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Per cominciare innanzitutto mi scuso con chi avrebbe avuto voglia di sentire le mie opinioni olimpiche per farmi vivo solo adesso. Le ragioni sono molteplici: alcune, diciamo così, strutturali, altre contingenti. Quella strutturale fondamentale l’ha individuata molto bene Franz nel suo lungo contributo che mi vede fra l’altro d’accordo al 99% (non dico 100 per non dargli troppa soddisfazione): leggendo i commenti che venivano via via postati e che hanno visto un profluvio di trionfanti peana da parte degli estremi adoratori del basket NBA che purtroppo continuano a voler creare proseliti su questo sito invece di sbrodolarsi sui siti occupati dai loro simili e che sono riusciti a far tacere a suon di bombardanti contro-commenti in stereofonia tutti coloro che volevano in qualche modo ragionare (a parte Edoardo che, mi scuserà, ma più di qualche volta si mette sul loro stesso piano con ciò solo dando fuoco a ulteriore benzina), mi è semplicemente passato qualsiasi tipo di voglia. Io spero che i silenziati siano solo dormienti e che continuino a leggere quanto scrivo perché in questo modo posso sperare di non essere da solo sul mio pianeta che, mi sembra, sia sempre più su qualche lontana galassia, visti i commenti anche su autorevoli giornali che mi danno la straniante percezione di aver visto tutt’altra cosa rispetto a quella che è stata, almeno nella percezione comune. Mi consolo un po’ pensando che durante le Olimpiadi tutti si ritengono esperti di tutto, di tiro con l’arco, di judo, di badminton, per cui si ritengono anche esperti di basket pur avendo visto solo qualche partita di tanto in tanto, ma come consolazione è estremamente magra, se quella che ho percepito è la sensazione generale su cosa sia e dove stia andando il basket attuale.

 

La ragione contingente è che negli ultimi due giorni sono stato molto male. Ogni tanto mi viene una crisi della mia malattia cronica (Crohn), come sanno fra l’altro perfettamente coloro che tanti anni fa assistettero alla mia presentazione del libro a Staranzano, per cui mi si blocca la digestione e crea un putiferio interno con febbre, debolezza e vomito continuo. Per dire, anche se non è elegante, ma rende l’idea di come abbia affrontato il commento in diretta della finale: pensavo proprio di non potercela fare, essendo praticamente senza conoscenza, quando per fortuna a cinque minuti dalla palla a due iniziale ho vomitato l’anima con ciò creando quel breve sollievo che mi ha permesso di portare a termine la telecronaca in modo quasi normale. Ora che però uno si accinga a una telecronaca dopo aver appena vomitato non è che gli crei un’attitudine molto benevola nei confronti di quello che deve commentare. Per cui ricordatevi sempre dello stato d’animo con cui ho visto la finale, se per caso vi sembrerò troppo pessimista o cinico.

Allora, tornando a bomba. Qui lo dico, qui lo confermo e adoratori NBA andatevi tutti a far friggere: sono 44 anni che commento il basket olimpico e un’edizione talmente scarsa, parametrata ovviamente ai tempi storici che hanno visto progressi in tutti gli sport (il tempo con cui Spitz vinse i 100 stile libero è stato quasi eguagliato in frazione interna della 4x100 femminile, per non dire che Katie Ledecky avrebbe vinto a Monaco l’oro maschile sui 400 con sei metri di vantaggio sul secondo), non mi era mai stata da vedere. In tutto ho visto due partite di basket: la prima Australia-Serbia e il quarto di finale derby jugo. Per partita di basket intendo due squadre che si affrontano in modo logico, tentando di giocare in cinque contro cinque, che mettono in piedi accorgimenti vari sia in difesa che in attacco per limitare i punti forti avversari o per batterli dove sono deboli, che cercano tiri logici ad alta percentuale, che insomma giocano a pallacanestro. Per il resto deserto dei tartari.

E i fenomeni, allora? Quelli che hanno vinto a mani basse? Scusate, inguardabili. Senza un play (Irving è molto forte, ma è un due purissimo). Senza dunque uno straccio di gioco, hanno vinto semplicemente perché sono stati molto più bravi nel tiro a segno con le loro bocche da fuoco immarcabili (Thompson ha vinto da solo la semifinale, Durant che fino ad allora aveva fatto schifo ha distrutto i serbi in finale), e se i tiri non entravano, avevano sotto canestro dei bestioni che prendevano tutti i rimbalzi (sorprendo se dico che per me il loro MVP è stato DeAndre Jordan?). Uno che di basket se ne intende, tale Pau Gasol, dopo la semifinale ha detto: “Peccato, mai erano stati tanto battibili come stavolta”. Pura verità, passata inosservata. Continuando con la partita chiave, la semifinale, la mia impressione è che la Spagna l’abbia giocata per perderla, e qui avrei molte domande da fare a Sergio Scariolo. La prima, che si impone da sé quasi urlando, è: ma perché, di grazia, ha fatto giocare Rubio? Un giocatore che, più passa il tempo, più mi sembra della stessa categoria di Bargnani: bravo nel suo, ma totalmente inutile, nel senso che la sua presenza in campo non aggiunge nulla al gioco di squadra, ma semmai lo toglie. C’è qualcuno che mi sappia dire il plus-minus di Rubio nella partita chiave? Lasciamo stare Rodriguez che, pur non giocando certamente al meglio, è mille volte meglio come play, ma lo stesso Calderon, con una gamba sola, è infinitamente più produttivo. Perché non ha giocato mai? E Abrines? Sarebbe stato, maledizione, certamente molto meglio dell’evanescente e presuntuoso Rudy. Allora: con Rubio in campo la Spagna va sotto di nove nel primo quarto (poi gli altri tre li vince di tre, altro dato che nessuno ha sottolineato), poi in qualche modo rimedia, ma all’inizio dell’ultimo quarto Scariolo rimette in campo Rubio e tiene Gasol in panchina!! Sotto di nove! A 10 minuti dalla fine! Scusa, ma come pensavi di vincere con il quintetto che ha iniziato l’ultimo quarto? Con Rubio girovagante in difesa, tanto che Lowry gli ha segnato due volte in sottomano dopo aver palleggiato su e giù per il campo in una perfetta imitazione del gioco dei quattro cantoni. Spagna sotto di 15 e buona notte suonatori.

La finale, per quanto scritto sopra, l’ho sofferta. Sia per le mie condizioni fisiche che per quanto ho visto in campo. La Serbia attuale è la classica carne da cannone per gli USA. Non ha consistenza sotto canestro, per cui i bestioni sopra nominati hanno fatto il bello e il brutto tempo (anche con qualche spinta di troppo, ma attaccarsi all’arbitraggio sarebbe patetico – per quanto sia stato comunque un arbitraggio in generale totalmente scadente con gli arbitri extra europei troppo soggiogati dalla fama dell’NBA per fischiare sempre le clamorose infrazioni di passi che combinavano), ma soprattutto non ha tiro, cosa che per una squadra serba è inaudito: Đorđević, che mi permetterete rimane sempre il miglior allenatore maschio visto alle Olimpiadi, perché solo lui poteva cavare sangue dalle rape, portare cioè i serbi addirittura in finale, ha selezionato una squadra con molte guardie e ali forti in difesa (Marković, Kalinić, Simonović), giocatori che gli hanno fra l'altro permesso di annichilire la forte Australia in semifinale (Dellavedova e Mills non pervenuti), che sono però tutt'altro che tiratori. Come tiratore la sua arma principale era Bogdanović che nella finale ha messo 0 tiri da tre, tutti fra l'altro perfettamente aperti. E allora come potevano fare canestro? E infatti non ne hanno fatti. Senza contare che già durante il riscaldamento si vedevano facce rassegnate, contente di essere arrivate così lontano, facce che sono diventate quelle di cani bastonati appena Durant ha messo dentro due siluri da nove metri a metà del secondo quarto.

Sorprenderò qualcuno, ma sono sicuro che la finale sarebbe stata molto più bella e incerta se a giocarla fossero stati gli Aussies che infatti sono la squadra più sfortunata di queste Olimpiadi, del tutto immeritatamente giù dal podio. O forse no: non è certo colpa dei serbi se in semifinale non sono letteralmente esistiti. C’è stato probabilmente un attacco di uno stormo di Zika (la ridicola scusa dei golfisti) che per quella partita li ha debilitati.

In generale il quadro è sconfortante: le nazioni guida nel basket extra USA sono ormai nelle mani di veterani alle loro ultime apparizioni. Di giovani interessanti non se ne è visto neanche uno. Cosa del resto comprensibile se si pensa che ormai vanno tutti da bambini nell’NBA dove il loro progresso tecnico si arresta totalmente, costretti come sono a giocare il gioco scarno e primitivo in voga da quelle parti. Il nome che viene subito in mente è quello di Mario Hezonja, giocatore dai numeri incredibili che dopo un anno di NBA sembra regredito a un gioco da puro minibasket, molto, ma molto peggio di quello che faceva nel Barcellona, quando negli ultimi tempi sembrava aver finalmente capito come sfruttare le sue doti a vantaggio della squadra senza tirare sempre e comunque a capocchia. Uno con i suoi mezzi fisici, fra l’altro, che gli permetterebbero spesso e volentieri di andare a schiacciare in entrata a difesa schierata.

Insomma per vedere del basket ho dovuto guardare le femmine. Femmine che mi hanno riconciliato con il basket USA. Come ho detto in telecronaca le femmine negli States hanno tutta una serie di vantaggi immensi rispetto ai loro colleghi maschi, vantaggi che però purtroppo per loro derivano tutti dalla straripante differenza negli emolumenti percepiti. Intanto la Lega WNBA è un riempitivo estivo che crea sicuramente interesse, ma che non fa certamente sì che le squadre si accapiglino per i prospetti del college per scritturarli in anticipo. Con il risultato che le ragazze finiscono tutte il loro curriculum di studi che porta loro a essere più istruite sia nella vita che nel basket. In più, essendo la WNBA un campionato estivo, nella stagione invernale possono giocare in giro per il mondo acquisendo conoscenze del basket internazionale che i loro colleghi maschi si sognano, conoscenze che, integrate con quanto appreso nei quattro anni di college, ne fanno delle giocatrici complete, bellissime da vedere. In più il basket femminile ha fatto in questi ultimi anni progressi inimmaginabili, per cui si vedono le donne fare più o meno quanto fanno gli uomini salvo ancora qualche piccola differenza, tipo la mancanza, causa carenza di forza fisica (per ora, perché qualcuna che ogni tanto lo fa già la si vede), di possibilità di dare il colpo di reni in aria, soprattutto sotto canestro, per effettuare tiri in hesitation più morbidi, senza ogni volta distruggere il tabellone a suon di bordate. Per ammirare dunque un reparto dietro come lo sogno io ho dovuto vedere la straordinaria coppia USA Whalen-Taurasi, la prima un play delizioso che, nelle partite viste mai ha fatto una forzatura, ma sempre la cosa giusta, segnando anche implacabilmente quando era sola, e la seconda una giocatrice semplicemente micidiale, a cui basta un centesimo di secondo per segnare da ogni parte, con la differenza però rispetto ai maschi che tira sempre a ragion veduta e mai a scapito di qualche compagna meglio piazzata.

 

E per finire: chi è stato il miglior coach di queste Olimpiadi? Tenendo fuori concorrenza il santone USA Auriemma che gran parte del lavoro lo ha fatto da anni a monte allenando prima o poi tutte le sue attuali nazionali a Connecticut, per cui la squadra gioca il “suo” basket per ovvia forza di cose, il mio personale Oscar va a Marina Maljković che ha portato in pochi anni la Serbia femminile ai massimi vertici mondiali. Ascoltarla durante i time out è una goduria, per fortuna conoscendo la lingua. Intanto è sempre fredda e calma e i suoi consigli sono semplici, mirati, tutti facilmente comprensibili. E quando le cose non vanno bene, come durante la semifinale contro la Spagna, non è che si arrabbi: ho riso come un pazzo quando ha definito il modo con cui giocavano le sue ragazze »igrate kao iznenađene i zbunjene”, cioè tradotto giocate come foste sorprese e non sapeste dove vi trovate (zbunjen è un aggettivo serbo bellissimo e praticamente intraducibile che indica colui che ha l’occhio vacuo perché non si rende conto di dove sia e di cosa stia accadendo intorno a lui). Il tutto senza alzare la voce neanche di un decibel. Grandissima e impagabile.