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Lo spirito è forte, ma la carne è debole, dicono. Volevo subito ringraziarvi veramente di cuore per la splendida giornata passata sabato assieme con la sorpresa della poesiola (se Walter mi dà la liberatoria vorrei proporvela nel prossimo post) e degli splendidi regali, anche se devo dire che la maglia dell’Alma dubito che la esibirò in pubblico, visto che molti potrebbero essere inclini a pensare che mi si sia fuso il cervello e mi sia montato la testa. Poi però sono subentrati due fattori: il primo è ovviamente la mia pigrizia, in questo caso direi quasi accidia, corroborata molto bene dalle temperature da effetto serra, qualsiasi cosa dica Trump, che non invogliano certamente a tenere in moto il cervello, e il secondo fattore è invece quello più importante ed è legato strettamente ad uno dei regali che mi avete fatto, parlo ovviamente della autobiografia di Krešo Ćosić regalatami da Boki che non finirò mai di ringraziare per questo. 

Appena ho letto l’introduzione mi è venuta la pelle d’oca unita ad un senso di grosso autocompiacimento, perché quanto scrive il leggendario pivot zaratino riflette praticamente parola per parola quanto ho scritto su di lui nel mio libro e nel pezzo che scrissi per Superbasket. Sostanzialmente è successo che è nato almeno quaranta anni troppo presto. Ecco quanto scrive:

“Non ho mai avuto modelli a cui ispirarmi. Semplicemente non esistevano, erano lontani, irreali. Sono capitato in uno sport che a quei tempi non ne aveva. Non aveva cioè giocatori nei quali mi riconoscessi. Ho dovuto così crearmi un eroe fittizio con tutte le caratteristiche che desideravo un giorno possedere – una combinazione fra una guardia, un’ala forte e un centro vagante (“lutajući« -magnifica espressione croata dal verbo »lutati”, vagare sperduti nel tempo e nello spazio), di quelli che allora non esistevano. Per questo all’inizio non fui capito. Sono capitato in un mondo diverso da quello normale, in un mondo dalla doppia morale, nel quale prevalgono quelli che dicono una cosa e ne fanno un’altra e nel quale vieni giudicato dal tuo corpo (ricorda qualcosa dei tempi attuali?-NST). E io non avevo certamente un corpo magnifico, per cui quando videro la mia altezza e la mia magrezza dimenticarono tutte le mie altre caratteristiche quali l’intelligenza e la tecnica. Così sono da subito entrato in conflitto. Non volevo essere quello che gli altri volevano che fossi. Non volevo adeguarmi a una situazione che mi avrebbe portato al fallimento. Il mio temperamento e il mio spirito erano l’esatto contrario del mio corpo. E allora decisi: se già non posso trovare un giocatore che mi indirizzi nel mio processo di formazione, allora lo creerò in me stesso.”

Bastano queste parole per capire la incommensurabile grandezza del giocatore e dell’uomo, uno tanto lucido da capire subito di non appartenere al mondo cestistico di allora e capace di creare dal nulla un nuovo tipo di giocatore, anticipando i tempi di quasi mezzo secolo. Ecco perché continuerò sempre a dire, e da ora in poi con ancora maggiore convinzione, che non ci possono essere dubbi di sorta sul fatto che Krešimir Ćosić è stato senza ombra di dubbio il più grande giocatore jugoslavo di tutti i tempi e oserei dire anche d’Europa, stante l’indole non proprio sportiva di Arvydas Sabonis.

Poi ovviamente ho cominciato a leggere avidamente e continuo a farlo, per cui mi rimane poco tempo. Fra l’altro adesso cominciano gli Europei femminili che sicuramente seguirò su Sky (vi ho già detto che guardo molto più volentieri le femmine in quanto loro, non avendo il fisico, sono costrette a giocare a basket per vincere? – e io del basket voglio vedere il gioco del basket, per l’atletica guardo molto più volentieri, e assiduamente, la Diamond League) e dunque il tempo sarà incredibilmente ancora di meno. Mamma mia, poi sabato comincia il Tour! Come farò? Meno male che sono in pensione (stilettata sarcastica, per chi non l’avesse capito). Mi sto divertendo come un matto, anche perché ci sono frasi per me mitiche gettate lì per lì, tipo come quando Ćosić, parlando di come veniva vissuto il basket a Zara, dice che all’epoca per un lungo era concesso il tiro solamente quando per sbaglio si trovava la palla in mano sotto il canestro avversario, o quando riferisce il motto di uno dei suoi primi coach, Tičina, che tuonava: “Tira chi ha tiro, chi non ha tiro va a rimbalzo!”, il che, per chi mi conosce, è musica celestiale per le mie orecchie.

Ma la chicca assoluta è stata la storia del famoso cronometro “double face”, storia che assolutamente non conoscevo. Ve la racconto in breve: la prima volta che lo Zadar vinse il campionato jugoslavo nella Coppa Campioni successiva andò a giocare a Sofia contro i campioni di Bulgaria del Črveno Znamenie (Bandiera rossa, guarda caso). A metà del secondo tempo sul punteggio di virtuale parità, chissà come, si fulminò il cronometro del tabellone e si continuò con il cronometraggio a mano a cura del tavolo locale con risultati facilmente immaginabili. Poi successe che nella successiva edizione della Coppa a cui partecipò lo Zadar contro lo stesso avversario nella partita d’andata i bulgari vinsero mettendo in azione il famoso cronometro a velocità variabile che si fermava con la squadra locale sotto e correva come un pazzo con la squadra locale avanti. E allora nel ritorno a Zara pensarono bene di rendere pan per focaccia. Caso volle che a più uno nel computo complessivo negli ultimi secondi con la palla in mano lo Zadar perse il pallone e un avversario si involò indisturbato in contropiede venendo fermato a metà campo dalla sirena che indicava la fine del match con gli ultimi secondi che erano letteralmente “volati”. I bulgari scatenarono un putiferio che però non ebbe alcun esito e da allora a Zara pensarono bene che l’invenzione bulgara potesse tornare loro utile magari in qualche altra occasione. Morale della favola: farsi fare fessi può anche andare, ma certamente no dai bulgari (che per tutti i popoli jugoslavi tutto sono meno che furbi, visto che sono sempre stati visti come una “dependance” dell’Unione Sovietica).

Sempre tornando a quanto successo sabato mi dispiace che la mia telecronaca “ad personas” di gara sette fra Venezia e Sassari sia durata un tempo solo. Sassari si è letteralmente squagliata nel secondo tempo dopo che già il primo era stato tutt’altro che scintillante. Non so cosa dire, perché ero veramente convinto che Sassari fosse semplicemente più forte. In gara sette evidentemente il Poz non ha trovato l’alchimia giusta per i cambi, che sono sembrati per una volta tanto fatti secondo preordinazione e non secondo le reali necessità del momento, forse a un dato momento, proprio sul più brutto, la nuvola dorata sulla quale volava la squadra sarda si è di colpo disciolta e sono venute a galla le magagne finora ben nascoste e forse anche un po’ di stanchezza, onestamente non lo so. So solo che Venezia ha fatto molto bene il compito, centrando le strategie giuste, i famosi piani-partita, di partita in partita sempre meglio, trovando in gara sette l’uovo di Colombo di far partire in quintetto Vidmar per dare peso alla difesa e cercando in attacco prima di tutto di aprire la scatola (e quando Vidmar ha messo a segno i primi 4 punti di Venezia si poteva già arguire che la tattica era quella giusta) e successivamente di colpire da fuori con Daye che ha giocato nei momenti giusti, facendo i tiri giusti, insomma con la squadra che ha giocato veramente bene con una logica che è impossibile confutare. Complimenti a questo punto ai veneziani che hanno superato indenni anche le spinte di Cooley rilevate da Stefano e, penso, da ben pochi altri (io no). Non c’è veramente niente da dire. Bravi, più che meritato.

Sempre a causa del basket scusate se sono un po’ di umore nero dopo che le mie sono riuscite a perdere contro l’Ungheria da più 14 e più 10 alla fine del terzo quarto, squagliandosi nel finale anche a causa della presenza in campo di cinque nane stanti i 5 falli della Evans e soprattutto l’infortunio, che a questo punto non so quanto grave, della Lisec, giocatrice assolutamente imprescindibile, e a tutto ciò da aggiungere la giornata no di un’altra giocatrice fondamentale quale Nika Barič, così che la sorellona del portiere dell’Atletico nulla ha potuto da sola. Sapete benissimo che per la storia stessa del basket femminile attuale in Slovenia e per come è stato tirato su da un sol uomo a Celje faccio un tifo sfegatato per questa squadra e soffro come un cane a vederla perdere partite da vincere, e anche senza particolare sforzo, tanto più che dopo, vedendo la partitaccia fra Italia e Turchia con le azzurre salvate da un finale monstre di Giorgia Sottana che non è detto che lo ripeta così facilmente nelle partite successive, sono sempre più convinto che le mie potevano senza sorprendermi vincere il girone. Se però non giocherà Eva Lisec perderemo tutte e tre le partite e io farò la solita figuraccia.

Sempre per lo sport femminile vedremo cosa farà la nazionale di calcio contro l’Olanda. Penso di averlo scritto molto tempo fa ricevendo un’accoglienza freddina per non dire sconcertata, mitigata solamente dal vostro rispetto personale nei miei confronti (visto a cosa servono le sconvenscion? I rapporti umani, quando ci si conosce di persona, sono molto più cordiali, amichevoli e produttivi anche quando si comunica via computer o telefonino). Asserivo che le donne italiane sono la parte forte dell’Italia e che l’Italia non starebbe in piedi senza le sue donne, abituate da secoli ad avere in mano le leve del comando con gli uomini affaccendati in guerre e guerricciole senza fine a causa della frammentazione politica millenaria dello Stivale, cosa questa secondo me testimoniata proprio dallo sport che nella sua storia ha sempre proposto donne incrollabili, vincenti e risolute, in numero infinitamente superiore a quello dei maschi. Per dire: non ricordo uomini che si possano paragonare in fatto di straordinaria attitudine vincente a ragazze come Sara Simeoni, Deborah Compagnoni, Valentina Vezzali, la stessa Federica Pellegrini, per quanto possa apparire (lo è?) antipatica, per dire dei primi nomi che mi vengono in mente, o come oggidì una Sofia Goggia o una Arianna Fontana. Tutta gente che non ha mai cannato un appuntamento importante, che nelle difficoltà si esalta e che dà comunque sempre il meglio di se stessa. E che soprattutto, anche di fronte a gravissimi infortuni che stroncherebbero un toro, mai cercano alibi per giustificare le sconfitte (poche). Le squadre femminili italiane mi danno la stessa impressione. Se ci pensate bene, ora abbiamo davanti a noi le cestiste e soprattutto le calciatrici, ma la stessa cosa si può dire della pallavolo e addirittura della pallanuoto, delle squadre femminili italiane tutto si può dire meno che se la facciano addosso (salvi ovviamente gli equilibri di gruppo – come già più volte detto un gruppo di ragazze è delicatissimo da gestire). Tanto hanno, tanto danno, addirittura a volte danno di più arrabattandosi in qualche maniera come hanno fatto da secoli immemorabili per trovare da dar da mangiare ai loro figli. Forse tutto sommato questa mia teoria antropologica a un tanto al chilo non è poi tanto campata in aria. Dal mio punto di vista, se viene confermata dallo sport, è molto, ma molto vicina ad essere quella giusta. Cartina di tornasole più veritiera del rendimento e soprattutto dell’atteggiamento nei confronti dello sport non ce n’è.