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In questi ultimi giorni avete prodotto fra i vostri commenti tutta una serie di veri e propri articoli, per non dire trattati, su un tema che a me appassiona molto, e quando dico appassiona uso apposta questa parola, perché risveglia in me tutta una serie di sentimenti e passioni che, man mano che leggo, mi fanno salire la temperatura come si vede nei cartoni animati quando Paperino diventa sempre più rosso con l’acqua bollente che gli sale fino in testa ed alla fine lo fa scoppiare. Parlo ovviamente dei migranti: sarò anche un’anima candida, ma per me si tratta di uomini, di persone come me e voi, che hanno i loro bisogni, i loro affetti, che hanno famiglie con mogli e figli ai quali vogliono bene come noi vogliamo ai nostri. Trattarli da numeri, quanti possiamo prendere, dove li mettiamo, cosa facciamo di loro, mi fa venire il voltastomaco al solo pensare che l’umanità si sia tanto disumanizzata da solo iniziare un discorso del genere. Soprattutto in Italia, Paese che ha avuto migranti in ogni parte del mondo e che dovrebbe sapere, geneticamente quasi, cosa voglia dire andare in giro al mondo con la pancia dietro al pane, come dicono in Slovenia, e di come si sia trattati una volta arrivati. Si migra perché in casa propria non si può più vivere, non certamente per andare ad inquinare una sofisticata e opulenta civiltà, la stessa civiltà fra l’altro che per secoli ha brutalmente sfruttato quegli stessi popoli, se non li ha direttamente sterminati come hanno fatto i vari Cortes e Pizarro o anche i vari Padri Pellegrini o Custer, se è per quello.

Per cui su questo argomento sono molto suscettibile e se qualcuno ricomincia a parlare di numeri sappia che non lo bannerò certamente, ci mancherebbe, ma che ai miei occhi, per la cronaca, sarà molto poco uomo rispettabile. Come per me sono semplicemente delle merde tutti quelli che hanno vomitato insulti stomachevoli sulla povera Silvia Romano: anzi, se qualcuno tira in ballo questo argomento lo sego subito, senza pietà.

A proposito di bannare qualcuno: Edoardo, non mi passa neanche per l’anticamera del cervello di zittirti, anche perché è fondamentale avere in ogni discussione una voce discordante rispetto al pensiero “mainstream” che su questo blog professiamo Cicciobruttino, Stefano e il sottoscritto. Però sono stato tentato di farlo quando ti sei macchiato del peccato più nefando di cui potevi macchiarti scrivendo sconvenscion all’americana. Imperdonabile. Pretendo scuse. Come invece mi scuso io con Vladan per aver storpiato il suo nome. So cosa si sente: quando andai a scuola trasformarono il mio nome dapprima in Sergej, poi in un tantino più accettabile Sergij. Ero timidissimo, ma ricordo che ogni volta che mi chiamavano così piagnucolavo sommessamente: “Ma io mi chiamo Sergio…”.

Passiamo ad argomenti più frivoli, tipo il basket. Ho letto (grazie Skuer) la classifica all time dei giocatori dell’NBA che ha partorito l’ESPN. Non so che tipo di forcipe abbiano usato per partorire una cagata del genere, almeno a mio avviso, il che mi fa pensare che, o sono io totalmente rincoglionito, oppure c’è qualcosa che non va nel come venga percepito il basket oggidì. Se a qualcuno interessa come la penso io, posso anche dirlo. Se per la classifica di tutti i tempi del basket jugoslavo quelli che mi conoscete sapete che ho la mia “trimurti” di sommi col quartetto di “secundi inter pares” con gli altri a scelta fra una lista di una quindicina di possibili candidati, per il basket americano ho le idee abbastanza più chiare. Per me c’è un quartetto di giocatori di un’altra galassia, dopodiché, vista l’enorme scelta, si può discutere. I quattro sono ovviamente MJ, Larry Bird, Magic e Jabbar. Scendendo di galassia si può cominciare a fare le proprie scelte, ripeto, fermo restando che i primi quattro appartengono a altri mondi. Per esempio praticamente tutti mettono in questa lista di scudieri Lebron James, cosa che io non farei mai, ma è questione di gusti. Su Lebron sono fermamente convinto che sia l’unica vera stella in un’epoca di mezze, se non di quarti di calzetta (a parte forse Durant e Leonard, altri non mi vengono in mente), per cui è fortemente sopravvalutato. Ma tant’è, “vox clamantis in deserto”. Una cosa però, nella famigerata lista di cui sopra, salta violentemente agli occhi e ancora più violentemente sono rimasto deluso dal fatto che nessuno di voi l’abbia notata. Manca quello che ha saputo tenere in piedi l’interesse per il basket in un periodo di crisi, che ha solleticato l’immaginario di tantissimi giovani cestisti alle prime armi negli anni ’70 del secolo scorso, che era una assoluta gioia nel vedere per la sua straordinaria eleganza del gesto, che aveva sconfitto ogni legge della gravità, che era insomma l’idolo di tutti noi di quell’epoca e che è stato anche, non guasta mai, uno straordinario giocatore di basket. Parlo di un tale Julius Erving, Dr.J per gli appassionati. Non metterlo nella lista, personalmente è l’assoluto e indiscusso numero 5, è per me una bestemmia talmente grave da screditare tutta la lista a prescindere. E non basta ancora: per me al numero 6 c’è un altro giocatore che non c’è nella lista, ed è forse il più grande uomo squadra che mai abbia calcato i parquet del nostro sport, parlo ovviamente di “Big O” Oscar Robertson. Poi ci sarebbero altre cosucce, tipo: dove sono Charles Barkley e Karl Malone? Non si poteva trovare un posto, per quanto giocasse in tutta un’altra epoca, antidiluviana rispetto al basket di oggidì, per quello che è stato forse il più grande play “vero” della storia del basket, e cioè Bob Cousy? O ancora perché è stato totalmente dimenticato il secondo più grande giocatore bianco della storia, quello che, prima di un infortunio che praticamente gli stroncò la carriera, fece vincere da solo l’unico titolo finora vinto da Portland, e cioè Bill Walton? Sono ovviamente dettagli, ma rimane il fatto che una lista che non comprenda Dr.J e Big O è una lista totalmente farlocca e risibile.

E veniamo finalmente al vero punto che mi interessa, e cioè la musica, campo nel quale vedo che siete ferratissimi, e la cosa, visto quanto ho già detto riguardo a cosa significhi per me la musica, è sommamente gratificante. Ragion per cui non posso, scusatemi, non intervenire. Devo ancora delle risposte a Llandre. Ecome qua, direbbero da noi. Sulla bravura di un musicista…è come tentare di definire cosa sia l’intelligenza. Ce ne sono di tantissime, come tantissime sono le bravure di un musicista. Penso che l’abbia scritto uno di voi riguardo alla musica classica e l’esempio è semplicemente perfetto per tentare di dare una spiegazione. Il musicista dapprima esegue ore e ore il pezzo per acquisire la perfetta padronanza tecnica dell’esecuzione. La quale è però tutt’altra cosa rispetto a quello che lui eseguirà in concerto. Lì lui sacrificherà anche qualche passaggio di purezza tecnica per dare alla sua esecuzione un’anima, un’interpretazione, per far uscire il “soul”, direbbero i neri americani. Ora: per qualcuno la purezza tecnica e il virtuosismo sono le misure assolute per valutare la bravura, e del resto sono forse le uniche cose veramente misurabili, ma come per l’IQ nei test di intelligenza in realtà, secondo me, nulla hanno a che fare con la bravura vera che prescinde totalmente da quanto uno sa far girare velocemente le dita, ma presuppone che dia emozioni, che, come si dice, sappia far cantare il suo strumento, che ti commuova o faccia addirittura piangere. E ovviamente per me i più bravi sono quelli che, appunto, mi commuovono, mi fanno piangere, o ridere anche di gioia. Chiaramente con questo tipo di valutazione ognuno apprezza di più i musicisti che eseguono la musica che in se stessa a lui dà più emozioni, per cui stilare classifiche è del tutto assurdo, totalmente inutile, il classico paragone fra pere e mele. Ognuno ha i suoi e se li tiene. Io personalmente, se voglio ascoltare il piano ascolto Jerry Lee Lewis, se voglio ascoltare la chitarra ascolto, come detto, Mark Knopfler, Eric Clapton, George Harrison e tanti altri. E Jimi Hendrix, per esempio? Lui non mi commuove, né mi fa piangere, mi dà angoscia, per cui non lo ascolto. La sua leggendaria esecuzione dell’inno americano a Woodstock è indubitabilmente uno dei capolavori assoluti mai eseguiti alla chitarra, non ci piove. Ma sconvolge, sei di cattivo umore per ore a seguire, e non è quello che io desidero dalla musica. Non so se mi sono spiegato, spero di sì.

Sulla musica in studio rispetto a quella dal vivo non mi sembra che le cose siano misteriose. Dal vivo escono le emozioni, in studio vengono messe in pratica le idee, può dispiegarsi la creatività, il lavoro in studio con possibilità di aggiunte, sovra incisioni, montaggi e altri trucchi vari dà a un artista i mezzi per raggiungere l’ultimo scopo di fare un pezzo o un disco intero a sua immagine e somiglianza. I Beatles a un dato momento si stufarono dei concerti e si chiusero in studio per espandere le loro visioni e creare la musica che volevano. Cominciò John con l’ultimo pezzo di Revolver, poi con le mitiche Fragole per sempre, e infine con quel capolavoro assoluto della storia della musica che è A Day In the Life. Se avessero suonato solo dal vivo non sarebbe mai nato. Come non sarebbe nato quell’altro monumento che è Good Vibrations dei Beach Boys (con ovviamente tutto l’LP Pet Sounds).

Come si valuta la chimica sul palco? Questa è la risposta in assoluto più facile. Come dicono gli psicologi la lingua può mentire, il linguaggio del corpo mai. Quando i musicisti, o gli attori, o semplici squallidi personaggi come il sottoscritto quando parlano davanti a un pubblico, si divertono, godono in quello che fanno, partono vibrazioni che si riverberano nel pubblico amplificandosi in un continuo feedback virtuoso che fa sì che alla fine ci si accorga che solo una esibizione dal vivo può dare emozioni simili, uniche, irripetibili. A parte il concerto di Carl Perkins di cui ho già detto, ci sono altri esempi che si possono vedere su Youtube che confermano questo concetto. Poco prima di morire Roy Orbison fece un concerto (Black and White Night) con house band l’intero gruppo di Elvis (James Burton alla chitarra, Glen D. Hardin al piano, Jerry Scheff al basso e Ronnie Tutt alla batteria) e ospiti per l’occasione il suo amico Bruce Springsteen, Tom Waits, Elvis Costello e Jackson Browne con addirittura Bonnie Raitt e kdLang a fare da coriste. Guardatevi il finale nel quale tutti assieme suonano Pretty Woman e ditemi se non provate brividi. Nel ’14 o giù di lì Jerry Lee Lewis, che andava per gli 80, fece un concerto (Last Man Standing – a proposito, lui è ancora vivo e sarà lui, non Little Richard, ad essere l’ultimo che chiuderà la porta di una stagione irripetibile) che ho fatto scaricare da mia nipote da Youtube e che ascolto in auto in continuazione, con straordinari ospiti, da Solomon Burke e Buddy Gay fino a Willie Nelson, Kris Kristofferson e John Fogerty passando per Tom Jones (!), Chris Isaak e Norah Jones a rendergli omaggio cantando con lui in duetto. A un dato momento The Killer partì in una vertiginosa esecuzione di Honky Tonk Women degli Stones. Guardate la faccia che fa Ronnie Wood che faceva parte della house band (!) e ditemi cosa ne pensate. O ancora un filmato che mi fa sempre venire la pelle d’oca e che riguarda la prima esecuzione da parte di Johnny Cash di A Man in Black, canzone come dice lui nella presentazione composta la sera prima, tanto che aveva bisogno del gobbo con le parole per ricordarsi bene degli ultimi cambiamenti fatti al testo, davanti a una platea di studenti universitari che evidentemente non sapevano che stavano per sentire per la prima volta quello che è diventato a tutti gli effetti un inno ufficioso americano (un tantino reaganiano, va be’, ma mettiamoci nei loro panni). Guardate la faccia degli studenti quando esplode nel famoso verso “each week we lose a hundred fighting young men”. E guardate le facce stravolte e commosse durante l’interminabile standing ovation alla fine della canzone. Sono emozioni impagabili, uniche.

E infine musica pop. Stefano fa una disamina profonda e difficile, da sottoscrivere in pieno, anche se secondo me anche qui le cose sono molto facili. Quello che è scritto e eseguito per piacere a chi ascolta è musica pop. Si definisce dunque per negazione: non è pop tutto quello che è ricerca, sperimentazione, pippa mentale insomma. Il resto lo è. E viene valutata solo a posteriori, molto a posteriori. Quando qualcosa diventa parte dell’immaginario collettivo, quando attraverso generazioni e generazioni un pezzo rimane non solo vivo, ma diventa addirittura parte della cultura popolare, allora aveva qualcosa da dire e di conseguenza diventa immortale. Partendo dai valzer di Strauss (musica pop all’epoca, non bisogna mai dimenticarlo) si arriva a “We Are the Champions” dei Queen o, rimanendo in Italia, si arriva a Volare e Azzurro, motivi che tutti sanno e conoscono e che ormai fanno parte del bagaglio culturale italiano. Insomma bisogna valutare a posteriori. Imagine something yesterday.