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Mi rifaccio vivo un po' in ritardo e mi scuso. Le ragioni? Una che ero impegnato nei vari fine settimana quando si avrebbe più tempo per scrivere, un'altra che aspettavo di avere più carne al fuoco, leggi sapere come sarebbero finite le prime partite dei quarti di Eurolega e chi si sarebbe qualificato per le Final Four dell' NCAA, l'ultima e la più importante che mi mancava l'ispirazione, che cioè non sentivo la necessità di dire la mia su alcunché.

Ora mi avete dato un assist straordinario: la discussione sull'evoluzione del ruolo di play. Allora: per prima cosa bisogna avere chiare alcune cose, per sapere bene di cosa si parla. Come forse saprete, quello che noi intendiamo per playmaker nel basket americano non esiste. Esiste cioè la parola, ma si riferisce alle capacità singole del giocatore che dal loro punto di vista può giocare in un ruolo qualsiasi, mentre quello che noi intendiamo per play, cioè il numero uno dei cinque, loro lo chiamano semplicemente point guard, cioè guardia che gioca di punta, cioè dietro agli altri. La loro definizione riguarda dunque il ruolo quasi topologico del giocatore e non c'entra con la sua capacità di costruire il gioco. Così, detto di sfuggita, loro chiamano il giocatore in posizione di centro post, cioè semplicemente palo, mentre per noi è pivot, dal francese perno, e non v'è chi non veda che già dalla definizione noi attribuiamo al pivot un ruolo nella costruzione del gioco che in America sparisce. Devo dire che mi sono sempre chiesto quale valore e quale significato anche storico sottenda a questa differenza e da cosa dipenda. Non ho mai saputo trovare una risposta: in tutti gli sport di squadra c'è bisogno di uno, se non di più playmaker. La pallavolo ha il palleggiatore, la pallamano il terzino centrale, l'hockey il centro, cioè il componente centrale della linea d'attacco che è il vero perno attorno a cui si creano i giochi, il rugby ha il mediano di apertura, il football il quarterback in attacco ed il linebacker in difesa, addirittura il calcio ha bisogno del play, per rimanere in Italia da Antognoni a Pirlo, per non parlare dei vari Didì, Bobby Charlton, Cruyff ovviamente, forse il più grande di tutti (a parte Di Stefano, di cui però mi ricordo pochissimo), Giresse (a dire il vero quella Francia aveva anche Tigana) finendo ovviamente con quello straordinario play da cineteca che è Xavi. Sempre nel calcio serve anche il play difensivo che una volta era per definizione e ruolo il libero e la mente non può non andare subito a quello straordinario e sempre compianto giocatore che era Gaetano Scirea (e Beckenbauer dove lo mettiamo?). Forse la ragione potrebbe annidarsi nella concezione stessa che gli anglosassoni in generale e gli americani, gente di frontiera, in particolare, hanno della gestione di un gruppo, che cioè comanda quello più capace indipendentemente dal ruolo gerarchico che ricopre. Noi Europei, più disciplinati ed irregimentati, abbiamo più facilità a digerire il concetto che in un gruppo ci sia comunque un caporale che comanda a prescindere dalle sue capacità rispetto a quelle di coloro che gli sono sottoposti. La cosa, ripeto, mi ha sempre intrigato e sono aperto a qualsiasi tipo di ipotesi plausibile che venga espressa. (Per continuare a leggere clicca sotto su "leggi tutto")

Secondo la nostra concezione il play è dunque la point guard, per cui facciamo un po' di confusione. Nel senso che guardando il basket americano prendiamo per scontato che l'uno sia il play, mentre per loro non è detto affatto che lo sia. Personalmente da europeo penso che la nostra concezione sia quella giusta, perché ci permette di avere se non altro in mano una barra di timone, nel senso di metro di giudizio, per orientare la nostra visione del gioco che in America si sta perdendo. Per noi il play è colui che per definizione detta i ritmi della squadra, crea gioco ed opportunità ai compagni in quel momento più in palla o comunque marcati da avversari inferiori, per cui il gioco comincia col mismatch (non tanto di statura, quanto proprio di capacità tecnico-atletiche) dell'accoppiamento difensivo a noi più favorevole per poi creare opportunità anche agli altri via via che gli avversari si adeguano. Per far ciò bisogna avere ovviamente grande visione di gioco, grande capacità di letture immediate, bisogna però avere anche carisma per avere la squadra in pugno. Della serie: è inutile che io play predichi la calma e l'attacco ragionato, se poi la stella spara un tiro alla pene di segugio ed il coach non gli dice niente. No, se il coach non dice niente devo affrontarlo io a brutto muso, magari sbraitandogli in faccia: "Pezzo di m...., che tiri del c.... fai? La prossima volta che lo fai ti spacco il naso!" o qualcosa del genere. Quando la stella cala le orecchie quello vuol dire che sono un play vero, quando mi risponde per le rime è meglio che cambi mestiere. Questo per dire che fare il play vuol dire molto di più che fare strani balletti con le mani per chiamare gli schemi che nel frattempo mi sono stati suggeriti dalla panchina. Mi ricorderò sempre l'aneddoto che mi ha raccontato il mio amico coach Max Fantini, presente in Spagna alla famigerata partita fra Grecia e Slovenia, persa dagli sloveni dopo esser stati a più 11 a due minuti e mezzo dalla fine. Era dietro la panchina greca quando Yannakis (allora coach, ma per i pochi che non lo sanno leggenda vivente del basket greco, dunque uno che di carisma non ne aveva poco) chiamò un timeout in situazione ormai disperata. Cominciò a scrivere schemini sulla lavagnetta quando arrivò Papaloukas, gli gettò la lavagnetta per terra e gridò ai compagni qualcosa che si poteva facilmente intuire dai gesti che fece: "Ragazzi, d'ora in poi la palla la voglio io!" Ed infatti i greci cambiarono marcia e vinsero.

Il play è dunque prima di tutto il leader della squadra, sia fuori che in campo. Nella storia ci sono stati play che segnavano ad ogni morte di papa, ma che erano fondamentali per il gioco della loro squadra nel ruolo di veri e propri direttori d'orchestra. Giovani, credetemi: giocatori come Aldo Ossola e Gianfranco Pieri non ce ne sono né ce ne saranno più. Se è per quello neanche Marzorati o Caglieris.

Ovviamente il basket è andato avanti ed oggigiorno nessuno può più permettersi di essere battezzato dalla difesa avversaria se non tira (anche una volta se è per quello erano tutt'altro che stupidi, ma voglio spezzare una piccola lancia a favore del basket moderno), per cui il play deve avere anche tiro e, se possibile, penetrazione, tiro e penetrazione che devono però essere il fine secondario del suo gioco, per prima cosa deve cioè fare in modo di far giocare la squadra e la conclusione personale deve arrivare come conseguenza degli adeguamenti difensivi avversari e assolutamente non come opzione primaria. Secondo me questo è il nocciolo della questione (ci sono arrivato finalmente!): per me il play è dunque, oltre che leader morale, un giocatore al servizio esclusivo della squadra apportando la sua quota di punti solamente quale soluzione secondaria delle varie opzioni di gioco. Per dire: la partita perfetta del play è secondo me assolutamente indipendente dai punti segnati, anzi normalmente quando il play segna molto vuol dire che qualcosa nella costruzione del gioco non ha funzionato. Se ci fate caso e prendete in esame i play "veri" accostando il loro tabellino personale al risultato della partita, quando segnano molto non è affatto detto che la loro squadra abbia vinto. Se però (ripeto, i play "veri", quelli che fanno giocare la squadra) segnano poco potete star sicuri che la loro squadra ha vinto. Il che è l'unica cosa importante per loro.

Chiaro, questo è un discorso generale e le eccezioni si sprecano. Per dare alcuni esempi: in Jugoslavia oltre a play "canonici" com'era Slavnić (che infatti fuori dal campo era sempre al centro delle discussioni del gruppo e che era quello che decideva cosa si faceva dopo la partita, tutti assieme), ci sono state squadre che avevano un play nominale che dettava i ritmi, ma che poi avevano il play vero in altri ruoli, tipo la grande Jugoplastika con Sretenović play nominale e Kukoč play vero. In America oltre a squadre imperniate sul play anche nominale, tipo i Celtics di Cousy o i Lakers di Magic, c'erano i Celtics con play nominale chiunque e play vero Larry Bird eccetera. Per non parlare di Michael Jordan, perché più leader di lui non ne ho mai visti. Ed infatti il play nominale era semplicemente un suo scudiero, o paggetto che dir si voglia (per questo fra l'altro ha fatto di tutto per stroncare Kukoč e degradarlo a giocatore unidimensionale).

A questo punto penso che la conclusione sull'evoluzione del ruolo, almeno dal mio punto di vista, sia ovvia: finché il basket sarà tale, avrà sempre bisogno del play, dunque non so di che evoluzione si voglia parlare. Senza play non si gioca a basket. Uno che comanda deve sempre esserci, se poi gioca da uno tanto meglio, essendo quello che anche per semplici ragioni di posizione in campo è quello che ha la miglior visione periferica di cosa stia succedendo. Per questo parlare di Rose o Westbrook quali play (James lo lascio stare per non essere incriminato e messo in croce – pensate un po', sono tanto fuori di testa da credere che il vero e occulto play di Miami sia Bosh!) mi fa venire l'orticaria. Avete nominato Kidd e Nash: sono d'accordo, ma solo fino a un certo punto. Soprattutto il secondo negli ultimi tempi ha cominciato a farla fuori dal vaso inseguendo numeri e statistiche dimenticando il suo compito precipuo, che sarebbe sempre quello di far vincere la squadra. L'assist spettacolare ti fa andare nei highlights, ma raramente vince le partite.

Ci sono in giro play veri? Certo che ci sono, dal neoscoperto Lin al mai abbastanza decantato Kendall Marshall che ai miei occhi è il manuale del play come lo intendo io. Cioè volete vedere dal vivo i concetti sopra espressi? Guardate Marshall. (Il piccolo Stockton? Può sicuramente farsi, ma penso che rimarrà schiacciato dalla grandezza del padre). Oppure il mio pallino Skylar Diggins di Notre Dame femminile, sempre che si ricordi di fare la play e non la salvatrice della patria. Sono pochi però, soprattutto in Europa e la cosa mi preoccupa non poco. Non riesco a capirne le ragioni, o meglio ho una teoria che mi atterrisce: che cioè gli istruttori odierni non abbiano la più pallida idea di cosa un play sia o di cosa dovrebbe essere, per cui confondono i ruoli pensando che il play sia quello che parte in entrata e poi scarica ad uno rimasto solo (Iverson? Chris Paul? Hackett? Poeta?) e che sia comunque quello che deve segnare più di tutti, mentre invece, come detto, il play dovrebbe segnare solo quando gli altri non ce la fanno (da buon leader) oppure viene lasciato solo dalla difesa avversaria. Oggigiorno di play veri, a parte Teodosić, vero ultimo dei mohicani, non ne vedo più. Uno, per carisma e capacità tecniche, potrebbe essere Sergio Rodriguez del Real ed infatti Pablo Laso, che ai suoi tempi era un play tutto fosforo, prova disperatamente a ripulire il suo gioco ed a fargli continui lavaggi del cervello per costringerlo a rinsavire. Se poi ci riuscirà, con tutte le pessime abitudini che ha preso nel frattempo, è tutto un altro discorso. Si vedono play abbastanza atipici ed ibridi tipo Diamantidis (supergiocatore comunque, non fraintendetemi) o Spanoulis, per non parlare di giocatori che tutto sono fuor che play tipo Rubio o Marcelinho. D'Antoni e Papaloukas, dove siete? Reincarnatevi, per favore!

Sono stato lungo, per cui sull'NCAA che fra l'altro per ragioni varie ho visto molto poco a livello di Sweet Sixteen (ho visto solo il rullo di Kentucky ai danni di Baylor) parlerò magari a giochi finiti. Una sola cosa: quell'Anthony Davis è veramente un giocatore della madonna! Quando a me capita di guardare uno e dire continuamente fra me e me: "C...., ma questo, 'un vedi aho, quanto è forte! Ammazza, quanto è forte!" e poi scoprire che si tratta della sicurissima futura prima scelta, allora vuol dire che qualcosa nel ragazzo c'è. Salvo avere poi il solito moto di rabbia pensando a cosa un fenomeno del genere potrebbe diventare se solo finisse i quattro anni di studi perfezionando il suo gioco e non andasse poi a rincitrullire nell'NBA a fare il fenomeno da baraccone. Al che mi viene da piangere.