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Come primissima cosa, una cosa che mi sgorga dal cuore infranto e offeso, vorrei dire a tutti quanti che venite a Trieste di dare sì ascolto a quanto vi dice Franz, ma non solo, e soprattutto NON solo, a quanto vi dice lui. Nella sua rassegna delle cose da visitare a Trieste, ma soprattutto dei luoghi dove andare, ha dimenticato in modo che ancora mi fa incazzare la cosa che fa di Trieste la più bella città del mondo (scusate, ma sono un tantino di parte), e cioè il Carso che le sta alle spalle. E tutto ciò per una semplicissima ragione: se non ci fosse il Carso alle spalle di Trieste a più di 300 metri di altitudine, raggiungibile in dieci minuti di macchina dal centro città, nessuno potrebbe ammirare estasiato la straordinaria vista della nostra città e del nostro golfo. Salendo ai punti giusti nei giorni di bora, quando l’aria è limpida, si può ammirare a sinistra tutta la penisola istriana fino alla punta di Capo Promontore (per i cronisti sportivi della Rai, tipo Bizzotto, per i quali Fiume è Rijeka e Capodistria Koper, Premantura) con vista anche sulle coste di Cherso (sempre per i cronisti di cui sopra Cres, attenzione, si legge Tzres), mentre a destra dietro alle Prealpi venete si vedono in tutto il loro splendore le Dolomiti.

Guardando avanti con un buon binocolo si può vedere Piazza San Marco con il campanile e la laguna, guardando indietro si vede il Tricorno (questo sì si dovrebbe chiamare Triglav, perché nella Gorenjska l’italiano non è lingua ufficiale come a Capodistria, Isola, Pirano, Umago, Cittanova, Parenzo, Rovigno, Pola, Fiume…etc.). E inoltre l’altipiano stesso offre tutta una serie di magnifiche passeggiate, dal sentiero Cobolli, che parte da Opicina per arrivare al Santuario di Monte Grisa e che si svolge in un magnifico bosco per arrivare alla spianata del Santuario, dal quale si gode una vista straordinaria sul golfo, alla scalata sul monte Lanaro (Volnik) e ancora alla visita della grande dolina di Percedol (Prčen’ Dou), la più grande e profonda dolina del carso triestino, oltre 60 metri di dislivello, peculiarità carsica se ce ne è una, con lo stagno in fondo, dotato di un particolare microclima da mezza costa alpina e che dunque ospita specie di fauna e flora tipiche delle Prealpi. Della famosa Napoleonica, la strada pedonale che collega l’Obelisco di Opicina a Contovello, paradiso per i runners di tutta Trieste, che offre panoramiche mozzafiato, non parlo neppure. Come non parlo dell’altrettanto famosa Grotta gigante che i partecipanti alla sconvenscion di due anni fa conoscono, visto che l’abbiamo tenuta al suo imbocco. Insomma, se Trieste vale una visita, il Carso ne vale un’altra a parte.

Per rispondere a Fabio V (i primi quattro, chi sono?) che mi chiede un commento sulle vicende della Superlega di calcio e sull’Eurolega un rimando a lui e chi non lo ha ancora letto al commento che ho fatto nel pezzo immediatamente precedente a quello scorso, pezzo che, lo ammetto con un po’ di imbarazzo, più lo leggo, più mi piace e mi sembra fra i migliori pezzi che abbia mai postato. Una volta tanto mi è riuscito come volevo io. Tutto qua quello che sai fare? Direte voi. Cosa volete che vi dica. Per roba da alta letteratura di impianto psico-socio-filosofico pieno di dotti rimandi e di citazioni letterarie dovrete rivolgervi da qualche altra parte.

Sulla domanda che mi viene fatta sull’hockey su ghiaccio, del quale dovrei essere un esperto, e sul come prosperasse una Lega formata da sole sei squadre che continuavano a giocare in continuazione l’una contro l’altra, posso solo fare congetture che si ricollegano al discorso fatto nel post sopra citato. Intanto constato con raccapriccio e disagio che l’aura di “leggenda storica” che mi circonda è ai miei occhi totalmente incomprensibile e mi provoca non poca angoscia. Ripeto per l’ennesima volta, magari a beneficio di chi non avesse ancora letto il mio libro, che ho cominciato la mia carriera sì con l’hockey, ma totalmente per sbaglio, e che si trattava allora di uno sport che seguivo da perfetto giovane tifoso che voleva solamente vedere chi vinceva il titolo jugoslavo (poi sloveno) nel sempiterno e sentitissimo derby fra Olimpija e Jesenice. Ovviamente, come ho avuto già modo di dire, il mio tifo andava contro la squadra della grande città a prescindere dallo sport che seguissi, fosse calcio, basket o in questo caso hockey, ma tutto si esauriva lì. Parentesi: qualche giorno fa si è concluso il campionato sloveno. Serie al meglio di cinque ovviamente fra Olimpija e Jesenice con svolgimento drammatico. Tutte vittorie fuori casa fino a gara cinque a Lubiana. L’Olimpija va sul 2 a 0, viene raggiunta sul due pari, si va al supplementare e lo Jesenice vince con un gol all’incrocio dei pali quasi dalla linea blu di un terzino 18-enne, prodotto del vivaio. Ho goduto, devo ammetterlo, ma soprattutto mi sono commosso pensando al sogno di tutta una vita che si realizza per un ragazzo che ha cominciato a giocare sperando solamente di battere l’Olimpija e che lo fa al primo tentativo con un gol di quelli che poi si raccontano per tutta la vita ai nipotini. A quanti è mai capitata in tutta una carriera una fortuna e una soddisfazione di questo tipo?

Per tornare al discorso principale è chiaro che all’epoca, dovendo commentare l’hockey, ho provato a farmi una cultura aggrappandomi ad ogni fonte che potessi avere. Solo che all’epoca, e la cosa è impossibile da spiegare ai ragazzi di oggidì, abituati ad accedere ad ogni informazione possibile e immaginabile con un solo clic sul telefonino, raccogliere informazioni su uno sport esotico e praticamente sconosciuto in Italia che si svolgeva dall’altra parte dell’oceano, e addirittura non negli Stati Uniti, ma in Canada, era un’impresa al limite, se non oltre, dell’impraticabile. E infatti quanto sono riuscito a scovare è stato solo grazie allo Sport di Zurigo e al Sovjetskij Sport (in Svizzera e in Russia l’hockey è sport molto importante) che ricevevamo in redazione con tutta l’enorme difficoltà per me nel capire quanto fosse scritto in tedesco o addirittura in russo in caratteri cirillici. Per cui mi sono arrabattato, ma chiaramente quanto ho saputo è stato assolutamente insufficiente per poter dire di conoscere la materia. Posso fare dunque solo supposizioni. Qui il paragone con quanto succedeva in Slovenia con l’Olimpija e lo Jesenice mi sembra che offra qualche chiave fondata di lettura. In Slovenia succedeva che tutte le altre partite di campionato che non fossero il derby erano semplicemente un antipasto fastidioso, ma necessario, per il redde rationem finale. Se il campionato fosse stato solo una lunghissima serie fra queste due squadre sarebbe stato molto meglio per i tifosi di ambo le parti. Le motivazioni erano enormi e tutte legate al solito motivo di campanile e di rivalità storica, quella che fa sì, come ho tentato di spiegare (pensavo di averlo fatto, ma dai vostri commenti mi sembra di capire che non abbiate percepito la fondamentale e dirimente importanza di questo fatto che condiziona alla fonte qualsiasi discorso successivo), che la percezione dello sport che si ha in Europa sia totalmente diversa e inconciliabile con quanto succede in America. Penso che nella Lega primigenia dell’hockey, quella canadese che comprendeva squadre solo di quella nazione, molto più “europea” per mentalità di quanto non lo siano gli USA, le condizioni di contorno fossero molto simili a quelle europee. Rivalità storiche fra anglofoni e francofoni (e infatti i Canadiens di Montreal vivevano quasi solo nella speranza di battere gli odiati Maple Leafs di Toronto), fra città della costa est e quelle della costa ovest, per quelli dell’est buzzurri nati ieri, per non parlare delle squadre tipo Calgary e Edmonton, squadre che rappresentavano città che in realtà nessuno calcolava, mentre loro volevano a tutti i costi raccogliere visibilità e rispetto, per cui ci davano dentro alla grande. Ecco, penso che questo fosse il motore principale del grande successo della Lega a sei, poi annacquato e stravolto dall’ingresso delle squadre statunitensi che hanno portato nella Lega la mentalità dello sport professionistico americano, riducendo l’NHL a una delle leghe fra tante. Penso però che tutti i canadesi, per i quali l’hockey non è uno sport, ma una religione, ricordino quei tempi con straordinaria nostalgia e rimpianto.

Attualità con le prime partite dei playoff del nostro campionato. No Mercy (bentornato! Dov’eri?) mi chiede qualche commento sulla serie fra Brindisi e Trieste. Dico subito che non ho visto gara due (per fortuna, pare), ma quanto ho visto di gara uno mi basta e avanza. Dico subito che dopo i primi promettenti minuti, quando è cominciato quello che il massimo poeta sloveno definirebbe “non una battaglia, ma un vile macello” ho girato canale più volte non riuscendo proprio a sopportare lo strazio. In questi casi uno spera che sia lui a portare la sfiga, per cui si illude che cambiando canale per qualche minuto poi, quando ritorna, i suoi magari si siano rimessi in piedi e siano ritornati in partita. Non era il caso stavolta e sembra che non lo sia stato neanche nella seconda partita. Secondo me la ragione per cui si è svolto questo massacro è abbastanza semplice: Brindisi, come ho già avuto modo di dire quando vinse a Milano (venendo anche un po’ deriso perché per i milanesi, quando loro perdono, è solo perché loro non si sono impegnati abbastanza – classica boria da capoluogo, ed ecco perché faccio il tifo contro le squadre delle metropoli a prescindere, proprio perché non sopporto la puzza sotto il naso nei commenti, sia dei tifosi che della stampa), mi sembra una squadra molto forte, strutturata in modo eccellente con i giocatori giusti al posto giusto, allenata molto bene con le gerarchie giuste e la divisione dei compiti che si vede chiaramente, che può magari perdere qualche partita incappando in una giornata storta dei giocatori chiave, ma che ha proprio l’ossatura e l’impianto per fare bene nelle serie a più partite. Farò anche ridere, ma mi sembra che, se non si montano la testa pensando di volare alla Icaro, abbiano concrete possibilità di fare il colpaccio, soprattutto se Milano, che, dopo averla vista tante volte ne sono sempre più convinto, è una squadra fondata sul valore dei singoli senza un preciso impianto di gioco, lo dico e lo ripeto contro tutto e tutti per l’ennesima volta, dovesse essere un po’ sulle ginocchia dal punto di vista mentale a causa del doppio impegno. Di contro di Trieste ho visto con raccapriccio il solito Doyle, giocatore a cui qualcuno dovrebbe finalmente spiegare quali sono gli obiettivi strategici e tattici che uno dovrebbe perseguire in una partita di basket, perché a questo livello proprio non ci azzecca una, ho visto che nessuno faceva mai canestro, ma questo può succedere, quello che non deve mai succedere è però essere totalmente assenti ai rimbalzi in difesa. Soprattutto il nostro lettone, di cui dovrei capire le doti, perché in attacco segna raramente (con quella meccanica di tiro, inusuale e inaudita per un baltico, non è un caso) e in difesa sembra, anzi è, o per meglio dire lo è stato giovedì, che si trovi sempre dove non è di nessun aiuto. Quando parte un tiro avversario uno può fare due cose: o andare a rimbalzo o fare un tagliafuori. Rimanere lì a vedere cosa succede no. Se fosse stato un mio giocatore lo avrei assalito fisicamente e mi sarei preso anni di squalifica. Ma non è stato solo lui ad essere inguardabile a rimbalzo difensivo. Dormivano tutti e Brindisi poteva scorrazzare a suo piacimento. Penoso. Proprio perché questo è un segmento del gioco che prescinde da qualsiasi analisi tecnico-tattica. E’ una cosa che si deve fare per forza quando si scende in campo. Se no si rimane a casa.

Delle altre partite che ho visto la cosa che più mi ha colpito è stato come, sia in Venezia-Sassari che in Virtus-Treviso, non ci sia stato nessuno che sia riuscito a giocare in modo umano gli ultimi minuti della partita. Ho visto puttanate inverosimili in situazioni nelle quali bastava un po’ di calma e di raziocinio per portare a casa la partita senza patemi di alcun tipo. Sassari è stata clamorosa nel finale con tutti i tiri che se li prendeva il loro lituano, che ieri non avrebbe centrato neanche una piscina, mentre sembrava solo normale che tutto il gioco dovesse essere finalizzato a far sì che potessero tirare Krušlin o Katić, gli unici che sembravano avere la testa sulle spalle. In questo mi ha meravigliato il marasma nel quale sono piombati sia Spissu che Gentile che pure sono giocatori che apprezzo tantissimo. Che poi Venezia abbia difeso benissimo è sicuramente un suo merito, ma come sapete sono sempre stato e sempre sarò dell’opinione che, per quanto una difesa possa essere forte, se l’attacco è altrettanto forte, prevale sempre l’attacco. L’attacco sono i bianchi degli scacchi che hanno sempre una mossa di anticipo sui neri, it is as simple as that.

Mi preoccupa anche la Virtus. Rimango sempre in attesa che mi vengano sciorinate e dimostrate le doti di Pajola che, mi assicurate, è molto forte, ma io vedo sempre uno che in attacco passa la palla sempre e solo esclusivamente a quello più vicino e quando prende una qualche iniziativa fa come ieri nel finale, quando dopo una serie di piroette senza senso scaglia da un metro un tiro che non prende neanche il ferro, e in difesa, dove è sicuro molto meglio, fa anche cose come ieri nel finale, quando ha fatto due falli imbecilli, soprattutto il secondo su Sokolovsky che poteva costare molto caro. Però mi dite che è forte e mi tocca credervi, perché se no è meglio che non mi presenti neanche a Bologna rischiando il linciaggio da parte di tifosi inferociti. In più rimane il mistero Belinelli e la cosa paradossale è che l’unico a capire il problema sembra essere lo stesso Belinelli, non certamente il telecronista dal cognome polacco che non ricordo mai come si chiami, non avendolo ancora conosciuto di persona. Belinelli dapprima segna una tripla che in condizioni normali di mente sgombra avrebbe dovuto chiudere la partita e lo fa facendo quello che dovrebbe fare sempre: esce da un blocco, riceve e tira. L’ha sempre fatto benissimo e, se si limitasse a fare solo quello, un po’ quello che faceva Antonello Riva (ma lui aveva accanto a sé Marzorati!), sarebbe un giocatore devastante. La stampa compiacente della sedicente Basket City lo ha incensato talmente quando era piccolo che si è montato la testa e si è convinto di essere un giocatore che sa costruirsi da solo un buon tiro. E invece non l’ha mai saputo fare e lo ha dimostrato ieri proprio nell’azione dopo quando, dopo un vagabondaggio senza senso per il campo, ha sferrato un tiro obbrobrioso. Il bello è che a rendersene conto è stato lui stesso ricordandolo al cronista che lo intervistava dopo la partita, cronista che della immane cavolata, come l’ha definita lo stesso Belinelli, non se ne era neanche accorto, o l’aveva sorvolata di proposito per non rovinare il suo panegirico. Non è così, secondo me, che si fa il bene del basket. Il basket italiano avrebbe dovuto avere molto di più da un talento come Belinelli se tutti, i suoi tecnici, la stampa e tifosi, l’avessero indirizzato sulla via giusta quando era ancora un bambino e invece l’hanno un po’ rovinato, cosa fatta pari pari qualche anno dopo con un altro talento, Ale Gentile che, se avesse capito, o qualcuno gli avesse fatto capire a calci nel sedere, cosa sapeva fare e cosa invece no e avesse magnificato le sue qualità e nascosto i suoi difetti, avrebbe potuto avere tutta un’altra carriera.