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Pado! Potevi anche quotarlo sotto l’1, attorno allo 0,25… Anche se… anche se… la tentazione di continuare è gigantesca, visto che è da tempo immemorabile che non ricordo un’”agora” così vibrante e numerosa, condita da punti di vista differenti, tutti legittimi e soprattutto motivati, con una dialettica molto articolata e convincente, insomma sono molto, molto contento. Penso che comunque sia arrivato il momento di smetterla, non tanto perché quanto letto non sia stato interessante, anzi, è esattamente vero il contrario, quanto perché, come è purtroppo sempre inevitabile quando si comincia a parlare di politica, dopo un po’ di tempo nel quale ci si sforza di argomentare e di capire le posizioni degli altri ci si rifugia nel proprio orticello e gli interventi si riducono sempre di più al classico disco rotto che ripete sempre le stesse cose. Non credo che ci sia mai stato un dibattito su cose politiche che abbia fatto cambiare idea neanche di un millimetro a ognuno dei partecipanti. Si ascoltano gli altri, ma poi si ritorna sempre a quanto si è elaborato personalmente in passato e, per quelle belle parole inglesi di Pado che non ricordo (avete notato come gli americani, più che gli inglesi, trovano sempre parole magnifiche e magniloquenti per esprimere poi alla fin fine concetti anche banali, di puro buon senso? Le “spaziature” nel basket sono l’esempio più eclatante, usate al posto della nostra pedestre esortazione ai giocatori “andate dove non c’è gente e non statevi fra i piedi!” – inciso: ecco perché nella sua sostanza detesto il pick-and-roll, ma non ditelo a nessuno), nessuno ha la minima voglia di cambiare di una virgola quanto si è costruito nella sua mente dopo molti sforzi cerebrali. Che costano molta fatica.

 

Chiaro che la stessa identica cosa vale per me, per cui qualsiasi cosa diciate rimarrò sempre della mia idea che il suffragio universale è una disgrazia e che il ’68, nella sua sostanza, di fronte a tantissime cose buone che avrebbe potuto fare per le idee che ne erano alla base ne ha fatte purtroppo di molto peggiori e soprattutto di più lunga durata con susseguenti conseguenze di cui ancora adesso sentiamo l’onda lunga. Ma tant’è. Del resto nella società qualsiasi tipo di integralismo e fondamentalismo (“adesso vi diciamo noi come si farà, perché noi siamo nel giusto e non discutete!”), che sia stato di matrice ideologica o religiosa, ha sempre portato solo sconquassi. Lo dice la storia. Basta leggerla.

Devo ancora una precisazione sui miei gusti musicali, in merito alla mia risposta alla domanda di Llandre su come io giudichi la musica dagli ’80 in poi. Per prima cosa un “mea culpa”, avendo usato parole troppo semplicistiche (e immaginarsi se spaccatori di capello in quattro come siete voi me la lasciavate passare liscia) quando ho detto che voglio emozioni e gioia di vivere. Con quest’ultima espressione non intendevo assolutamente dire che la musica deve farmi da “droga” per rendermi felice, ma da “droga” per farmi star bene, e intendendo con ciò farmi sentir “vivo”, una persona cioè capace di provare emozioni quali gioia o anche tristezza e malinconia, ma comunque sensazioni “vive” e profonde. Di farmi sentire capace di sentire e di provare qualcosa. Per seconda cosa un rimprovero a Llandre: nella sua domanda mi sembrava ovvio che intendesse la musica creata da gente che si era palesata in quegli anni. Lui invece mi sciorina i Police, gli U2, Springsteen e compagnia bella. Ora: tanto Sting che Bono&Edge che il Boss e, se vogliamo metterci dentro anche David Bowie o magari i Rolling Stones, sono più o meno gente della mia generazione. Alla faccia del nuovo che avanza! Non pensavo proprio che dovessero essere presi in considerazione. E qui aggiungo, sapendo benissimo che mi attirerò il disprezzo e l’odio nonché la patetica commiserazione da parte degli amici della musica classica, che parimenti ritengo che la musica classica sia morta con Mahler e con i grandi “sovietici” Prokofjev, Šoštakovič, Hačaturjan, Stravinskij, cioè verso gli anni ’30 del secolo scorso. Ecco, questo sarebbe un altro bello spunto di dibattito. Anche se so che i musicofili ad oltranza mi spolperanno vivo, dicendo che non capisco niente. Cosa verissima, ma, ripeto, io nella musica voglio provare emozioni, e l’unica emozione che provo quando uno mette la testa nel piano e pizzica le corde apparentemente a caso oppure sta seduto per mezz’ora davanti al piano senza neanche toccare una nota, ripeto, l’unica emozione che provo sarebbe quella di scendere sul palcoscenico e cacciargli una strepitosa pedata nel sedere. Fra l’altro fra i creatori di “happening” questa è anche una cosa che vogliono provocare, per cui farei il loro gioco. Sì, ma con muchissimo gusto. Della serie rivoglio Beethoven, Mozart, Chopin…e gente che scriva musica del genere, se ne è capace. Mi basterebbero anche Liszt, Brahms, Mendehlsson, Schumann, Debussy se è per quello.

Passando al nostro amato sport comincio subito con il dire che invidio l’atletica e il tennis. Guardo assiduamente la Diamond League, perché la regina degli sport, lo sport dal quale nascono tutti gli altri (sulla terra ferma), mi è sempre piaciuta per la fondamentale ragione che non ammette discussioni da bar. Uno ha corso in tanti secondi, saltato tanti metri e lanciato tanti metri lontano e stop. Con la magnifica conseguenza che si possono fare tranquilli e indiscutibili paragoni fra epoche diverse. Basta prendere in considerazione la tara della variazione delle condizioni di gara, con la differenza enorme fra le piste in carbonella e quelle attuali che sono quasi dei tappeti elastici, con la differenza enorme data dal progresso delle metodologie di allenamento e degli aiuti esterni in termini di dieta e di aiuti farmacologici (che non sono solo doping, per cui qui non intendo essere malizioso e non alludo a nulla – il doping è un discorso a parte che per il momento non va preso in considerazione), e poi si possono trarre più che plausibili conclusioni. Tanto per dire, guardando anche i filmati d’epoca, è difficile dire che ci sia stato qualcuno al mondo che abbia corso gli sprint in modo migliore di J.C., detto Jessie, Owens. O che abbia corso nel mezzofondo meglio di Gebreselassie o Kenenisa Bekele. Poi nello sprint in epoca moderna è arrivato quel “freak” della natura (statura da cestista e reattività di piede da nano) di Usain Bolt che nessuno può più discutere che sia stato il più grande velocista di tutti i tempi con giri di vantaggio, numeri anche alla mano. 

I numeri ci dicono anche tante altre cose, e la cosa che più salta agli occhi è che nell’atletica è sempre più difficile fare meglio rispetto al passato con il quale ci si può paragonare, leggi il passato recente nel quale le condizioni di gara e di allenamento erano più o meno uguali a quelle odierne. Ci sono settori dell’atletica che neanche lontanamente arrivano ora come ora a quanto ottenuto nel passato neanche tanto recente. Ci si attende da tempo immemorabile che qualcuno batta il record di Sotomayor nell’alto (con i saltatori attuali che quando arrivano a 2 e 40, 5 centimetri in meno del record, si grida già al miracolo), o quello di Powell nel lungo, o quello di Bubka nell’asta o ancora quello di Edwards nel triplo (questi ultimi due bianchi, fra l’altro, cosa questa su cui molto meditare). Come a dire tutto il settore dei salti vive un’epoca che non andrà certamente nella storia dell’atletica. Come pure il mezzofondo, se ci pensate bene: non è più record del mondo, ma il tempo dell’attuale Presidente della IAAF sugli 800 metri, se ripetuto oggidì, garantirebbe con distacco l’oro olimpico o mondiale. Come pure se corressero oggi Aouita e El Guerrouj vincerebbero a mani basse. Ovviamente lascio da parte i lanci, perché qui, con l’innegabile per quanto ancora insufficiente stretta che c’è stata sul doping, i numeri non possono essere paragonati per ovvie ragioni. Sul settore femminile non mi soffermo, perché anche qui il doping a tappeto passato (ricordate Flo-Flo, per non andare ai soliti cliché sulle virago della DDR?) ha falsato qualsiasi termine di paragone. Per non parlare delle donne che hanno marce in più dovute ad anomalie genetiche delle quali ho già parlato che, volenti o nolenti che siamo, inquinano il panorama (perché non pensiate che alludo solo alla Semenya, guardate vecchi filmati di Tamara Press o Jarmila Kratohvilova). Sarà anche crudele dirlo, ma nella sostanza è così. E dunque in definitiva di tutti gli atleti di questo secolo l’unico che sarà ricordato nella storia sarà Bolt. Punto e basta. Lo dicono i freddi numeri.

Anche il tennis, sport individuale nel quale ci si batte a colpi di racchetta e il più forte vince, e dunque anche qui discussioni non ce ne possono essere, si presta benissimo a paragoni. Certo, bisogna lasciar da parte tutto il periodo nel quale il materiale, leggi soprattutto racchette, era palesemente inferiore ai bazooka che impugnano oggi. Visto che una volta, con le racchette di legno e il piatto corde molto più piccolo e dunque con il “soft spot” ben più difficile da centrare, si giocava molto più di tocco, mentre oggi, con le palle che sibilano a velocità impressionante, si deve essere molto più atletici magari a scapito della sensibilità, le differenze sono tali da rendere praticamente impossibile ogni tipo di paragone. Semplicemente si giocava uno sport diverso. Sarebbe come fare paragoni fra giocatori di squash e giocatori di badminton. Non ha senso. Però dai tempi di Gene Mayer e del suo racchettone, che hanno dato il là ai tempi moderni, i paragoni cominciano ad avere senso e penso che negli ultimi 30-35 anni si giochi più o meno allo stesso gioco. E questi paragoni ci dicono che una volta c’erano Sampras, Agassi, Ivanišević, Krajicek, McEnroe nel finale di carriera, Rafter, tutti giocatori fortissimi che hanno fatto un’epoca. E poi sono venuti i fab four, poi diventati tre con i problemi di Murray, che comunque era un gradino più sotto rispetto agli altri tre e di cui si può solo dire che è nato nell’epoca più sbagliata nella quale potesse nascere. In altre epoche avrebbe spopolato. Ma vi rendete conto che nel 2000 Wimbledon lo vinse Hewitt in finale su Nalbandian (se non sbaglio), mentre l’anno dopo vinse Ivanišević che partecipò al torneo solo grazie ad una wild card? Che sfracelli avrebbe fatto Murray allora? 

Ora siamo nel 2019 e ieri, scrivo proprio dopo che Serena ha fatto tappezzeria in finale contro la Halep che deve aver avuto nel frattempo il supporto della miglior psicologa di tutti i tempi, vista la straordinaria perdente che era stata sempre, abbiamo visto 71 anni in due rigiocare un match che 11 anni fa (!) era stato considerato forse il miglior match di tutti i tempi a Wimbledon. E ieri hanno giocato probabilmente il secondo miglior match di sempre. Guardar giocare Roger e Rafa è stato per me quasi surreale. Era un gioco di un altro pianeta, un gioco che probabilmente non vedremo più, almeno per me nello scampolo (speriamo qualcosa di più lungo…) di vita che mi rimane. Dopo una simile prestazione e vedendo nel contempo Nole fare altrettanto contro avversari che nei suoi confronti non sono esistiti (oddio, forse il sorteggio se l’è pilotato lui da solo…) uno si chiede che tipo di faccia tosta hanno quelli che parlano tanto di next gen? Ma non si rendono conto di essere ridicoli? Nel tennis sta succedendo ora quello che succede più o meno in ogni sport quando una generazione baciata dal talento accompagnato da una ferrea etica professionale e da una straordinaria motivazione lascia terra bruciata dietro a sé, nel senso che ogni nuovo che si trova a prendere bastonate in faccia quando se la vede con il fenomeno inevitabilmente si smonta. Quando poi questa generazione, per ineluttabili limiti di età, smette, allora nasce un vuoto che è impossibile riempire in breve tempo. Bisogna attendere che arrivi gente fondamentalmente senza memoria storica, senza memoria degli esempi che fornivano i campionissimi, e dunque abbastanza sfrontata per pensare di poter fare ancora meglio. E allora riparte il progresso.

Penso che nel basket sia lo stesso, ma qui purtroppo non ci sono dati inconfutabili a dimostrarlo. Penso che la grande generazione del Dream Team in America con la coda dell’allora giovanissimo Kobe abbia lasciato dietro a sé la famosa terra bruciata di cui sopra. E allora siamo entrati in un circolo vizioso, per cui, essendo pressanti le esigenze imbonitorie di far credere che lo spettacolo, anche con il ritiro dei fenomeni (cosa farebbero oggi Ewing o Karl Malone, by the way?), continuava sempre scintillante, venivano pompate le tre quarti calzette (essendo fondamentalmente tutti gli altri mezze calzette) presentandole come fenomeni. Cosa che questi alla fine si convincevano di essere smettendo di progredire tecnicamente diventando fenomeni mediatici o da baraccone, Shaq e “The Answer” i primi che mi vengono in mente. Si è cancellata volutamente la memoria storica proprio per nascondere nel modo più radicale possibile che i nuovi rispetto a Bird, Magic o MJ erano fondamentalmente dei brocchi (ripeto, paragonandoli ai più grandi di sempre) e la cosa è, secondo me, degenerata. E’ chiaro che rispetto alla generazione post leggende alcuni di quelli che vengono adesso sono meglio, cosa tutt’altro che impossibile, visto il livello medio assoluto di paragone, ma solo guardando un po’ del basket anni ’80 e paragonandolo a quello odierno un occhio qualsiasi che non sia in malafede vede la stridente e angosciante differenza. E’ esattamente come se si paragonasse il Federer-Nadal di ieri ad un match Auger Aliassime (che è secondo me quello assolutamente meno peggio) contro Šapovalov e affermare che sono la stessa cosa. Eppure nel basket, facendo proprio paragoni improponibili del genere, ci riescono, non solo, ma anche la massima parte della gente ci crede. Ma come fanno?