dei lunghi anni infantili passati da sola con il fratello di un anno più vecchio che l’amava sicuramente, ma comunque agiva in casa secondo come gli andava, testimone il famoso aneddoto della minestra. Ragion per cui ai figli Anni e Roberto parlava in tedesco (come e quando lo imparò fra breve) e loro da lei mai sentirono una sola parola di sloveno. Anna, per tutti noi, ma soprattutto per me che la percepisco emotivamente come una sorella a pieno titolo, Anni (o, se volete in triestino Ani) fu concepita la stessa notte nella quale lo fui io (!), nacque però 12 giorni dopo rispetto a me, in quanto zia Nada, ragazza bella, sana e robusta, la consegnò al mondo esattamente alla scadenza prevista, mentre mamma Irma, che era peraltro tutt’altro che fragile, ma comunque piccola e magrolina, ebbe un po’ più di fretta. Non so quante ore ho passato con Anni nel giardino di casa Vidmar in Via dei Moreri 170, verso la quale bisognava arrampicarsi a piedi per più di mezz’ora da Roiano, e dove andavamo almeno una volta alla settimana con nonna che andava a far visita alla figlia, mentre io andavo a trovare la cugina, con la quale siamo andati sempre d’accordo in modo fantastico, fraterno, appunto. Solo in quei frangenti, con mamma, zia Nada aveva l’ardire di parlare in sloveno (bastava che non ci fosse “omama”), nonna infatti aveva l’abitudine di parlare con i figli ostentatamente sempre e solo in sloveno, con l’unica eccezione ovviamente di Edi quando lo dimenticò del tutto. Anni non poteva mai abituarsi e a non meravigliarsi del fatto di non capire cosa stesse dicendo mamma. E ancora oggi quello di cui più incolpa la mamma è proprio il fatto di non averle mai parlato in sloveno. Fra l’altro di tutti noi nipoti di nonna Michela è l’unica assieme al fratello ad aver il 100% di sangue slavo delle vene e non sa una parola. Ironico. Il fratello Roberto (più precisamente Robert) è dall’altra parte perfettamente diverso, vero clone del padre anche per le convinzioni politiche (liberale di destra) e a lui di imparare lo sloveno non passa neanche per l’anticamera del cervello. Fra l’altro Roberto è nato lo stesso anno di Loris (mamma mi confidò una volta che una sera, saputo che Nada era incinta, propose a papà che anche loro ne facessero un altro, alla fine convincendolo di farlo veramente), per cui, un po’ per scherzo, ma in effetti la cosa è vera, diciamo sempre fra noi che io sono il cugino di Anni e Loris il cugino di Roberto.
Torniamo ora al racconto storico. Ovviamente in casa era sempre festa grande quando tornava finalmente a casa il nonno che ogni volta portava qualche ricordino dal lontano oriente, un Buddha di porcellana di cui ho un vivido ricordo dagli anni della mia infanzia, un pezzo di corallo, qualche quadretto in stile cinese e cose simili. A dire il vero cosa tutto portò dall’Oriente non lo so, in quanto queste cose poi si sono disperse fra i quattro fratelli. Nonno infatti nel 1938 ad appena 43 anni morì improvvisamente per un cancro fulminante sorto a causa di un trauma subito alla schiena (circle of life: esattamente nello stesso anno nonna lo diventò per la prima volta, quando Mimi a Vienna dette luce al primogenito Peter). Fra l’altro anche zia Nada morì della stessa malattia a 60 anni appena compiuti, però nel suo caso il lato psicologico deve essere stato preponderante, visto che in realtà nella vita mai è stata veramente felice, e ciò a causa del suo stesso carattere, del quale prese sempre più coscienza via via che passavano gli anni. Anche quando non era ancora malata, negli ultimi anni della sua vita dava l’impressione di averne ormai abbastanza e di attendere solo che tutto finisse. In realtà zia Nada è stata l’unica vera tragica figura della nostra famiglia e sono profondamente triste per lei, soprattutto ricordando di come sprizzasse voglia di vivere nei suoi anni giovanili.
Fra l’altro il 1938 fu un anno decisivo anche nella vita di Irma, in quanto mamma Erminia morì improvvisamente per un’ernia strozzata, una cosa che oggi sarebbe stata risolta di routine. Ragion per cui, per quanto riguarda noi fratelli Tavčar ambedue abbiamo perso contemporaneamente ben due nostri nonni.
Mi sono spesso chiesto quali fossero in realtà i veri rapporti fra nonna Michela e nonno Pepi e ovviamente una risposta non l’ho mai trovata, in quanto nonna non volle mai parlarne. Una cosa posso comunque tranquillamente affermarla: si volevano un bene dell’anima. Quando ero ancora piccolo e mamma era occupata nel pomeriggio con l’insegnamento di sostegno presso il Ricreatorio Padovan, nonna quasi una volta a settimana mi prendeva e mi portava al cimitero di Sant’Anna. Lì era sepolto il nonno, o per meglio dire di lui rimaneva solo una lastra di marmo nelle tombe comuni subito a destra rispetto all’entrata principale. Nonna comprava un mazzo di fiori, andava alla tomba, li deponeva accanto alla lastra, si sedeva e cominciava tranquillamente a lavorare all’uncinetto. Sul suo volto non si poteva percepire alcun sentimento, in realtà in quasi trent’anni che ho vissuto accanto a lei mai mi ricordo di averla vista piangere, ma era chiaro che stava tranquillamente chiacchierando con il marito. Io ovviamente fra tutte quelle tombe mi annoiavo a morte (è il caso di dirlo), ma avevo un enorme rispetto per nonna e soprattutto mi rendevo conto che per lei quelli erano momenti molto importanti, per cui non osavo aprire bocca. Dopo circa un’ora di tranquillo lavoro nonna si alzava, mi diceva: “Bene, Sergio, possiamo andare” e tornavamo a casa. Il più grande mistero che mai ho potuto svelare è come mai poteva a soli 15 anni sapere di aver già incontrato l’uomo della sua vita.
E così nel 1938 per nonna Michela ricominciò tutto da capo. Rimasta vedova si poneva ovviamente il problema materiale di come andare avanti. A dare una mano ci pensò da Vienna zia Mimi, come detto appena diventata mamma a sua volta, che aveva bisogno di qualcuno che badasse al bambino mentre lei aiutava il marito in negozio, e dunque si offrì di prendere con sé Nada in veste di tata e di aiutante tuttofare. Nada così dovette abbandonare la scuola e se ne andò a Vienna, dove rimase fino alla fine della guerra e fu proprio lì che imparò il tedesco che cominciò curiosamente a parlare con la sorella, cosa che poi fecero per tutto il resto della loro vita. Ovviamente, visto che Bruno (o meglio sua mamma) non voleva, che le due sorelle parlassero fra loro nella lingua materna (che avevano tranquillamente parlato fra loro da bambine) non se ne parlava neppure. Tantissimi anni dopo, quando organizzammo a Duino una grande festa per festeggiare gli 80 anni di nonna Michela riunendo l’intera famiglia (sostanzialmente abbiamo riempito il ristorante), successe che zia Mimi parlasse con il fratello Pepi in sloveno, con la sorella Nada in tedesco e con il fratello Edi in dialetto triestino. Il tutto ovviamente fra la meraviglia degli altri avventori che non riuscivano proprio a capire che tipo strano di famiglia fosse quella.
Papà aveva intanto finito il liceo e si era iscritto all’Università di Venezia, dove studiava lingue germaniche (tedesco e inglese) al Ca’ Foscari, per cui andava a Venezia ogni giorno dal primissimo mattino fino a tarda sera. Il suo giorno “normale” era più o meno così: alzata alle 5 e mezzo del mattino, corsa precipitosa fino alla stazione per prendere il treno che lo portava a Venezia assieme all’amico Ladi, all’arrivo a Venezia i due ingerivano una porzione di castagnaccio, una specie di pagnotta di farina di castagne che a detta di papà faceva schifo, ma aveva il merito di stagnare in modo ermetico lo stomaco che dunque non avvertiva morsi di fame, poi lezioni e esami, ritorno a Trieste poco dopo le otto di sera e dalla stazione direttamente alla trattoria di mamma per darle una mano durante l’ora di cena fino all’ora di chiusura. Alle 11 di sera circa in letto, il giorno dopo una nuova alzataccia alle 5 e mezzo e così via. Tutti i giorni. Nel frattempo di Edi si avevano ben poche tracce, l’unica cosa importante era che tornasse a casa di sera tutto intero. In questo contesto dove fosse stato e cosa avesse fatto non aveva alcuna importanza.
Poi arrivò il 10 giugno del 1940 e tutto si rimise nuovamente sottosopra. Papà ebbe questa fortuna, se si può chiamarla così, di essere richiamato al servizio militare nel 1942, quando alla fine degli studi gli rimaneva più o meno solo la tesi. Ebbe la possibilità, visto che per le abitudini dell’epoca era visto come un vero intellettuale, di frequentare la scuola per ufficiali e si recò a Mondovì in Piemonte. Irma nel frattempo aveva ricevuto qualche lavoretto come supplente da maestra elementare e raccontava sempre come fosse spaventata a morte quando ricevette un lavoro come supplente annuale in piena guerra a Šembije, paese a metà strada fra Pivka e Ilirska Bistrica, visto che doveva insegnare in italiano nel bel mezzo della Slovenia più etnicamente pura, dove già infuriava la guerra partigiana. Un giorno venne da lei la segretaria e le sussurrò: “Signorina, venga con me, qui c’è un signore che le vuole parlare”. Si trovò di fronte un giovanotto dall’aspetto perfettamente normale che le disse: “Signorina, noi sappiamo perfettamente che è fidanzata con uno sloveno, che sta studiando la nostra lingua e che non ha proprio niente contro di noi. Per cui, mi creda, non ha nulla da temere”. E infatti mai le fu torto un capello.
Tutta un'altra storia sono stati i fratelli di mamma, in quanto, a parte Egon, sempre piccolo, magro e malaticcio, e infatti fu proprio lui fra tutti i miei zii ad andarsene per primo, che non fu chiamato a fare il militare, gli altri tre andarono subito in guerra. Una storia particolare è zio Albert, per tutti noi zio Berti, il più vecchio dei fratelli di mamma che aveva solo qualche anno in meno rispetto a nonna Michela. Dopo la guerra ebbe una vita molto travagliata: lavorava come gruista in porto quando gli morì prematuramente per un cancro l’amata moglie Maria, per cui si mise a bere, perse il posto di lavoro e da lì in poi visse più o meno di carità a carico delle ormai adulte figlie Livia e Lucia. Quando ero ancora piccolo veniva ogni lunedì da noi di sera sostanzialmente per rimediare un pasto caldo. Era estremamente simpatico, spiritoso, di convinzioni politiche di sinistra se non direttamente comunista, tutto il contrario del di poco più giovane fratello Oscar, fascista convinto, ed era sempre uno spasso ascoltare i due fratelli quando discutevano fra loro di politica prendendosi fraternamente in giro. Una volta eravamo in gita in Slovenia e Oscar non faceva che ammirare il ritratto di Tito appeso nel salone del ristorante. Alla fine disse con fare quasi trasognato: “Te vedi, lui sì che iera una persona seria, te lo vedi come el xe vestì normale, no come el nostro che iera sempre pien de medaie e altri strafanici.” Per intenderci: zio Oscar mi voleva molto bene, come voleva bene anche a Pepi. Di professione era un bravissimo falegname, per quanto poi in più tarda età avesse trovato un lavoro da impiegato, però a casa abbiamo ancora un bell’armadietto fatto da lui. E’ stato mio padrino di cresima e ancora adesso ho l’orologio che mi regalò, un Longines dalla cassa d’oro.
Quando arrivava zio Berti era per me una vera festa. Non vedevo l’ora che cominciasse le sue storie e raccontasse le sue barzellette sui fascisti e l’incapacità dell’esercito italiano, da lui sperimentata sulla propria pelle, in quanto aveva preso parte per intero alla fallimentare campagna di Grecia, alla fine della quale riuscì ad arrivare ad Atene solo grazie al decisivo intervento dell’esercito tedesco (quando gli aprivamo la porta il suo esordio era inevitabilmente: “Kalimera, kalispera a tuti!”). L’aneddoto che più mi è rimasto nella memoria fu il racconto di quando prese parte, costrettovi, ad una parata di giovani fascisti triestini davanti al Duce a Roma. Durante la parata stava tranquillamente discorrendo con il vicino di fila sull’idiozia di tutta quella messa in scena, quando uno della fila di dietro batté la mano sulla sua spalla e gli sussurrò: “Ciò muli, ste atenti, no ste parlar tropo forte che qua drio ghe xe un fascista!”.
Tutta un’altra storia avrebbe potuto raccontarmela zio Duilio che partecipò alla campagna di occupazione della Jugoslavia. Con me, comprensibilmente, non parlò mai di quanto successe, ma mamma una volta mi confidò che Duilio una volta le confessò: “Irma, me vergogno come un can, ti no te sa cossa de tuto gavemo fato la zo…meio che nianche no te digo”.
Dopo i canonici 15 mesi di addestramento papà finalmente finì la scuola per ufficiali e da novello sottotenente, dopo un breve periodo a casa, ottenne la sua prima nomina a Cosenza dove doveva recarsi per espletare i suoi doveri militari. Partì in un giorno “normale” come tutti gli altri, era infatti l’ 8 di settembre del 1943. Proprio mentre il treno valicava l’Appennino fra Bologna e Firenze arrivò la notizia della capitolazione dell’Italia e normalmente sul treno si sparse il caos, in quanto nessuno sapeva cosa fare. Nessuno a parte mio padre, ovviamente. Lui lo sapeva perfettamente: sono un militare, a me hanno dato l’ordine di andare a Cosenza e, finché non mi viene impartito un altro ordine, io vado a Cosenza. Nella confusione più totale lui, assieme a ben pochi altri soldati, continuò così il viaggio verso sud. Poi raccontò che poco sotto Napoli incrociò un gruppo di tedeschi in ritirata dall’avanzata degli angloamericani che erano sbarcati in Sicilia un mese e mezzo prima, e in quell’occasione sfruttò perfettamente la sua conoscenza del tedesco per lavorare con loro da interprete. Alla fine arrivò, non si sa come, a Cosenza, si insediò in caserma e semplicemente aspettò che arrivassero gli alleati. Sfruttò l’occasione, almeno così raccontò poi, per redigere un breve saggio scritto in italiano antico e aulico a cui dette il nome: “Dell’importanza dello Re nel giuoco del tressette”.
Intermezzo nel racconto: nostra nonna Michela aveva anche i suoi lati più leggeri. Per esempio ogni sera dopo cena, dopo aver lavato e messo via le stoviglie, si sedeva davanti alla TV sulla sedia che era riservata esclusivamente a lei nella posizione migliore della camera, e declamava regolarmente: “Adesso mi siedo e guardo la TV, anche se la Teresina mostra il culetto” e si accendeva con gusto uno “spagnoletto”, come lo chiamava lei (nella nostra famiglia non fumare era inconcepibile). Fra l’altro aveva l’abitudine di usare spesso le frasi che sentiva da piccola a casa sua e che erano tutte, diciamo così, “succose”. Per esempio di uno che agiva senza sapere bene cosa fare, sbandando a caso di qua e di là, diceva sempre: “E’ come uno che piscia camminando”. Per non menzionare il cartello appeso nel gabinetto della locanda di casa a Dutovlje, che recitava in sloveno facendo rima: “Chi con il dito si netta il culo, che se lo metta in bocca e non sul muro”. Con gli anni, forse anche perché ha gestito per tanti anni una trattoria, sviluppò una vera passione per il gioco delle carte, passione ereditata da Pepi e attraverso lui fra l’altro anche da me. Personalmente non ricordo un periodo, per quanto fossi piccolo, nel quale non sapessi giocare a briscola e tressette. Non andavo neppure ancora a scuola che mi ricordo che nel pomeriggio, quando non c’era nulla di più produttivo da fare, passavo con nonna ore a giocare briscola e tressette in due. La mia sola presenza permise così, per la grande gioia di nonna e papà, di mettere in piedi molte sere dopo cena un tavolo di “vero” tressette e briscola a coppie, io e papà contro mamma e nonna. L’unica che in tutto ciò soffrisse non poco era mamma Irma che non amava il gioco delle carte, ma che era costretta a farlo per rendere felici noi altri tre.
Quando gli alleati arrivarono finalmente a Cosenza l’Italia era già loro alleato, per cui papà, assieme a quei pochi soldati italiani che erano con lui, intraprese assieme a loro l’intera campagna di risalita dello Stivale. Fu a Cassino, sulla linea gotica, ebbe grossissimi problemi con i Marocchini, che erano inquadrati nelle file dell’esercito francese gollista, che una volta volevano addirittura sparargli come traditore (solo perché faceva parte dell’esercito italiano), e fu salvato all’ultimo momento dagli inglesi verso i quali papà nutrì sempre una grande ammirazione (“loro sì che erano veri militari, coraggiosi, disciplinati, abituati all’indigenza, non come gli Americani che erano mollaccioni viziati che non andavano da nessuna parte se non avevano a disposizione tutti i confort possibili”), ma alla fin fine se la cavava. Il problema era a Trieste: da quel fatidico 8 settembre del 1943 né sua mamma né la fidanzata sapevano nulla di lui, cosa facesse e se fosse ancora vivo, per cui si può immaginare la loro sconfinata gioia e il sollievo provato alla notizia, a tedeschi ormai arresisi, che stava tornando a casa.
I primi anni dopo la guerra furono ovviamente difficilissimi. Nonna aveva ancora la trattoria, ma è solo ovvio che in quei tempi rendesse poco e viveva in sostanza della modestissima pensione che aveva per merito del marito (ovviamente decurtata drasticamente dalla terribile inflazione di guerra). A casa c’era ancora Edi che si era nel frattempo iscritto al liceo tecnico Volta, e non poteva ovviamente contribuire alle finanze familiari. Nada era ancora a Vienna impegnata nei preparativi del matrimonio con Bruno, per cui il nucleo degli abitanti fissi dell’appartamento di Via Commerciale era ridotto a sole tre persone, nonna, papà e lo zio, tenendo però ben presente che le presenze di Irma erano diventate nel frattempo praticamente fisse, Irma che poteva aiutare grazie a qualche supplenza a scuola e qualche studente di pianoforte (nel frattempo si era diplomata). Un grosso problema era che papà non si era ancora laureato. Per fortuna le condizioni postbelliche e le conoscenze maturate durante la risalita dell’Italia permisero a papà di fare una toccata e fuga a Napoli e lì in breve tempo riuscì a ottenere l’agognato diploma. Va qui aggiunto a mo’ di completezza che Bruno, che era nelle identiche condizioni di Pepi, nel senso che gli mancava solo la tesi per laurearsi in matematica, tergiversò tanto (tipico suo) per avere la tesi più perfetta possibile che alla fine, quando la finì e intendeva difenderla, si sentì rispondere: “Signor mio, guardi che sono già passati più di otto anni dal suo ultimo esame, per cui non possiamo accettarla”. Bruno non diventò dunque mai dottore, ma era comunque tanto bravo e capace che scalò tutta la scala della contabilità alla Stock diventando alla fine il capo contabile per una paga che papà poteva solamente sognarsi. Quando bisognava presentare il 740 andavamo tutti da lui perché ci dicesse se fosse tutto a posto. Zio Bruno aveva infatti inventato negli anni una formula magica grazie alla quale, avendo a disposizione solamente le informazioni di base, riusciva in pochi secondi a darti la cifra esatta che dovevi versare allo Stato. E, regolarmente, dopo che ti eri esaurito per ore a fare somme, detrazioni, agevolazioni, non imponibilità e tutte le altre cose astruse che ti costringevano a fare, e alla fine arrivavi alla cifra che dovevi, questa era fino alla lira esattamente la stessa che zio Bruno aveva calcolato in pochi secondi. Quando gli chiedevamo come ci fosse arrivato, semplicemente scrollava le spalle e diceva: “Basta capire la perversa mentalità della burocrazia italiana, poi è tutto facile.”
Il giovane professore Josip Tavčar si mise ovviamente subito alla ricerca di un’occupazione e alla fine la trovò, probabilmente anche perché nessuno voleva accollarsi l’impresa che papà affrontò con sommo coraggio. Nel 1946 diventò il professore annuale di lingua e letteratura slovena presso il Ginnasio italiano di Capodistria, città compattamente italiana (papà diceva sempre con grandissima onestà che secondo tutti i censimenti nel centro cittadino di Capodistria – l’isola – viveva una sola famiglia che si considerava slovena), che dopo la guerra era stata occupata dagli jugoslavi. Tutti sappiamo quanto drammatiche fossero allora le circostanze politiche e quali conflitti nazionali fossero allora presenti. E il giovane 26-enne Pepi lo sperimentò sulla propria pelle. Secondo quanto disse anni dopo, quando il primo giorno si presentò a scuola dopo un’ora di viaggio in vaporetto e volle entrare in classe tutti gli studenti abbandonarono la classe in modo dimostrativo lasciandone dentro uno solo che leggeva ostentatamente un giornale. Papà non si scompose: entrò, compilò diligentemente il registro di classe e si mise ad attendere. Dopo un po’ che non successe nulla si rivolse all’assorto lettore e gli disse: “Guarda amico, sono un supplente, sono un giovane al primo impiego, sono qui del tutto contro la mia volontà e non c’entro nulla con le vostre faccende che non potrebbero interessarmi di meno. Mettiamoci d’accordo: gli altri entrano e si siedono, almeno sono al caldo, io faccio la mia lezione, voi, se volete ascoltare, fatelo, se no fate quello che volete, basta che lo facciate in silenzio.” Alla fine li convinse a fare come aveva detto e riuscì a finire la lezione nel silenzio generale. Col tempo qualche studente cominciò ad ascoltare qualcosa di quello che diceva, e fra di loro c’era un ragazzo dell’interno dell’Istria di nome Fulvio Tomizza, che rimase incantato, così almeno disse poi lui, dallo struggente racconto breve di Ivan Cankar “Mater je zatajil” (Ha disconosciuto la madre) e si mise a pensare che tutto sommato anche gli odiati s’ciavi hanno dei sentimenti e sono proprio come loro legati alla propria madre e dunque l’umanità è in effetti una sola. Successivamente, quando Tomizza cominciò a scrivere il suo primo e più famoso romanzo Materada, succedeva che ci facesse spesso visita per ricevere consigli da papà, allora già noto critico letterario, consigli che Tomizza recepiva puntualmente. Ero ancora piccolo, ma mi ricordo bene del rispettoso signore che veniva a casa nostra, per cui posso in prima persona testimoniare che quanto racconto è perfettamente vero. Quando papà morì Tomizza scrisse a mano una lunga e straordinariamente commovente lettera che consegnò a mamma, lettera nella quale con parole alte e fortemente sentite parlava di papà e di cosa avesse significato per lui. Purtroppo lessi la lettera una volta sola, prima che mamma la prendesse e la nascondesse fra le sue più sacre reliquie e da allora non l’ho più vista. E il grave è che non saprei neanche da dove cominciare a cercarla (per noi maschi le logiche femminili di dove mettere le cose rimarranno sempre un mistero insolubile).
Che fosse apprezzato e che gli volessero bene ho anche un’altra prova. Tanti anni dopo giocando a bridge incontrai al circolo una signora andante verso l’anziano che era una bravissima giocatrice con la quale instaurai un ottimo feeling bridgistico, tanto che un anno partecipammo come coppia al campionato italiano per squadre miste a Salsomaggiore, il centro italiano per il bridge. Mentre eravamo in viaggio verso l’Emilia la signora, Bruna Vecchiet, sposata Rossi, esule di Capodistria, mi domanda improvvisamente: “Scusa, ma avete lo stesso cognome, conosci per caso il professor Pepi Tavčar?” Alla mia meravigliata risposta che in effetti lo conoscevo bene, visto che era mio padre, mi fa: “Sai, lui è stato nostro professore al liceo e ci insegnava sloveno, ma malgrado ciò gli volevamo molto bene, perché era una persona fantastica e un grande uomo”. Queste parole uscite dalla bocca di una signora che dopo la guerra era fuggita da Capodistria e che perciò odiava gli slavi sono ancora oggi quello che io ritengo il più bel complimento che abbia mai sentito su mio papà.
Dopo quell’inizio burrascoso a Capodistria papà trovò finalmente un posto come professore di inglese al liceo sloveno di Trieste, in più collaborava con brevi articoli di commenti culturali con il Corriere di Trieste, giornale che usciva all’epoca dell’occupazione alleata e del Territorio libero per fungere da contrappeso all’irredentista Piccolo, e anche con la Radio Trieste A, l’emittente ufficiale in lingua slovena. Nello stesso tempo anche mamma cominciò a lavorare molto più regolarmente con supplenze annuali entrando nel giro delle supplenti di prima fascia, diciamo così, così che la situazione economica cominciò decisamente a migliorare. Pepi e Irma cominciarono dunque a pensare seriamente al matrimonio che ebbe luogo il 14 di dicembre del 1947, e allora mamma si stabilì anche ufficialmente nell’appartamento del marito, che era comunque, bisogna sempre averlo in mente, a nome di nonna Michela, che come vedova in pensione aveva una serie di forti agevolazioni per il pagamento dell’affitto, dunque tecnicamente Pepi, almeno fino a che non ci stabilimmo nel 1964 a Opicina, ha sempre vissuto sulle spalle della mamma.
Il 26 di gennaio del 1950 la famiglia si allargò di un elemento: me. Allora viveva ancora con noi zio Edi che si era appena diplomato al Volta (ricordo che quando nacqui non aveva ancora compiuto i 19 anni) ed era alla ricerca di lavoro che avrebbe trovato solo molto più tardi, cinque anni dopo. Durante questo tempo lui fu per me una specie di fratello maggiore con il quale adoravo giocare. Zia Mimi mi aveva mandato da Vienna per regalo il “Matador”, una specie di rudimentale Lego di legno dell’epoca, con cui assieme a zio assemblavamo improbabili microfoni e facevamo finta di comunicare fra di noi in una specie di americano inventato per l’occasione durante le nostre avventure nello spazio. Mi divertivo un mondo e in effetti per tutta la vita ho sempre considerato zio Edi più che uno zio un fratello maggiore (se devo fare una classifica su a che zio ho voluto più bene non c’è proprio partita), e anche lui voleva molto bene a me, in quanto gli ricordavo molto da vicino Pepi, fratello che lui idolatrava (una volta mi disse: “Sergio, tu non potrai mai sapere che parata di cuori femminili infranti ci fu in giro per Trieste quando fu ufficiale che Pepi si era messo con Irma”). Bisogna ricordare che Pepi fu, dopo la prematura morte del padre, da quel momento in poi una specie di sostituto padre e educatore per Edi, cosa che zio Edi mai dimenticò.
Purtroppo per trovare lavoro zio dovette emigrare da Trieste e verso la fine del 1955 andò a Sesto San Giovanni presso Milano, dove aveva trovato un posto come perito elettrotecnico presso la Magneti Marelli. Lì mise radici, conobbe una ragazza di famiglia molto benestante (cosa che poi suo figlio Pietro seppe replicare con maestria più volte) che agiva nel campo delle macchine per il caffè (Rancilio) a Parabiago e alla fine si fidanzò con lei. Ricordo come accompagnai nonna in treno a Milano, quando andò a “negoziare” con la futura consuocera, negoziati che terminarono molto velocemente con successo, per cui non c’erano più ostacoli e nel 1961 Edoardo Taucer e Gina Rancilio convolarono a solenni nozze a Sesto San Giovanni. Mi ricordo che era estate e c’era un caldo opprimente, così che Anni e io non partecipammo alla cerimonia e rimanemmo piuttosto a casa della signora che aveva ospitato Edi per tutti quegli anni. Edi poi si stabilì a Parabiago presso il lago di Lugano a casa della moglie, che l’anno successivo mise al mondo il primo figlio che in onore della nonna fu chiamato Michele (fra l’altro il primogenito del secondo figlio di zia Mimi Otto ha lo stesso nome, come pure Michele si chiama il secondogenito di mia cugina Anni – il nome del primo? Sergio, che diamine…). Zio poi trovò un lavoro molto più remunerativo come responsabile per il nordest dell’Italia delle vendite della fabbrica francese di dispositivi elettromeccanici Crouzet (per esempio zio mi disse una volta che i timer che fecero esplodere la bomba in Piazza della Loggia a Brescia erano stati prodotti dalla sua ditta e che non era affatto escluso che fosse stato proprio lui a venderli), per cui si trasferì a Padova, dove nel 1967 nacque anche il secondo figlio Pietro, che è dunque temporalmente il nostro ultimo cugino. Il più vecchio di tutti i cugini che abbiamo io e Loris, Pino, il primogenito di zia Bianca, ha ben 38 anni di più (è ancora vivo e arzillo e vive a Milano, dove fu per lunghi anni ingegnere all’IBM), cosa che è di per sé interessante, quasi un record.
Il ramo familiare di zio Edi è l’unico che abbia eredi maschi, che per qualche tempo porteranno ancora il nostro cognome. La cosa triste è che il figlio di Michele Edoardo (classe 2008) e quello di Pietro Marco (classe 2011) sono intanto ufficialmente Taucer, se non addirittura Taucher, come si firma Pietro che è (fra le tantissime altre cose) un musicista che suona le tastiere in giro per il mondo con vari gruppi anche negli USA e proprio per questo ha cambiato la grafia del cognome, perché gli Americani lo leggessero nel modo giusto, dunque tutto meno che l’originale Tavčar, e in più sono ormai italiani a tutti gli effetti che nulla sanno né nulla loro interesserà mai di sapere della famiglia del nonno e del perché di un simile cognome “esotico”. Zio Edi infatti è morto improvvisamente per un attacco cerebrale nel 2014 all’età di 83 anni, quando i due nipoti erano ancora molto piccoli e dunque mai ha avuto la possibilità di raccontare e di spiegare loro le radici della sua, e dunque anche della loro, famiglia delle quali era molto fiero. Ogni volta che tornava a Trieste andava per prima cosa all’Obelisco per ammirare il panorama e lo sentivi mormorare fra le lacrime: “Mama mia, che bel che xe, no xe bel?”. Fra l’altro prima di morire ordinò che fosse cremato e che poi le sue ceneri fossero sparse nel nostro golfo, ma zia Gina non gli obbedì e ancora adesso tiene l’urna gelosamente con sé e non lascia che nessuno, neanche i figli, le si avvicinino.
Quando dunque zio Edi seguì le sue necessità di sopravvivenza e andò via da casa rimanemmo in Via Commerciale solamente in quattro, nonna, papà, mamma e io. Non per molto. Arrivò il 1956 e mamma annunciò orgogliosamente di essere nuovamente incinta. Mi ricordo benissimo quando accompagnò al piano i suoi allievi dei Ricreatori che avevano messo in piedi uno spettacolino di fine stagione e di che fatica facesse, con il pancione che si ritrovava, ad arrivare a premere i tasti. Non solo, ma proprio in quell’epoca ricevette la più bella notizia di sempre e mi ricordo ancora vividamente, ero presente, di come l’avesse comunicata a papà che era appena ritornato da scuola: “Pepi, son diventada de ruolo!”. Ci fu ovviamente una grandissima festa.
All’epoca cominciò a imperversare per l’Europa l’influenza cosiddetta asiatica e ovviamente io la presi subito (se c’era da qualche parte qualche malattia, ero sempre fra i primi a prenderla). Era la settimana di Pasqua e ancora adesso mi ricordo di essermi svegliato nel mio lettino (dormivo in un lettino separato nella stanza dei genitori) e il mio sguardo vagava fra le tante uova di cioccolato che mi erano state regalate dai vari zii e che facevano bella mostra di sé sopra l’armadio dei vestiti, quando sentii nonna piombare in camera gridando: “Sergio! Hai avuto un fratellino! È nato stanotte!” La mia risposta fu uno strascicato: “Aah?”. Nonna, da donna estremamente pratica, si precipita verso il termometro, me lo infila sotto l’ascella, guarda, vede 40,8 e comincia subito: “Sergio, quanto fa 6 per 7?” “42” “Quanto fa 5 per 8?” “40” e così via per un po’ di tempo. Voleva vedere se deliravo. Per fortuna ero cosciente, anche se non certamente nella forma migliore.
Per il secondo figlio papà e mamma si ingegnarono a cercare un nome particolare, perché non volevano ripetere l’errore commesso con me, quando mi chiamarono con un nome che era diverso in italiano e in sloveno. Quando andai a scuola, dapprima mi imposero il nome di Sergej, poi passarono a un più tollerabile Sergij, nome che mi rimase appiccicato fino alla fine degli studi. Il fatto è che odiavo ambedue i nomi e mi ricordo di quando, dopo il primo giorno di scuola, ritornai a casa piangente lamentandomi: “Ma perché tutti mi chiamano Sergej, Sergij? Io sono Sergio!” Grazie a Dio in tarda età sono riuscito a recuperare il mio nome vero e originale.
Il figlio lo chiamarono dunque Loris assicurandosi così che nessuno potesse in qualsiasi modo distorcerlo o corromperlo. Mamma e papà desideravano che almeno il secondo figlio nascesse nelle migliori condizioni possibili, per cui mamma partorì in una clinica privata (per non far nomi una clinica che c’è ancora adesso nel Borgo Teresiano). Ovviamente come spesso succede quando vuoi fare il perfezionista accadde che alla nascita gli fratturarono maldestramente l’osso del braccio sotto la spalla e se ne resero conto ore più tardi, quando il povero neonato non voleva smettere di piangere (io, nato nel trambusto dell’Ospedale maggiore, non ho avuto alcun tipo di problema). In clinica il primario cercò patetiche scuse e se ne uscì con l’affermazione che “si trattava di una frattura congenita”, al che il nostro dottore di famiglia, precipitatosi in clinica per vedere cosa stesse accadendo, sbottò di rimando: “Lei la xe un mona congenito!”.
Finalmente, una volta ridotta e fissata la frattura, il piccolo Loris poté finalmente addormentarsi. C’era però un altro problema, ben più grosso: a casa c’ero io, contagiato da una pesante influenza, e dunque non si parlava neppure che mamma potesse tornare a casa con il neonato. Ragion per cui se ne andò per qualche settimana ad abitare presso la sorella Bianca a San Giacomo (Via dell’Istria 50, nel celebre “Vaticano”), dove aveva già abitato da giovane prima di stabilirsi da noi dopo il matrimonio, e aspettò pazientemente che io guarissi e che la frattura si sanasse. Personalmente ho dunque conosciuto mio fratello quando aveva già più di un mese.
Con la nascita di Loris penso di poter concludere la storia. Il seguito, quando papà era già un affermato uomo di cultura, è più o meno noto a tutti (lo stesso anno della nascita di Loris fu messa in scena la sua prima opera teatrale “Prihodnjo nedeljo”). Se a qualcuno interessa qualche particolare in più riguardo all’attività teatrale di papà si rivolga direttamente a Loris che ne sa molto più di me, in quanto dei due figli ad ereditare dal padre l’amore per il teatro è stato solamente lui. Io, dal mio canto, ho ereditato la passione per lo sport e le carte da gioco, e un po’ immodestamente posso anche onestamente affermare di aver ereditato anche in parte la sua facilità di scrittura e di racconto, tutte cose che mi hanno sempre dato soddisfazione. Devo anche dire che ho imparato da lui (come anche da mamma), proprio come Loris, la capacità di entrare in contatto con il prossimo per spronarlo a studiare. Io penso di essere stato un bravo allenatore, ma soprattutto bravo pedagogo e motivatore, proprio come Loris che è uno stimato e eccellente professore di matematica.
Nonna e papà rimarranno per sempre nella mia memoria come le due persone che mi hanno saldamente guidato per tutta la vita, e che ho immensamente amato. Nonna morì nel 1978, papà solo 11 anni dopo. Sono passati dunque più di 40 e rispettivamente 30 anni da quando non ci sono più. Però non passa un giorno che non pensi a loro e che non mi manchino terribilmente, rendendomi così continuamente conto del desolante vuoto che hanno lasciato in me, vuoto che nulla mai potrà riempire.